Agamben, Elogio della profanazione

by gabriella

Giorgio_AgambenIn questa potente indagine genealogica del sacro, Agamben demistifica il significato della religione, mostrando come essa non sia affatto ciò che lega l’umano e il divino (religio), ma al contrario, ciò che li tiene separarati (relego). Nella sua analisi, il frammento su capitalismo e religione di Walter Benjamin contenuto nelle Tesi sul concetto di storia, serve a precisare la natura del capitalismo, inteso non tanto – come voleva Max Weber – come un gigantesco processo di secolarizzazione del numinoso, ma come un fenomeno religioso esso stesso, nato all’interno del cristianesimo e divenutone poi il parassita.

Una volta individuata la genesi del capitalismo, diventa così possibile – attraverso le forme di détournement intraviste da Emile Benveniste – immaginare forme di disattivazione e di superamento della separazione e del blocco della profanazione, autentico meccanismo di perpetuazione dei dispositivi di dominio e alienazione operanti nei concetti di merce, spettacolo, colpa e debito. In coda al testo, la prolusione in video di Umberto Galimberti intorno alla nozione di sacro.

I giuristi romani sapevano perfettamente che cosa significhi “profanare”. Sacre o religiose erano le cose che appartenevano in qualche modo agli dèi. Come tale, esse erano sottratte al libero uso e al commercio degli uomini, non potevano essare vendute né date in pegno, cedute in usufrutto o gravate di servitú. Sacrilego era ogni atto che violasse o trasgredisse questa loro speciale indisponibilità, che le riservava esclusivamente agli dèi celesti (ed erano allora dette propriamente “sacre”) o inferi (in questo caso si dicevano semplicemente “religiose”). E se consacrare (sacrere) era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del dirittto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini.

“Profano”, può scrivere così il grande giurista Trebazio, “si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso che era, viene restituito all’uso e alla proprietà degli uomini”. E “puro” era il luogo che era stato sciolto dalla sua destinazione agli dèi dei morti e non era piú “né sacro, né santo, né religioso, liberato da tutti i nomi di questo genere” (D. 11, 7, 2).

Pura, profana, libera dai nomi sacri, è la cosa restituita all’uso comune degli uomini. Ma l’uso non appare qui come qualcosa di naturale: piuttosto a esso si accede soltanto attraverso una profanazione. Tra “usare” e “profanare” sembra esservi una relazione particolare, che occorre chiarire.

Si può definire religione ciò che sottrae cose, luoghi, animali e persone all’uso comune e la trasferisce in una sfera separata. Non solo non c’è religiones senza separazione, ma ogni separazione contiene o conserva in sé un nucleo genuinamente religioso. Il dispositivo che attua e regola la separazione è il sacrificio: attraverso una serie di rituali minuziosi, diversi secondo la varietà delle culture, che Hubert e Mauss hanno pazientemente inventariato, esso sancisce in ogni caso il passaggio di qualcosa dal profano al sacro, dalla sfera umana a quella divina. Essenziale è la cesura che divide le due sfere, la soglia che la vittima debe attraversare, non importa se in un senso o nell’altro. Ciò che è stato ritualmente separato, può essere restituito dal rito alla sfera profana. Une delle forme piú semplici di profanazione si realizza così per contatto (contagione) nello stesso sacrificio che opera e regola il passaggio della vittima dalla sfera umana a quella divina. Una parte di questa (le viscere, exta: il fegato il cuore, la vescicola biliare, i polmoni) è riservata agli dei, mentre ciò che resta può essere consumato dagli uomini. È sufficiente che coloro che partecipano al rito tocchino queste carni, perché esse diventino profane e possano essere semplicemente mangiate. Vi è un contagio profano, un toccare che disincanta e restituisce all’uso ciò che il sacro aveva separato e impietrito.

Il termine religio non deriva, secondo un’etimologia tanto insipida quanto inesatta, da religare (ciò che lega e unisce l’umano e il divino), ma da relegere, che indica l’atteggiamento di scrupolo e di attenzione cui devono improntarsi i rapporti con gli dèi, l’inquieta esitazione (il “rileggere”) davanti alle forme –e alle formule– da osservare per rispettare la separazione fra il sacro e il profano. Religio non è ciò che unisce uomini e dèi, ma ciò che veglia a mantenerli distinti. Alla religione non si oppongono, perciò, l’incredulità e l’indifferenza rispetto al divino, ma la “negligenza”, cioè un atteggiamento libero e “distratto” –cioè sciolto dalla religio delle norme– di fronte alle cose e al loro uso, alle forme della separazione e al loro significato. Profanare significa: aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza, che ignora la separazione o, piuttosto, ne fa un uso particolare.

