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18 Agosto, 2011

Malinconia: genio e follia in Occidente (5)

by gabriella

V. I Lumi e le loro ombre. Il XVIII° secolo.

“Malinconia. E’ il sentimento abituale della nostra imperfezione. […] è il più delle volte l’effetto della debolezza dell’anima e degli organi: essa lo è anche delle idee di una certa perfezione, che non si trova né in noi, né negli altri, né negli oggetti dei suoi piaceri, né nella natura […]”.

Diderot, L’Enciclopédie

Nel XVIII° secolo, si vede fondare sulla ragione un nuovo ordine sociale. Anche la malinconia, percepita come una forma pericolosa di sragione è rigettata. Pubblicata nel 1799 nella raccolta Capricci, l’incisione di Goya Il sonno della ragione genera mostri dà la misura di ciò che sarà l’apprezzamento della malinconia nell’età dei Lumi: questi mostri (cioè, secondo l’etimologia della parola, ciò che si mostra, ciò che si indica col dito) corrispondono precisamente a ciò che ci si sforzerà di nascondere.

La malattia malinconica che ha ormai una nosologia, è anche relegata negli ospizi e nei manicomi il cui scopo consiste se non nel curare, almeno nel ritirare dalla società i malati colpiti da questa singolare affezione.

Quanto alla malinconia sentimentale, la “dolce malinconia”, questa debolezza  fisica e intellettuale descritta da Diderot trova rifugio nella natura o nelle rovine la cui solitudine permette al soggetto di fuggire il mondo che lo circonda, un mondo in cui si sente sempre più straniero.

Lo spleen

“Lei non sa cos’è lo splin o i vapori inglesi? Non lo sapevo nemmeno io. Lo domandai al nostro scozzese (padre Hoop) durante la nostra ultima passeggiata ed ecco cosa mi ha risposto: “Da vent’anni sento un malessere generale, più o meno fastidioso. Non ho mai la testa sgombra. Qualche volta essa è così pesante che è come se avessi un peso che mi tira davanti e che mi trascinerebbe da una finestra sulla via, o al fondo di un fiume si fossi sulla riva. Ho idee nere, tristezza, noia. Mi trovo male dappertutto. Non desidero niente. Non saprei volere. […] La vita mi disgusta. Le minime variazioni nell’atmosfera sono per me come scosse violente. Non sono capace di restare in un posto: bisogna che vada senza sapere dove: E’ per questo che ho fatto il giro del mondo. Dormo male. Non ho appetito. Non saprei digerire. Non mi sento bene che dentro una carrozza. Sono tutto il rovescio degli altri. Odio ciò che agli altri piace. Amo ciò che loro dispiace. Ci sono giorni in cui odio la luce. Altre volte mi rassicura, e se entrassi immediatamente nelle tenebre mi sembrerebbe di cadre in una bara. Le mie notti sono agitate da mille sogni strani […]”.

Questa testimonianza dello spleen  in una lettera di Diderot a Sophie Volland, datata 28 ottobre 1760, è forse la prima descrizione del male inglese nella letteratura francese. In inglese, il termine spleen indica la milza, l’organo in cui l’antichità collocava la bile nera. Diventerà presto il sinonimo, nella Francia romantica, di una forma poetica di malinconia – e conoscerà una fortuna particolare nelle Fleurs du mal di Baudelaire.

Malinconia, genio e follia in Occidente 1 e 23; 4; 56; 78

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18 Agosto, 2011

Malinconia: genio e follia in Occidente (4)

by gabriella

Anatomia della malinconia

La torre di Babele non ha mai suscitato tanta confusione tra le lingue, quanto il caos della malinconia genera sintomi.

Robert Burton, Anatomia della malinconia, 1621

Alla fine del XVI° secolo, la corrente di valorizzazione della malinconia comincia declinare e, nel 1621, la pubblicazione in Inghilterra de l’Anatomia della malinconia del pastore Robert Burton, segna il ritono a una concezione mediale dell’affezione. Da questo momento le pubblicazioni che denunciano i mali generati dalla divina malattia si succedono. Al termine di questa impresa di deniograzione, dirsi malinconici torna a significare il dichiararsi malati, cioè folli.

L’iconografia della malinconia illustra e segue l’evoluzione del giudizio portato sul’affezione: dal 1593, nella sua Iconologie Cesare Ripa aveva così descritto e rappresentato  la Malinconia: “Donna anziana, triste e dolente, mal vestita, senza alcun ornamento, sedutra su una pietra, i gomiti posati sui ginocchi con, vicino a lei, un albero spoglio e delle rocce sparse”.  Questo modello si diffonde lungo tutto il XVII° secolo: che si applichi alla figura di Maria Maddalena, a quella di San Girolamo, a quella del re Davide o ancora a quella di  figure anonime, la malinconia designa ormai una meditazione il cui oggetto non è più la creazione ma la morte, le opere si apparentano allora con dei memento mori.

