Archive for 17 Novembre, 2011

17 Novembre, 2011

V. Giacché, Le parole che non ti ho detto. La crisi come (non) ce l’hanno raccontata

by gabriella

Perché nessuno se n’è accorto? Se queste cose erano tanto grosse com’è che tutti le hanno trascurate? È orribile! (Elisabetta II in visita alla London School of Economics, novembre 2008)

Se ci sarà una rivoluzione sociale in America farà bene a non contare sulla stampa. Anzi non sapremo neanche che è in corso per almeno sei mesi. (S. Hersh, “Il futuro dei giornali”, intervista di M. Calabresi, la Repubblica, 1° aprile 2009)

1. Comunicazione della crisi o crisi della comunicazione?

Chiunque osservi, anche superficialmente, le vicende della crisi generale che è esplosa nell’agosto 2007, difficilmente potrà sottrarsi all’impressione di essere stato informato poco e male su quanto stava (e sta) accadendo. In effetti, la comunicazione offerta dai media mainstream si è contraddistinta per tre caratteristiche: 1) è stata eufemistica e minimizzante; 2) è stata costantemente in ritardo sugli avvenimenti; 3) è stata – ed è – sostanzialmente elusiva.

1) Per quanto riguarda l’aspetto minimizzante dell’informazione sulla crisi, hanno certamente concorso incomprensione della reale portata della crisi, speranza che si risolvesse in tempi brevi e con “effetti collaterali” limitati, e anche – almeno dopo i primi mesi – una buona dose di mistificazione: tutte caratteristiche che accomunano il mondo dell’informazione e quello della politica e dell’economia (del resto ovunque strettamente intrecciati). Per quanto tempo si è parlato di “crescita negativa” (un ridicolo eufemismo) per non usare la parola “recessione”? E ancora oggi, quanti opinionisti sono disposti ad usare il termine corretto, che è ormai quello di “depressione”, e per giunta “mondiale”? Sta di fatto che tuttora capita di dover andare a cercare gli indizi della gravità della situazione nelle pagine interne dei giornali, mentre i titoli di prima offrono un quadro esageratamente rassicurante. Un esempio tra i molti che si potrebbero citare ci è offerto dal Financial Times del 3 aprile 2009, sul quale campeggia in prima pagina, sopra una foto di gruppo dei “leaders” mondiali resa grottesca dagli atteggiamenti clowneschi di Berlusconi, questo titolo: «I leaders del G20 salutano il successo del summit». Bisogna sfogliare il quotidiano sino a pagina 6 per scoprire che «Le tendopoli mettono in difficoltà il censimento USA»: ossia che il numero dei senzatetto costretti a vivere in garage, tende, seminterrati e altre abitazioni “non tradizionali” (l’eufemismo è contenuto nell’articolo) è talmente cresciuto da rendere reale il rischio che il censimento del 2010 non risulti affidabile. Nella stessa pagina, un box abbastanza minuscolo ci informa del fatto che i buoni pasto governativi sono giunti a una cifra record, e ormai sono adoperati da 32 milioni e 200 mila persone(1).

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17 Novembre, 2011

M. Ferraris, Perseverare è diabolico. Dialettica del postmodernismo. G. Perazzoli, Addio al postmoderno?

by gabriella

Se guardiamo al cuore filosofico del postmoderno ci troviamo di fronte a un paradosso istitutivo. L’idea di fondo era quella di una grandissima istanza emancipativa, che affondava le sue radici in Nietzsche (che a giusto titolo Habermas, nel Discorso filosofico della modernità, ha definito la «piattaforma girevole» che traghetta la filosofia verso il postmoderno) e ovviamente nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza. Il risultato è che ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale (quello espresso lucidamente da Vattimo nel Soggetto e la maschera, che esce nel 1974 e che reca il sottotitolo emblematico Nietzsche e il problema della liberazione) l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, e in ultima istanza in ciò che Vattimo, molti anni dopo, definirà apertamente come un «addio alla verità». L’emancipazione girava a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della «crisi dei grandi racconti» di legittimazione del sapere con cui, nel 1979, Lyotard ha caratterizzato il postmodernismo filosofico. Il problema di questa dialettica è però, semplicemente, che lascia tutta l’iniziativa ad altre istanze, e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario, come risulta evidente da quanto è accaduto dopo.

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