Il passaggio dal sacro al profano può infatti, avvenire anche attraverso un uso (o, piuttosto, un riuso) del tutto incongruo del sacro. Si tratta del gioco. È noto che la sfera del sacro e quella del gioco sono strettamente connesse. La maggior parte dei giochi che noi conosciamo deriva da antiche cerimonie sacre, da rituali e da pratiche divinatorie che appartenevano un tempo alla sfera in senso lato religiosa. Il girotondo era in origine un rito matrimoniale; giocare con la palla riproduce la lotta degli dèi per il possesso del sole; i giochi d’azzardo derivano da pratiche oracolari; la trottola e la scacchiera erano strumenti di divinazione.

Analizzando questa relazione fra gioco e rito, Emile Benveniste ha mostrato che il gioco non solo proviene dalla sfera del sacro, ma ne rappresenta in qualche modo il capovolgimento.

La potenza dell’atto sacro –egli scrive– risiede nella congiunzione del mito che racconta la storia e del rito che la riproduce e mette in scena.

Il gioco spezza questa unità: come ludus, o gioco di azione, esso lascia cadere il mito e conserva il rito; come jocus, o gioco di parole, esso cancella il rito e lascia sopravvivere il mito.

“Se il sacro si può definire attraverso l’unità consustanziale del mite e del rito, potremo dire che si ha gioco quando soltanto una metà dell’operaziones sacra viene compiuta, traducendo solo il mito in parole e solo il rito in azioni”.

Ciò significa che il gioco libera e distoglie l’umanità dalla sfera del sacro, ma senza semplicemente abolirla. L’uso a cui il sacro è restituito è un uso speciale, che non coincide con il consumo utilitaristico. La “profanazione” del gioco non riguarda, infatti, soltanto la sfera religiosa. I bambini, che giocano con qualunque anticaglia capiti loro sottomano, trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto e delle altre attività che siamo abituati a considerare come serie. Un’automobile, un’arma da fuoco, un contratto giuridico si trasformano di colpo in giocattoli. Comune, tanto in questi casi come nella profanazione del sacro, è il passaggio da una religio, che è ormai sentita come falsa e oppresssiva, alla negligenza come vera religio. E questa non significa trascuratezza (nessuna attenzione regge il confronto con quella del bambino che gioca), ma una nuova dimensione dell’uso, che bambini e filosofi consegnano all’umanità. È un uso del genere che doveva avere in mente Benjamin, quando scrive, ne Il nuovo avvocato, che il diritto non piú applicato, ma soltanto studiato, è la porta della giustizia. Come la religio non piú osservata, ma giocata, apre la porta dell’uso, così le potenze dell’economia, derl diritto e della politica, disattivate in gioco, diventano la porta di una nuova felicità.

Il gioco come organo della profanazione è ovunque in decadenza. Che l’uomo moderno non sappia piú giocare è provato proprio dal moltiplicarsi vertiginoso di nuovi e vecchi giochi. Nel gioco, nei balli e nelle feste egli cerca, infatti, disperatamente e ostinatamente proprio il contrario di quello che potrebbe trovarvi: la possibilità di riaccedere alla festa perduta, un ritorno al sacro e ai suoi riti, fosse anche nella forma delle insulse cerimonie della nuova religione spettacolare o di una lezione di tango in una sala di provincia. In questo senso, i giochi televisivi di massa fanno parte di una nuova liturgia, secolarizzano una intenzione inconsapevolmente religiosa. Restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana è un compito politico.

Occorre distinguere, in questo senso, fra secolarizzazione e profanazione. La secolarizzazione è una forma di rimozione, che lascia intatte le forze, che si limita a spostare da un luogo all’altro. Così la secolarizzazione politica di concetti teologici (la trascendenza di Dio come paradigma del potere sovrano) non fa che dislocare la monarchia celeste in monarchia terrena, ma ne lascia intatto il potere.

