Giordano Bruno

by gabriella
bruno

Giordano Bruno (1548 – 1600)

Ci sono infiniti mondi, dunque l’universo è senza centro, senza gerarchia. Le gerarchie terrene che si pretendono specchio delle celesti sono dunque senza fondamento.

L’uomo non è il fine del creato, non essendo diverso dagli altri viventi, se non per la mano e per la sua libertà.

Le ragioni del rogo del 17 febbraio 1600, 424 anni fa.

L’8 Febbraio 1600, dinanzi ai Cardinali inquisitori ed ai consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, Giordano Bruno fu costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza di condanna a morte. Alzatosi, indirizzò agli inquisitori l’ultima ammonizione:

Maiore forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam [Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla].

Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il Crocefisso, il 17 Febbraio, con la lingua in giova – inchiodata ad una tavoletta di legno – perché non potesse accusare i suoi carnefici, fu condotto in Campo de’ Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo; le sue ceneri gettate nel Tevere.

 

Perugia a Giordano Bruno

Perugia: la targa commemorativa del martirio del filosofo collocata davanti all'ingresso della basilica di San Domenico

Perugia: la targa commemorativa del martirio del filosofo collocata davanti all’ingresso della basilica di San Domenico

Perugia - L'ingresso della basilica di San Domenico affacciata su Piazza Giordano Bruno

Perugia – L’ingresso della basilica di San Domenico affacciata su Piazza Giordano Bruno

Perugia ha dedicato a Giordano Bruno una piazza e una targa. La piazza è, non casualmente, quella in cui si affaccia la basilica di San Domenico. La targa recita:

Giordano Bruno che nell’esame dell’Assoluto avversò la dommatica filosofia, precorrendo vittorioso i tempi, trovi in questa piazza ove imperarono i suoi carnefici glorificazione e ricordanza.

I partiti popolari posero li, 17 febbraio 1907

 

1593-1594: Bruno e Campanella vengono rinchiusi nel carcere del Sant’Uffizio

In poco più di un anno, tra il febbraio 1593 e l’autunno 1594, due dei più grandi filosofi del rinascimento vengono rinchiusi nel carcere romano del Sant’Uffizio: Giordano Bruno e Tommaso Campanella.

Entrambi originari del regno di Napoli, entrambi nati da famiglie del popolo, avevano potuto studiare solo vestendo l’abito domenicano. Bruno e Campanella subirono una lunghissima carcerazione – quasi trent’anni il filosofo calabrese, nove anni il nolano – ma, pur tra terribili sofferenze, si mantennero fedeli al loro pensiero e all’esigenza di cambiamento che la nolana filosofia e la visione della città del sole già intravedevano.

 

1. Frate Giordano

Giordano_BrunoNel 1593, quando viene rinchiuso nel carcere romano dove passerà gli ultimi sette anni della sua vita, Bruno è ormai un uomo nel pieno della maturità. Era nato, infatti, a Nola nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni – il padre era un uomo d’arme – che gli impose il nome di Filippo.

Per poter continuare gli studi, entra diciassettenne nell’ordine domenicano assumendo il nome di Giordano ma, già come novizio, è orientato su posizioni che mal si conciliano con l’ortodossia cattolica, poiché contesta la dottrina della Trinità da posizioni vicine all’arianesimo.

Studia intensamente Aristotele e Tommaso d’Aquino, ma anche autori estranei al suo curricolo, come Erasmo, al quale presto ispira la propria spiritualità, destando i primi sospetti tra i confratelli.

A ventisei anni lascia il convento di Napoli inseguito dalla prima accusa di eresia e si reca a Roma, dove viene accusato ingiustamente di un delitto ed é costretto a fuggire nuovamente.

Depone l’abito domenicano e inizia le sue peregrinazioni che lo porteranno a percorrere l’intera Europa alla ricerca di sostegno e ascolto: si avvicina, poi fugge, dai calvinisti a Ginevra, si circonda di ammirazione alla corte francese di Enrico III – al quale dedica l’opera di mnemotecnica e di gnoseologia platonizzante De umbris idearum quindi si reca in Inghilterra, dove solleva contro di sé l’intero collegio di Oxford, incapace di tollerare la sua polemica antipedantesca – l’esegesi letterale della Bibbia è il terreno su cui si esercita la pedanteria degli accademici di Oxford – e il suo eliocentrismo.

Le tesi che lo opponevano agli accademici di Oxford erano intanto confluite nel primo dialogo pubblicato in Inghilterra, la Cena delle ceneri (1584) nel quale il nolano critica le premesse del geocentrismo – prendendo di mira i capisaldi della filosofia peripatetica – e perviene a una prima intuizione dei principi della nuova fisica, il principio di inerzia e di relatività.