Immagine  in alto: Domenico Fetti, La malinconia, 1618-1623, olio su tela, 172,5×128,2, Paris, Musée du Louvre.

a sx: Cesare Ripa, Malinconia, 1624-1626, incisione su legno, 22,8×15,4, Paris, Bibliotheque Nationale de France.

a dx:  Michael Sweerts (1618-1664), Ritratto di un giovane, olio su tela, 114×92, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

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18 Agosto, 2011

Sandro Moisio, Old England

by gabriella

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Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che […]volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.

Giacomo Leopardi – La ginestra, 1836

Per fortuna questa volta non hanno tirato in ballo i black block. Cameron ha sbraitato contro atti da ritenersi puramente criminali, dimenticando o cercando di far dimenticare i suoi legami con la criminalità d’élite della stampa di Murdoch. Mentre qui da noi i neo-liberisti di destra e di sinistra si sono accontentati di parlare delle gang delle periferie inglesi, sperando in questo modo di ridurre il problema ad una mera questione di ordine pubblico.

Eppure, eppure…
Non è la prima volta nella storia inglese che la mano di gentlemen e ladies trema durante l’ora del tè. Il suono delle vetrine infrante, degli incendi, delle urla di giubilo e degli sghignazzi dei rivoltosi ha già scosso in altri tempi la proverbiale flemma della classe dirigente inglese. E qui non si sta parlando solo delle rivolte studentesche dello scorso inverno o degli scontri di Brixton dei tardi anni settanta, tanto felicemente cantati dai Clash di Joe Strummer.

Agli albori della rivoluzione industriale e nei decenni precedenti si diffusero moti di rivolta che caratterizzarono le grandi città europee da Napoli a Londra. Costituivano una particolare forma di sollevazione sociale che lo storico Eric Hobsbawm non ha esitato a definire, usando una classica espressione inglese, mob poiché una delle più appariscenti caratteristiche del fenomeno era data, appunto, dalla sua estrema mutabilità.

Il fatto che non fossero ispirati a nessuna ideologia in particolare e costituissero dei fenomeni prepolitici, destinati a sparire mano a mano che si andava formando una vera e propria classe operaia industriale, non vuole assolutamente dire che essi non fossero portatori di idee politiche implicite o esplicite. In primo luogo perché questi movimenti chiedevano di essere presi in considerazione e speravano, così facendo, di ottenere qualcosa.
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Che la rivolta partita oggi da Tottenham o quella di Los Angeles dei primi anni novanta siano entrambe iniziate a seguito dell’ennesimo episodio di violenza da parte delle forze “del disordine” nei confronti di individui appartenenti ai settori di popolazione o alla periferia più diseredata non fa che confermare il parallelismo tra i fenomeni del XVIII e del XXI secolo.

Se poi, seguendo Hobsbawm, si osserva che a quei tempi “la massa dei poveri delle città, anche in tempi normali, viveva al limite delle necessità di sussistenza, e che ogni aumento dei prezzi o della disoccupazione li precipitava nella catastrofe” e che “assai di frequente le loro sommosse non erano altro che reazioni automatiche e inevitabili a tali mutamenti”, diventa facile interpretare le rivolte odierne alla luce di quelle di allora.

Ma, si sa, la storia del movimento operaio non è più di moda in un mondo in cui vanno per la maggiore misteri, arcani, complotti e simboli perduti. La lotta di classe trionfa sui complotti e unifica le miserie e questo proprio non piace più. Già, lotta di classe anche se i giovani rioter di ogni sesso e razza hanno saccheggiato negozi di telefonia, videogiochi, abbigliamento sportivo e computer.

Perché mica si penserà che nel settecento e nel primo ottocento ad essere assaltati fossero soltano i forni di manzoniana memoria?! Tutt’altro, anzi alcune delle più famose rivolte inglesi passarono sotto il nome di “gin riot”, rivolte del gin, mentre ancora nel 1844 un giovane Federico Engels avrebbe scritto un articolo sui tumulti della birra avvenuti in Baviera nel maggio di quell’anno.
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In quell’occasione Engels ebbe modo di sottolineare che dopo quattro giorni di tumulti a Monaco i manifestanti erano riusciti ad ottenere, nonostante la massiccia presenza di soldati e guardie, ciò che volevano ovvero il ritiro dell’aumento della tassazione sulla loro bevanda preferita. Per far questo i lavoratori, sempre secondo la testimonianza engelsiana, si erano riuniti in gran numero, erano sfilati per le strade assaltando gli spacci, rompendo le vetrine, sfasciando i mobili e distruggendo tutto quanto si era trovato a portata di mano.

Ma la rivolta più imponente fu sicuramente quella londinese del giugno 1780, passata alla storia con il nome di “sommossa di Gordon” dal nome del giovane e avventato nobile scozzese che finì col diventarne, suo malgrado, leader virtuale. Per una settimana Londra fu messa letteralmente a ferro e fuoco, mentre orde di manifestanti gioiosamente ubriachi percorrevano le vie della city, giungendo ad incendiare anche le prigioni.