La profanazione implica, invece, una neutralizzazione di ciò che profana. Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso. Entrambe sono operazioni politiche: ma la prima ha a che fare con l’esercizio del potere, che garantisce riportandolo a un modello sacro; la seconda disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato.

I filologi non cessano di stupirsi del duplice, contraddittorio significato che il verbo profanare sembra avere in latino: da una parte, rendere profano, dall’altra –in un’accezione attestata solo in pochi casi– sacrificare. Si tratta di un’ambiguità che sembra inerire al vocabolario del sacro come tale: l’aggettivo sacer, con un controsenso che già Freud aveva notato, significherebbe così tanto “augusto, consacrato agli dèi” che “maledetto, escluso dalla comunità”. L’ambiguità, che è qui in questione, non è dovuta soltanto a un equivoco, ma è, per così dire, costitutiva dell’operazione profanatoria (o di quella, inveresa, della consacrazione). In quanto si riferiscono a un medesimo oggetto, che deve passare dal profano al sacro e dal sacro al profano, esse devono fare i conti ogni volta con qualcosa come un residuo di profanità in ogni cosa consacrata e a un resto di sacralità presente in ogni oggetto profanato.

Sia il termine sacer. Esso designa ciò che, attraverso l’atto solenne della sacratio o della devotio (con cui il comandante consacra la sua vita gli dèi inferi per assicurarsi la vittoria), è stato consegnato agli dèi, appartiene esclusivamente ad essi. E tuttavia, nell’espressione homo sacer, l’aggettivo sembra designare un individuo che, essendo stato escluso dalla comunità, può essere ucciso impunemente, ma non può essere sacrificato agli dèi.

Che cosa è qui avvenuto di fatto? Che un uomo sacro, cioè appartenente agli dèi, è sopravvissuto al rito che lo ha separato dagli uomini e continua a condurre un’esistenza apparentemente profana tra di essi. Nel mondo profano, al suo corpo inerisce un residuo irriducibile di sacralità, che lo sottrae al normale commercio con i suoi simili e lo espone alla possibilità della morte violenta, che lo restituisce agli dèi cui in verità appartiene; considerato, invece, nella sfera divina, egli non può essere sacrificato ed è escluso dal culto, perché la sua vita è già proprietà degli dèi e tuttavia, in quanto sopravvive, per così dire, a se stessa, essa introduce un resto incongruo di profanità nell’ambito del sacro. Sacro e profano rappresentano, cioè, nella macchina del sacrificio, un sistema a due poli, in cui un significante fluttuante transita da un ambito all’altro senza cessare di riferirsi al medesimo oggetto. Ma è proprio in questo modo che la macchina può assicurare la ripartizione dell’uso fra gli umani e i divini e restituire eventualmente agli uomini ciò che era stato consacrato agli dèi. Di qui la promiscuità fra le due operazioni nel sacrificio romano, in cui una parte della stessa vittima consacrata viene profanata per contagio e consumata dagli uomini, mentre un’altra viene assegnata agli dèi.

In questa prospettiva diventano forse piú comprensibili la cura ossessiva e l’implacabile serietà di cui dovettero dar prova, nella religione cristiana, teologi, pontefici e imperatori per assicurare nella misura del possibile la coerenza e intelligibilità Della nozione di transustanziazione nel sacrificio della messa e di quelle di incarnazione e omousia nel dogma trinitario. Poiché qui era in gioco nulla di meno che la sopravvivenza di un sistema religioso che aveva coinvolto Dio stesso come vittima nel sacrificio e, in questo modo, aveva introdotto in lui quella separazione che, nel paganesimo, riguardava soltando le cose umane. Si trattava, cioè, di far fronte, attraverso la contemporanea presenza di due nature in un’unica persona o in un’unica vittima, alla confusione fra divino e umano che minacciava di paralizzare la macchina sacrificale del cristianesimo. La dottrina dell’incarnazione garantiva che la natura divina e l’umana fossero presenti senza ambiguità nella stessa persona, così come la transustanziazione assicurava che le specie del pane e del vino si trasformassero senza residui nel Corpo di Cristo. Resta che, nel Cristianesimo, con l’ingresso di Dio come vittima nel sacrificio e con la forte presenza di tendenze messianiche che mettevano in crisi la distinzione fra il sacro e il profano, la macchina religiosa sembra raggiungere un punto limite o una zona di indecidibilità, in cui la sfera divina è sempre in atto di collassare in quella umana e l’uomo trapassa già sempre nel divino.

Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei piú penetranti frammenti postumi di Benjamin. Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltando, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo.

Come tale, come religione della modernità, esso è definitito da tre caratteri: 1. È una religione cultuale, forse la piú estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci”. Non è possibile distinguere, qui, tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa.

 “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa concienza colpevole che non conoce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per capturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.

Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione.

“Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definische Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”.

Ma anche la teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista:

“Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa… è il capitale, sui cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma inmediatamente in socialismo”.

Proviamo a proseguire le riflessioni di Benjamin nella prospettiva che qui ci interessa. Potremo dire, allora, che il capitalismo, spingendo all’estremo una tendenza già presente nel Cristianesimo, generalizza e assolutizza in ogni ambito la struttura della separazione che definisce la religione. Dove il sacrificio segnava il passaggio dal profano al sacro e dal sacro al profano, sta ora un unico, multiforme, incessante processo di separazione, che investe ogni cosa, ogni luogo, ogni attività umana per dividerla da se stessa ed è del tutto indifferente alla cesura sacro/profano, divino/umano.

Nella sua forma estrema, la religione capitalista realizza la pura forma della separazione, senza piú nulla da separare. Una profanazione assoluta e senza residui coincide ora con una consacrazione altrettanto vacua e integrale. E come, nella merce, la separazione inerisce alla forma stessa dell’oggetto, che si scinde in valore d’uso e valore di scambio e si trasforma in un feticcio inafferrabile, così ora tutto ciò che viene agito, prodotto e vissuto –anche il Corpo umano, anche la sexualita, anche il linguaggio– vengono divisi da se stessi e dislocati in una sfera separata che non definisce piú alcuna divisione sostanziale e in cui ogni uso diventa durevolmente impossibile. Questa sfera è il consumo.

Se, com’è stato suggerito, chiamiamo spettacolo la fase estrema del capitalismo che stiamo vivendo, in cui ogni cosa è esibita nella sua separazione da sé, allora spettacolo e consumo sono le due facce di un’unica imposibilita di usare. Ciò che non può essere usato viene, come tale, consegnato al consumo o all’esibizione spettacolare. Ma ciò significa che profanare è divenuto impossibile (o, almeno, esige delle procedure speciali). Se profanare significa restituire all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro, la religione capitalista nella sua fase estrema mira alla creazione di un assolutamente Improfanabile. Il canone teologico del consumo come imposibilita dell’uso è stato fissato nel XIII° secolo dalla Curia romana nel contesto del conflitto che la oppose alll’ordine francescano.

Nella loro rivendicazione dell’”altísima pobreta”, i francescani affermavano la possibilita di un uso del tutto sottratto alla sfera del diritto, che essi, per distinguirlo dall’usufrutto e da ogni altro diritto di uso, chiamavano usus facti, uso di fatto (o del fatto). Contro di essi, Giovanni XXII, avversario implacabile dell’ordine, emana la sua bolla Ad conditorem canonum. Nelle cose che sono oggetto di consumo, egli argomenta, come il cibo, le vesti ecc., un uso distinto dalla proprietà non può esistere, perché esso si risolve integralmente nell’atto del loro consumo, cioè della loro distruzione (abusus). Il consumo, che distrugge necessariamente la cosa, non è che l’impossibilità o la negazione dell’uso, che presuppone che la sostanza della cosa remanga intatta (salva rei substantia). E non solo: un semplice uso di fatto, distinto dalla proprietà, non esiste in natura, non è in alcun modo qualcosa che si possa “avere”.

“L’atto stesso dell’uso non esiste in natura né prima di esercitarlo né mentre lo si esercita né dopo averlo esercitato. Il consumo, infatti, anche nell’atto del suo esercizio, è sempre già passato o futuro e, come tale, non si può dire che esista in natura, ma solo nella memoria o nell’aspettativa. Pertanto esso non può essere avuto se non nell’istante della sua sparizione”.