A differenza di Copernico e Galilei – per non dire di KepleroBruno mira non tanto a sostituire alla posizione centrale della terra la nuova centralità del sole, quando ad abolire la nozione stessa di centro, cioè l’idea del cosmo aristotelico, finito e gerarchicamente ordinato che lascia il posto a un universo privo di distinzioni gerarchiche, composto di infiniti mondi e quindi – in quanto infinito – privo di centro (De l’infinito universo et mondi, 1584).

Non sfuggono le implicazioni non solo teologiche [un universo senza centro, è un cosmo potenzialmente senza Dio e una terra periferica, abitata da una creatura tra le tante possibili, difficilmente può essere vista come il fine del sacrificio del figlio unigenito di Dio] ma anche politiche [da sempre, le gerarchie celesti sono simbolo di quelle terrene: un cosmo senza centro, senza alto e basso, permette di pensare e di legittimare, per estensione, una terra priva di distinzioni di censo e prestigio] della nuova cosmologica bruniana, di cui il filosofo offre la fondazione ontologica – una sostanziale anticipazione del monismo panteista di Spinoza – nel De la causa, principio et uno (1584).

Poco dopo la Cena e il De la causa, Bruno pubblica, ancora in Inghilterra, lo Spaccio della bestia trionfanteuno dei suoi testi fondamentali e decisivo anche in rapporto alla  drammatica fine della sua vicenda esistenziale – al quale il filosofo affida la propria antropologia dell’operosità intellettuale e manuale che permette all’uomo di farsi co-artefice della realtà – di “indiarsi”, dice Bruno – contro l’ozio e la rassegnazione religiosi che rendono l’uomo simile ai bruti. L’operosità umana è così la prima virtù umana, una virtù decisamente moderna, che scaccia – “spaccia” –  i mali –  la “bestia” – dal mondo.

Secondo il filosofo, la storia umana è sottoposta a “contrarietà”, a fasi prospere e a periodi funesti in cui avvizzisce – inequivocabile il giudizio sul suo tempo, il ‘500, che definisce “il secolo triste” – snodandosi tra periodi di fioritura e decadenza.

Nella descrizione di queste fasi, Bruno riporta quasi integralmente un testo ermetico, il Lamento di Asclepio, in cui l’antico Egitto è presentato come l’epoca più prospera e felice della civiltà umana. Vi regnava, infatti, la giustizia, perché tutti i cittadini attendevano operosamente alle loro occupazioni, agevolati da una religione che non pretendeva la rinuncia a quanto di più proprio abbia l’uomo, ma valorizzava le opere della mano e dell’ingegno. 

Considerando i temi violentemente anticristiani dello Spaccio e l’insistenza sul valore delle opere – sul terreno della salvezza dell’anima, uno dei temi su cui la teologia protestante del sola fide e sola gratia si era scontrata con quella cattolica – che inclinava Bruno a pensare che il protestantesimo fosse l’ultima e peggiorativa espressione di una fede decadente – la “santa asinità” dell’ascolto passivo della parola contro l’azione della mano che inaugura un ciclo negativo della civiltà – si comprende l’ostilità di cui l’opera di Bruno si circonda rapidamente in Inghilterra.

Pubblicati gli Eroici furori (1585), splendido dialogo che può essere considerato una riflessione, in gran parte autobiografica, sull’esperienza conoscitiva del fondamento unitario della molteplicità degli enti, Bruno torna a Parigi che lo accoglie nel nuovo clima politico determinato dalla vittoria dei cattolici – i quali sono riusciti ad imporre ad Enrico III la revoca degli editti di pacificazione e a prendere posizione contro l’ugonotto re di Navarra, il futuro Enrico IV – e che non si riconosce nelle tesi del filosofo, come appare evidente nella disputa filosofica alla Sorbona che oppone Bruno ad un giovane esponente dei politiques che in tale occasione sposa la conservazione peripatetica.

L’episodio, rivelatore della sua incompatibilità ambientale, spinge Bruno a lasciare precipitosamente Parigi e a dirigersi verso la Germania, dove cerca senza successo un principe che lo assuma al suo servizio o un’università che gli garantisca una “lettura”.

Nel 1591, a Francoforte, pubblica i tre importanti poemi latini, De triplici minimo et mensuraDe monade, numero et figura, e De innumerabilibus, immenso et infigurabili, ed è là che lo raggiunge il fatale invito del nobile veneziano Giovanni Moncenigo di recarsi preso di lui per insegnargli l’arte della menmotecnica. Bruno prende così la catastrofica decisione di rientrare in Italia.

