Aldo Carotenuto, Identità e ipseità. Il principium individuationis

by gabriella

carotenuto trattato psicologia personalitàTratto da Trattato di psicologia della personalità, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1991, pp. 242-251.

[O]gni lavoro psico­logico [è] un compito interminabile. In questo secondo me si cela il fascino della psicologia del profondo: la psiche non è mai statica ma è un elemento continuamente cangiante, come la vita stessa, del resto. Infatti, solo la rigidità, psichica e fisica, è morte. È per questo moti­vo che utilizziamo la felice espressione di psicologia dinamica, una definizione assai più pregnante rispetto al termine psicoanalisi o psicologia analitica, perché corrisponde alla realtà della psiche, che è dynamis, movimento. Rimanda quindi a una concezione del­l’uomo come essere in continua evoluzione: il che rappresenta la nostra più grande libertà al confronto di un’esistenza legata al destino, il passato o a un’immodificabile eredità genetica.

[…]

Principium individuationis: una teleologia dell’esistenza

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Carl Gustav Jung

È spontaneo a questo punto chiedersi quale possa essere la via per conquistare un certo margine di libero arbitrio rispetto ai condi­zionamenti interni ed esterni. Il tema costituisce il punto cardine della teoria di Jung: nel suo concetto di inconscio è insita l’idea di una pulsione alla realizzazione della personalità individuale, per cui l’uomo è naturalmente proteso a emanciparsi dai valori collettivi e quindi a conquistare una sua soggettività. A tale processo Jung dà il nome di individuazione. Sono parte integrante di questo modello tutti gli altri concetti junghiani che abbiamo già avuto modo di trat­tate, anzi possiamo affermare che l’individuazione è il contenitore teorico che racchiude, organizza, e dirige in una dinamica finalistica le dìverse parti del sistema junghiano.

Il termine risale a Gerard Dorn, un alchimista del sedicesimo secolo. Ma Jung lo mutuò da Schopenhauer, che parlava appunto di un principium individuationis. Nella prima definizione che Jung ne diede in Tipi psicologici (1921) sono evidenziati i seguenti aspetti: l’individuazione ha come meta lo sviluppo della personalità; comporta un certo grado, di opposizione alle norme sociali ma non im­plica per questo l’isolamento sociale o il disadattamento rispetto ai valori collettivi. Scrive Jung a tale proposito:

Per evitare equivoci bisogna distinguere tra individualismo e indivi­duazione. L’individualismo è un mettere intenzionalmente in rilievo le proprie presunte caratteristiche in contrasto coi riguardi e gli obblighi collettivi. L’individuazione, invece, è un migliore e più completo adempimento delle finalità collettive dell’uomo, in quanto il tener sufficientemente conto delle caratteristiche dell’individuo lascia sperare una funzione sociale migliore che se le caratteristiche vengono trascurate o represse […]. Ogni volto umano ha un naso, due oc­chi ecc. ma questi fattori universali sono variabili, ed è questa varia­bilità che rende possibili le caratteristiche individuali. Il termine individuazione può quindi indicare soltanto un processo psicologico che adempie finalità individuali date, ossia che fa  dell’uomo quel determinato essere singolo che è. Individuandosi, l’uomo non diventa “egoista” nel senso usuale della parola, ma si conforma unicamen­te a una sua peculiarità: il che, come ho detto, è ben diverso dall’egoismo o dall’individualismo [Jung, 1928, p. 173].

La personalità si modella sulla base di un patrimonio genetico ereditato e attraverso l’influenza di potenti condizionamenti am­bientali. Per Jung la realizzazione della personalità non è solo un processo di sviluppo, ma anche un processo di decondizionamento da tutto ciò che rende ben adattati e integrati in una collettività, è un tendere all’unicità dell’essere.