In questo modo, con un’inconsapevole profezia, Giovanni XXII fornisce il paradigma di una impossibilita di usare che doveva giungere al suo compimento molti secoli dopo nella società dei consumi. Questa ostinata negazione dell’uso ne coglie però la natura piú radicalmente di quanto potessero fare coloro che lo rivendicavano all’interno dell’ordine francescano. Poiché il puro uso appare, nella sua argomentazione, non tanto come qualcosa di inesistente –esso esiste, infatti, istantaneamente nell’atto del consumo– quanto piuttosto come qualcosa che non si può mai avere che non può mai constituire una proprietà (dominium). L’uso è, cioè, sempre relazione con un ‘inappropriabile, esso si riferisce alle cose in quanto non possono diventare oggetto di possesso. Ma, in questo modo, l’uso mette a nudo anche la vera natura della proprietà, che non è che il dispositivo che sposta il libero uso degli uomini in un sfera separata, in cui si converte in diritto. Se oggi i consumatori nella società di massa sono infelici, non è solo perché consumano oggetti che hanno incorporato in sé la propria inusabilità, ma anche e soprattutto perché credono di esercitare il loro diritto di proprietà su di essi, perché sono divenuti incapaci di profanarli.

L’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo. La museificazione del mondo è oggi un fatto compiuto. Una dopo l’altra, progressivamente, le potenze spirituali che definivano la vita degli uomini –l’arte, la religione, la filosofia, l’idea di natura, perfino la politica– si sono una a una docilmente ritirate nel Museo. Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferiste ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non piú. Il Museo può coincidere, in questo senso, con un’intera città (Evora, Venezia, dichiarate per questo patrimonio dell’umanità), con una regione (dichiarata parco o osai naturale) e perfino con un gruppo di individui (in quanto rappresentano una forma di vita scomparsa). Ma, piú in generale, tutto oggi può diventare Museo, perché questo termine nomina semplicemente l’esposizione di una imposibilita di usare, di abitare, di fare esperienza. Per questo, nel Museo, l’anologia fra capitalismo e religione diventa evidente.

Il Museo occupa esattamente lo spazio e la funzione che un tempo erano riservati al Tempio come luogo del sacrificio. Ai fedeli nel Tempio –o ai pellegrini che percorrevano la terra di Tempio in Tempio, di santuario in santuario– corrispondono oggi i turisti, che viaggiano senza pace in un mondo estraniato in Museo. Ma mentre i fedeli e i pellegrini partecipavano alla fine a un sacrificio che, separando la vittima nella sfera sacra, ristabiliva le giuste relazioni fra il divino e l’umano, i turisti celebrano sulla loro persona un atto sacrificale che consiste nell’angosciosa esperienza della distruzione di ogni possibile uso. Se i cristiani erano “pellegrini”, cioè stranieri sulla terra, perché sapevano di avere nel cielo la loro patria, gli adepti, del nuovo culto capitalista, non hanno alcuna patria, perché dimorano nella pura forma della separazione.

Dovunque si rechino, essi ritrovano moltiplicata e spinta all’estremo la stessa impossibilità di abitare che avevano conosciuto nelle loro case e nelle loro città, la stessa incapacità di usare che avevano sperimentato nei supercarcati, nei Malls e negli spettacoli televisivi. Per questo, in quanto rappresenta il culto e l’altare centrale della religione capitalista, il turismo è oggi la prima industria del mondo, che coinvolge ogni anno piú di 650 milioni di uomini. E nulla è così stupefacente come il fatto che milioni di uomini ordinari riescano a compiere sulla propria carne l’esperienza forse piú disparata che sia data a ciascuno di fare: quella della perdita irrevocabile di ogni uso, dell’assoluta imposibilita di profanare. E possibile, però, che l’Improfanabile, su cui si fonda la religione capitalista, non sia veramente tale, che si diano ancora oggi forme efficaci di profanazione. Per questo occorre ricordare che la profanazione non restaura semplicemente qualcosa come un uso naturale, che preesisteva alla sua separazione nella sfera religiosa, economica o giuridica. La sua operazione –come l’esempio del gioco mostra con chiarezza– è piú astuta e complessa e non si limita ad abolire la forma della separazione, per ritrovare, al di qua o al di là di essa, un uso incontaminato.