Dopo qualche mese passato a Padova, durante i quali tiene lezioni private, mentre cerca di ottenere la cattedra vacante di matematica che l’anno seguente sarà assegnata a Galilei, si stabilisce a Venezia presso Moncenigo.

Durante il soggiorno veneziano mostra di apprezzare il clima culturalmente vivace e di relativa libertà – se confrontato con quello della controriforma che avvolge il resto d’Italia – che si respira nella città veneta e partecipa al “Morosini”(il circolo culturale di Andrea Morosini era una vivace fucina di idee) a conversazioni che lo espongono sul piano politico, accademico, religioso. Denunciato per eresia da Moncenigo, viene arrestato dall’Inquisitore veneto (1592).

 

Sottoposto ad interrogatorio, Bruno sviluppa la sua autodifesa dichiarando di aver nutrito dubbi su dottrine controverse della Chiesa, insistendo sul fatto che essa stessa manca di una posizione univoca e tacendo invece sulle dottrine contenute nei dialoghi pubblicati in Inghilterra. Estradato a Roma (febbraio 1593) viene rinchiuso nel carcere romano del Sant’Uffizio.

Nei sette anni successivi, il procedimento giudiziario nei confronti del nolano conosce fasi alterne. L’inquisitore é prudente, riflette, stenta a decidere, mentre Bruno, sottoposto a interrogatorio si dichiara disposto ad ammettere i propri errori in campo religioso (ad esempio, accettando di riconoscere il dogma della Trinità), ma rifiuta di rinnegare la propria filosofia. Nell’agosto 1599, ricevuta una memoria scritta in cui il filosofo si dice disposto ad abiurare alcune tra le opinioni incriminate, il cardinale Bellarmino – che diciassette anni dopo avrebbe “ammonito” Galilei afferma, di fronte ai membri della Congregazione del sant’Uffizio, che Bruno gli sembra sinceramente ravveduto, così che quando, all’inizio di settembre, i giudici del Tribunale vorrebbero sottoporlo a tortura per ottenerne una confessione piena e completa, il papa Clemente VIII non accoglie la richiesta, decidendo che al nolano sia imposto di rinunciare soltanto alle proposizioni che la chiesa abbia condannato come inoppugnabilmente eretiche. Bruno ribadisce la propria disponibilità ad abiurare le tesi effettivamente condannate come eretiche, in una fase in cui la vicenda appare aperta ad una conclusione non traumatica.

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Campo de’ Fiori, 17 febbraio 1600

La svolta decisiva si verifica tuttavia alla fine di ottobre: il Tribunale decide di fissare il termine perentorio per l’abiura. Ciò che ha determinato l’irrigidimento dei giudici é l’acquisizione di informazioni riguardanti lo Spaccio della bestia trionfante. Le autorità sono ora al corrente dei contenuti anticristiani dell’opera e ciò determina il collasso della linea difensiva tenuta dal filosofo: consapevole di non poter più dissimulare il progetto della riforma “egizia” della religione e indisponibile a rinnegare un aspetto così fondamentale del proprio pensiero, Bruno si risolve ad affrontare la morte. 

Il 21 dicembre, alla scadenza del termine stabilito, rifiuta di abiurare e dichiara che «non deve né vuole ravvedersi; né ha materia su cui ravvedersi». Un mese dopo, il 20 gennaio 1600, é dichiarato dal papa «eretico formale, impenitente, pertinace». Il Tribunale condanna il filosofo alla pena capitale, alla degradazione dagli ordini sacerdotali e alla distruzione in piazza san Pietro dei suoi scritti che vengono immediatamente messi all’Indice.

Il 17 febbraio 1600 Bruno é condotto al supplizio in Campo de’ fiori, dove oggi sorge la statua che lo raffigura filosofo viandante, il volto coperto da un cappuccio, immerso nella visione della nolana filosofia.

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Esercitazione

1. Illustra sinteticamente il contributo di Giordano Bruno alla visione copernicana del cosmo;

2. Illustra la critica di Bruno alla religione cristiana, spiegando perché il protestantesimo costituisca, agli occhi del nolano, una versione peggiorativa dello stesso credo;

3. Illustra le tesi difese da Bruno nella Cena delle ceneri e le ragioni del suo scontro con gli accademici di Oxford.

4. Spiega perché la visione bruniana di un universo infinito ha conseguenze dirompenti sul piano teologico e politico.

 

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