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28 Dicembre, 2013

Pierre Clastres, Tabu alimentare, obbligo di scambio e legame sociale presso i Guayaki

by gabriella
cacciatore Guayaki

cacciatore Guayaki

In questo passo di Interdit alimentaire, échange contraint, et lien social chez les Guayaki – ora in La socièté contre l’état, 1974 – Clastres spiega il legame tra il divieto posto ai cacciatori di mangiare le proprie prede, l’obbligo universale di dono e la costruzione del legame sociale presso la società tradizionale del Guayaki [traduzione mia, testo originale in coda].

Per il cacciatore Aché c’è un tabù alimentare che gli impedisce formalmente di consumare la carne delle proprie prede:

baï jyvombré ja uéméré : « è vietato mangiare gli animali che noi stessi abbiamo cacciato»,

così che quando un uomo arriva al villaggio, egli condivida il risultato della caccia con la sua famiglia (moglie e figli) e gli altri membri del gruppo di caccia; naturalmente, egli non assaggerà la carne preparata da sua moglie. Ora, come si è visto, la selvaggina occupa il posto più importante nell’alimentazione dei Guayaki. Ne risulta che ogni uomo passa la propria vita a cacciare per gli altri e a ricevere da questi il proprio cibo. Questa proibizione è strettamente rispettata, persino dai ragazzi non iniziati quando uccidono degli uccelli.

Una delle conseguenze più importanti è che impedisce di fatto [1] la dispersione degli indios in famiglie nucleari: l’uomo morirebbe di fame, a meno di rinunciare al tabù. Bisogna dunque spostarsi in gruppo. I Guayaki, per renderne conto, affermano che mangiare gli animali uccisi con le proprie mani è il modo più sicuro di attirarsi il maleficio.
Questo superiore timore dei cacciatori basta a imporre il rispetto che essa fonda: se si vuole continuare a uccidere degli animali, non bisogna mangiarli.
La teoria indigena fa leva semplicemente sull’idea che la congiunzione tra il cacciatore e gli animali morti, sul piano del consumo, implichi una disgiunzione tra il cacciatore e gli animali vivi, sul piano della produzione.

In realtà, questa proibizione alimentare possiede anche un valore positivo, in quanto opera come un principio strutturante che fonda la società guayaki come tale. Stabilendo una relazione negativa tra ogni cacciatore e il prodotto della propria caccia, essa mette tutti gli uomini nella stessa posizione l’uno in rapporto agli altri, e la reciprocità del dono di cibo si rivela così non soltanto possibile, ma necessaria: ogni cacciatore è allo stesso tempo donatore e ricevente di carne.

Il tabù sulla selvaggina appare così come l’atto fondativo della scambio di cibo presso i Guayaki, vale a dire come il fondamento stesso della loro società. […] Esso costringe l’individuo a separarsi dalla propria selvaggina, lo obbliga a contare sugli altri, permettendo così al legame sociale di stringersi in maniera definitiva, l’indipendenza dei cacciatori garantisce la solidità e la permanenza di questo legame, e la società guadagna in forza ciò che l’individuo perde in autonomia.

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28 Dicembre, 2013

Il fascino dell’obbedienza

by gabriella
obbedienza

obbedienza

Le recensioni[alcuni stralci da quella pubblicata su Alfabeta2 e l’intero commento di Kainós] a Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, in cui Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Olivieri si chiedono che cosa rende così diffusa e convinta l’obbedienza al potere e per quale ragione gli uomini cooperino alla propria stessa oppressione.

Gli autori trovano le risposte nel Discorso della servitù volontaria di La Boétie [e nel «disciplinamento» di Sorvegliare e punire] a cui riservo un commento in coda.

O popoli insensati, poveri e infelici, nazioni tenacemente persistenti nel vostro male e incapaci di vedere il vostro bene! […]
Colui che vi domina ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Come oserebbe attaccarvi, se voi stessi non foste d’accordo?

Etienne de La Boétie, Discours de la servitude volontarire

»Eppure solo pochi tra quanti da mezzo millennio si accostano a questo testo brevissimo e straordinario (militanti, eruditi, filosofi, scienziati politici) evitano la tentazione di chiamarsi fuori; brandendo e deviando quel «voi» – di cui dovrebbero farsi carico in prima persona – contro il bersaglio retorico di turno.

Che cosa rende così diffusa e convinta l’obbedienza al potere? Perché gli uomini lottano per la propria servitù come se si trattasse della propria salvezza? Partendo da una rilettura del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, il libro di Ciaramelli e Olivieri ne ricostruisce dapprima il contesto originario (il passaggio dalla tirannia antica alla tirannia moderna, resa possibile da raffinate tecnologie di disciplinamento sociale), per poi mostrarne l’inquietante attualità nella nostra epoca, caratterizzata dal dilagare della depressione tanto socio-economica che psichica. La servitù volontaria, denunciata da La Boétie, non dipende dagli sforzi del tiranno ma dall’attività stessa dei dominati che si rivelano gli artefici del proprio asservimento. Allo stesso modo il diffondersi di demotivazione, disinteresse e sfiducia appare un fenomeno che la società democratica può imputare soltanto a se stessa, ma proprio questa sua “responsabilità” può renderne possibile il superamento.

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