Anche in natura si danno profanazioni. Il gatto che gioca col gomitolo come se fosse un topo –esattamente come il bambino con antichi simboli religiosi o con oggetti che appartenevano alla sfera economica– usa consapevolmente a vuoto i comportamenti propri dell’attività predatoria (o, nel caso del bambino, del culto religioso o del mondo del lavoro). Questi non sono cancellati, ma, grazie alla sostituzione del gomitolo al topo (o del giocattolo all’oggetto sacro), essi sono disattivati e, in questo modo, aperti a un nuovo, possibile uso.

Ma di che uso si tratta? Qual è, per il gatto, l’uso possibile del gomitolo? Esso consiste nel liberare un comportamento dalla sua iscrizione genetica in una sfera determinata (l’attività predatoria, la caccia). Il comportamento così liberato riproduce e mima ancora le forme dell’attività da cui si è emancipato, ma, svuotandole del loro senso e della relazione obbligata a un fine, le apre e dispone a un nuovo uso. Il gioco col gomitolo è la liberazione del topo dal suo essere preda e dell’attività predatoria dal suo necessario essere rivolta alla cattura e alla morte del topo: e, tuttavia, esso mette in scena gli stessi comportamenti che definivano la caccia. L’attività che ne risulta diventa, così, un mezzo puro, cioè una prassi che, pur manteniendo tenacemente la sua natura di mezzo, si è emancipata dalla sua relazione a un fine, ha gioiosamente dimenticato il suo scopo e può ora esibirsi come tale, come mezzo senza fine. La creazione di un nuovo uso è, cioè, possibile per l’uomo soltando disattivando un Vecchio uso, rendendolo inoperoso.

La separazione si esercita anche e innanzitutto nella sfera del corpo, come repressione e separazione di determinate funzioni fisiologiche. Una di queste è la defecazione, che, nella nostra società, viene isoltata e nascosta attraverso una serie di dispositivi e di interdetti (che riguardano tanto i comportamenti che il linguaggio). Che cosa potrebbe voler dire: profanare la defecazione? Non già ritrovare una pretesa naturalezza, né semplicemente goderne in forma di trasgressione perversa (che è pur meglio che niente). Si tratta, invece, di raggiungere archeologicamente la defecazione come campo di tensioni polari fra natura e cultura, privato e pubblico, singolare e comune. Cioè: apprendere un nuovo uso delle feci, come i bambini stavano provando a fare a loro modo, prima che intervenissero repressione e separazione. Le forme di questo uso comune potranco essere inventate soltanto collettivamente. Come ebbe a notare una volta Italo Calvino, anche le feci sono una produzione umana come le altre, solo che di esse non si è mai data una storia. Per questo ogni tentativo del singolo di profanarle può avere solo valore paradito, come nella scena della defecazione intorno a un tavolo da pranzo del film di Buñuel.

Le feci –è chiaro– sono qui soltando un simbolo di ciò che è stato separato e può essere restituido all’uso comune. Ma è possibile una società senza separazioni? La domanda è, forse, mal formulata. Poiché profanare non significa semplicemente abolire e cancellare lae separazioni, ma imparare a farne un nuovo uso, a giocare con esse. La società senza classi non è una società che ha abolito e perduto ogni memoria delle differenze di classe, ma una società che ha saputo disattivarne i dispositivi per rendere possibile un nuovo uso, per trasformarle in mezzi puri.

Nulla è, però, così fragile e precario come la sfera dei mezzi puri. Anche il gioco, nella nostra società, ha un carattere episodico, dopo il quale la vita normale deve riprendere il suo corso (e il gatto la sua caccia). E nessuno meglio dei bambini sa quanto possa essere atroce e inquietante un giocattolo, quando il gioco di cui era parte è finito. Lo strumento di liberazione si converte, allora, in un goffo pezzo di legno, la bambola sui cui la bambina ha riversato il suo amore, in un gelido, vergognoso pupazzo di cera, che un mago malvagio può catturare e stregare per servirsene contro di noi.