Alle dieci del mattino del 2 giugno 1780 una massa di più di cinquantamila scontenti aveva imboccato le vie di una città che, all’epoca, non contava più di settecentomila abitanti. La gente dei vicoli si mischiava a quella delle officine, furfanti e ladruncoli con artigiani e garzoni; scippatori e ubriaconi con operai ed ex-schiavi neri, che all’epoca già costituivano il sette per cento della popolazione londinese.

Tre giorni più tardi, dopo assedi al Parlamento e disordini di vario genere, la vita economica della più grande città europea si è fermata, mentre la folla ne percorre ancora le strade. L’insurrezione, nata in parte per i privilegi nuovamente concessi ai papisti cattolici, sceglie i suoi bersagli in base ai conti da regolare: ricche dimore da saccheggiare e simboli della schiavitù da demolire.
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La sera del 5 giugno centoventi incendi illuminano la città. Il popolo balla in piazza in una luce irreale. Gira a ritmo di gighe e nell’odore del gin e del uisge (wiskey) la promessa di una società libera dalla schiavitù e dai padroni. Mentre altri settemila soldato sono inviati a presidiare la capitale.

Il numero dei morti, in rapporto alle dimensioni della sollevazione è ancora incredibilmente modesto, da una parte e dall’altra della barricata, ma preoccupato di difendere i centri nevralgici del potere economico e amministrativo l’esercito si fortifica spingendo così gli insorti ad armarsi. La sera del 7 giugno la tensione e alle stelle , mentre bande di giovani insorti di entrambi i sessi si mettono a battere tutte le vie dei quartieri popolari al fine di chiamare a raccolta i loro sostenitori.

Un gruppo meglio organizzato si darà come obiettivo la Banca d’Inghilterra, nel tentativo di realizzare un’immensa rapina a mano armata collettiva. Qui respinto dalle truppe schierate e, soprattutto, dall’artiglieria ripiegherà dando l’assalto ad altre tre prigioni. Solo un carcere sui sette presenti a Londra all’epoca resterà in piedi. Successivamente saranno attaccate ancora distillerie e l’impopolare pedaggio del ponte di Blackfriars.

L’esercito riconquista palmo a palmo la città, anche se ancora una volta i rivoltosi, con ingenti perdite, tentano l’assalto alla banca del regno. Alle quattro del mattino Londra è surriscaldata da trecento roghi, mentre i reggimenti provenienti dalle province più lontano iniziano il lavoro della repressione e i più derelitti tra i londinesi non trovano di meglio che darsi allo sciacallaggio tra i corpi degli stessi rivoltosi. Dal giorno successivo l’ordine può tornare, gradualmente, a regnare nella capitale.
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E’ inutile farlo notare: al di là del numero di morti, che alla fine fu di centinaia, le rivolte inglesi di ieri e di oggi si assomigliano nelle dinamiche. E così pure rinviano a quella di Monaco che, col successo ottenuto nel respingere le tasse sulla birra, ricorda, comunque, che grazie al riot attuale anche Scotland Yard ha dovuto chiedere scusa per l’immotivata uccisione del giovane Mark Duggan.

Cosa occorre invece sottolineare, in barba ai cantori della modernità e della superiorità del modo di produzione capitalistico, è che le rivolte di oggi tornano a forme pre-capitalistiche, quando non esistevano partiti di classe o sindacati dei lavoratori, proprio perché il capitale e i suoi agenti (di ogni sesso e colore politico) stanno trascinando sempre più le società occidentali verso un passato economico, politico e sociale che si pensava superato per sempre.

Licenziamenti, tagli alla spesa pubblica e all’assistenza, gioco d’azzardo finanziario condotto ai limiti del gore e dello snuff movie; cinismo travestito da liberalismo e neo-liberismo che più che una dottrina economica rinvia sempre più ad una ideologia conservatrice e controrivoluzionaria; guerre odiose e sempre più inutili ed occupazione militare delle metropoli occidentali non potranno far altro che risvegliare demoni antichi agitati da bisogni moderni.
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E non basteranno gli strilli contro i black block o contro le gang o contro i juvenile delinquent a bloccare processi di rivolta inevitabili e giustificati. La cancellazione di qualsiasi reale rappresentanza politica e sindacale non lascia, infatti, altra via alla ripresa allargata di una lotta di classe che deve ancora riconoscere i propri obiettivi comuni e riunificarsi su scala internazionale dal regno Unito ad Israele, dalla Spagna alla Grecia e “anche qui da noi da Terzigno a Torino”.

Parafrasando il finale dell’articolo di Engels si potrebbe oggi dire che se il popolo dei diseredati scopre che può dettar legge in fatto di scuse, non tarderà ad accorgersi che può dettar legge anche su questioni più importanti.

(Il presente intervento è debitore nei confronti dei seguenti testi:
E:J Hobsbawm, Il mob cittadino, in I ribelli, Einaudi, Torino 1966
Friedrich Engels, I tumulti della birra in Baviera, in Marx – Engels Opere complete vol.III, Editori Riuniti, Roma 1976
Julius Van Daal, Bello come una prigione che brucia, 415, Torino 1998

Tratto da: http://www.carmillaonline.com/archives/2011/08/003996.html

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