Questo mago malvagio è il gran sacerdote della religione capitalista. Se i dispositivi del culto capitalista sono così efficaci, è perché essi agiscono non solo e non tanto sui comportamenti primari, quanto sui mezzi puri, cioè su comportamenti che sono stati separati da se stessi e, in questo modo, distaccati dalla loro relazione a un fine. Nella sua fase estrema, il capitalismo non è altro che un gigantesco dispositivo di cattura dei mezzi puri, cioè dei comportamenti profanatori. I mezzi puri, che rappresentano la disattivazione e la rottura di ogni separazione, vengono a loro volta separati in una sfera speciale. Un esempio è il linguaggio. Certo in ogni tempo il potere ha cercato di assicursi il controllo della comunicazione sociale, servendosi del linguaggio come mezzo per diffondere la propria ideologia e per indurre l’obbedienza volontaria. Ma oggi questa funzione strumentale –tuttora efficace ai margini del sistema, quando si verificano situazioni di pericolo e di eccezione– ha cedulo il posto a una diversa procedura di controllo, che, separandolo nella sfera spettacolare, investe il linguaggio nel suo girare a vuoto, cioè nel suo possibile potenziale profanatorio. Piú essenziale della funzione di propaganda, che riguarda il linguaggio come strumento rivolto a un fine, è la cattura e la neutralizzazione del mezzo puro per eccellenza, cioè del linguaggio che si è emancipato dai suoi fini comunicativi e si dispone, così, a un nuovo uso.

I dispositivi mediatici hanno appunto lo scopo di neutralizzare questo potere profanatorio del linguagio come mezzo puro, di impedire che esso dischiuda la posibilita di un nuovo uso, di una nuova esperienza della parola. Già la chiesa, dopo i primi due secoli di speranza e di attesa, aveva concepito la sua funzione come volta essenzialmente a neutralizzare la nuova esperienza della parola che Paolo, ponendola al centro dell’annuncio messianico, aveva chiamato pistis, fede. Allo stesso modo, nel sistema della religione spettacolare, il mezzo puro, sospeso ed esibito nella sfera mediatica, espone il proprio vuoto, dice soltando il proprio nulla, come se nessun nuovo uso fosse possibile, come se nessun’altra esperienza della parola fosse ormai possibile.

Questa nullificazione dei mezzi puri è evidente nel dispositivo che piú di ogni altro sembra aver realizzato il sogno capitalista della produzione di un improfanabile. Si tratta della pornografia. Chi ha qualche familiarità con la storia della fotografia erotica sa che, ai suoi inizi, le modelle ostentano un’espressione romantica e quasi sognante, come se l’obiettivo le avesse sorprese, non visto, nell’intimità del loro boudoir. A volte, pigramente sdraiate su un canapé, fingono di dormire o persino di leggere, come in certi nudi di Braquehais e di Camille d’Olivier, altre volte, il fotografo indiscreto le ha colte proprio mentre, sole con se stesse, si stanno guardando allo specchio (è la messa in scena preferita da Auguste Belloc). Ben presto, tuttavia, di pari passo all’assolutizzazione capitalistica della merce e del valore di scambio, la loro espressione si trasforma e si fa sfacciata, le pose si complicano e si movimentano, come se le modelle ne esagerassero intenzionalmente l’indecenza, esibendo, in questo modo, la loro coscienza di essere esposte all’obiettivo. Ma è soltanto nel nostro tempo che questo processo raggiunge il suo stadio estremo. Gli storici del cinema registrano come una novità sconcertante la sequenza di Monika (1952), in cui la protagonista Harriett Andersson tien improvvisamente fisso per qualche secondo lo sguardo nell’obbiettivo (“qui per la prima volta nella storia del cinema” commenterà retrospettivamente il regista, Ingmar Bergman “si stabilisce un contatto spudorato e diretto con lo spettatore”). Da allora, la pornografia ha certamente reso banale il procedimento: le pornostar, nell’atto stesso di eseguire le loro carezze piú intime, guardano ora risolutamente nell’obiettivo, mostrando di interesssarsi piú allo spettatore che ai loro partners.

In questo modo si realizza pienamente il principio che Benjamin aveva già enunciato nel 1936, mentre scriveva il saggio su Fuchs e, cioè, che “quel che in queste immagini funge da stimolo sessuale, non è tanto la vista della nudità, quanto l’idea dell’esibizione del corpo nudo davanti all’obiettivo”. Un anno prima per caratterizzare la trasformazione che l’opera d’arte subisce nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin aveva creato il concetto di “valore di esposizione” (Ausstellungswert).

Nulla meglio di questo concetto potrebbe caratterizzare la nuova condizione degli oggetti e perfino del corpo umano nell’età del capitalismo compiuto. Nell’opposizione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio, il valore di esposizione insinua un terzo termine, che non si lascia ridurre ai prime due. Non è valore d’uso, perché ciò che è esposto è, come tale, sottratto alla sfera dell’uso; non è valore di scambio, perché non misura in alcun modo una forza-lavoro.

Ma è forse solo nella sfera del volto umano che il meccanismo del valore di esposizione trova il sua luogo proprio. È un’esperienza comune che il volto di una donna che si sente guardata diventa inespressivo. La consapevolezza di essere esposta allo sguardo fa, cioè, il vuoto nella coscienza e agisce come un potente disgregatore dei processi espressivi che animano di solito il volto. È la sfrontata indifferenza che le mannequins, le pornostars e le altre professioniste dell’esposizione devono innanzitutto imparare ad acquisire: non dare a vedere null’altro che un dare a vedere (cioè la propria assoluta medialità). In questo modo il volto si carica fino a scoppiare di valore di esposizione. Ma, proprio attraverso questa nullificazione dell’espressività, l’erotismo penetra là dove non potrebbe aver luogo: nel volto umano, che non conosce nudità, perché è sempre già nudo. Esibito come puro mezzo al di là di ogni concreta espressività, esso diventa disponibile per una nuovo uso, per una nuova forma di comunicazione erotica.

Una pornostar, che spaccia le sue prestazioni per performances artistiche, ha spinto di recente all’estremo questo procedimento. Essa si fa fotografare nell’atto di compiere o subire gli atti piú osceni, ma sempre in modo che il suo volto sia ben visibile in primo piano. E invece di simulare, secondo la convenzione comune del genere, il piacere, essa affetta ed esibisce –come le mannequinsla piú assoluta indifferenza, la piú stoica atarassia. A chi è indifferente Chloè Des Lyces? Al suo partner, certo. Ma anche agli spettatori, che si avvedono con sorpresa che la star, pur sapendo perfettamente di essere esposta allo sguardo, non ha con loro la pur minima complicità. Il suo viso impassibile spezza così ogni relazione fra il vissuto e la sfera espressiva, non esprime piú nulla, ma si dà a vedere come luogo indelibato dell’espressione, come puro mezzo.

È questo potenziale profanatorio che il dispositivo della pornografia intende neutralizzare. Ciò che viene in esso catturato è la capacità umana di far girare a vuoto i comportamenti erotici, di profanarli, distaccandoli dal loro fine immediato. Ma mentre essi si aprivano, in questo modo, a un diverso possibile uso, che concerneva non tanto il piacere del partner, quanto un nuovo uso collettivo della sessualità, la pornografia interviene a questo punto a bloccare e a deviare l’intenzione profanatoria. Il consumo solitario e disperato dell’immagine pornografica si sostituisce, così, alla promessa di un nuovo uso.

Ogni dispositivo di potere è sempre doppio: esso risulta, da una parte, da un comportamento individuale di soggettivazione e, dall’altra, dalla sua cattura in una sfera separata. Il comportamento individuale in sé non ha, spesso, nulla di riprovevole e può esprimere, anzi, un intento liberatorio; riprovevole è eventualmente –quando non è stato costretto dalle circostanze o dalla forza– soltandto il suo essersi lasciato catturare nel dispositivo. Non il gesto sfrontato della pornostar, né il volto impassibile della mannequin sono, come tali, da biasimare: infami sono invece –politicamente e moralmente– il dispositivo pornografia, il dispositivo sfilata di moda, che li hanno distolti dal loro possibile uso.

L’improfanabile della pornografia –ogni improfanabile– si fonda sull’arresto e sulla distrazione di un’intenzione autenticamente profanatoria. Perhttps://scienzeumanegiudici.wordpress.com/wp-admin/options-general.php questo occorre strappare ogni volta ai dispositivi –a ogni dispositivo– la possibilità di uso che essi hanno catturato. La profanazione dell’improfanabile è il compito politico della generazione che viene.

Tratto da Profanazioni, Ed. Nottetempo, Roma 2005.

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