La sua petizione di principio è che l’uomo conserva in sé una ma­trice originaria di forza, di originalità e creatività, ed è proprio il di­spiegamento di questo nucleo originario à realizzare la nostra indivi­dualità. L’individuazione è pertanto un lavoro psicologico di recu­pero e di sviluppo della propria matrice individuale. Se non esistes­se questa tendenza la vita non sarebbe altro che un’esistenza brutale, indifferenziata, del tutto animale, come lo è purtroppo per la maggior parte delle persone, che non sospettano neppure che dietro a loro maschera evoluta si compie il tradimento di un autentico Sé, soffocato dagli atteggiamenti e dai valori della coscienza collettiva.

Come scrive Jung:

L’individuazione non ha altro scopo che di liberare il Sé, per un lato dai falsi involucri della Persona, per l’altro dal potere suggestivo delle immagini inconsce [Jung, 1928, p. 174].

Il termine individuo significa “non diviso”, pertanto l’individuazione indica il processo per cui la persona diventa se stessa, un essere umano intero, inscindibile e differenziato dalla psiche collettiva conscia e inconscia.

La psichiatria dinamica del Settecento e dell’Ottocento, alle prese ton la vasta e straordinaria fenomenologia di personalità multiple e alternanti, aveva rilevato il carattere conflittuale della personalità umana, attraversata da una fondamentale scissione, quella appunto tra coscienza e inconscio. Fu il concetto di difesa introdotto da Freud a giustificare sul piano teorico i fenomeni della scissione. In nessun momento, nemmeno quando sembra che stia agendo un’istanza co­sciente e razionale, si può misconoscere l’influenza dell’inconscio sul nostro comportamento. Prendere coscienza di questa forza occulta è il primo passo per depotenziare l’aspetto distruttivo dell’inconscio, e in tal modo contenere quei meccanismi che ci dominano, inibendo la personalità e boicottando i nostri progetti.

Fin tanto che perdura la rimozione, la personalità è identificata in maniera unilaterale con l’Io cosciente, che arroccato in una posizione egocentrica gode di una falsa autonomia, essendo in realtà agito dalle immagini, dalle pulsioni, dai complessi della psiche inconscia. Nel momento in cui si avvia il processo di evoluzione della personalità individuale la coscienza entra in rapporto con il mondo inconscio, relativizzando quindi tutti gli orientamenti, le identificazioni, gli atteggiamenti dell’Io rispetto a una dimensione di alterità che si fa strada dalla psiche profonda. La personalità sposta quindi il  suo centro: l’Io è pur sempre il mediatore tra mondo interno e mondo esterno, ma è sostenuto da difese meno primitive della scissione e della negazione ed è ora orientato al raggiungimento della totalità psichica, ovvero all’integrazione delle varie componenti del­la psiche conscia e inconscia, ciò che in termini junghiani si definisce attivazione dell’archetipo del Sé. Scrive Galimberti:

Occorre non confondere l’identità con l’ipseità, l’idem con l’ipse, l’Io col Sé. Per sottile che sia, la traccia linguistica, che ancora conserva la memoria della grande differenza, va approfondita. La sua debolezza non deve trarci in inganno, perché sotto l’apparente sino­nimia di due parole si cela la più grande delle differenze, quella tra l’uomo e Dio. […] Nasce l’Io nella sua identità come differenza inter­na all’ipseità da cui si distingue, e ciò vuol dire che prima di un eso­do dal mondo, l’esistenza è un esodo da sé […]. Ma questa autono­mia apre subito un conflitto tra ciò che l’Io è e ciò che non è, tra l’Io e l’altro dall’Io. […] L’esteriorità è già dentro di noi , perciò la possia­mo proiettare “fuori” sugli “altri” [Galimberti, 1984, p. 171].

Il termine Sé è stato impiegato di frequente nelle teorie della personalità, tanto che ogni autore vi fa riferimento ma in un’accezio­ne differenziata, che corrisponde o a una posizione teorica indivi­duale o a una scelta di corrente. Il significato che gli attribuisce Jung è originale e va nettamente diversificato dal senso del termine che si può riscontrare negli autori postfreudiani. Si tratta comunque di un concetto complesso e articolato, variamente diversificato, in cui non ci si muove se non con una certa difficoltà e cautela.

Per Jung il Sé è un concetto empirico, non una convinzione filosofìca o religiosa, il principio creativo e unificante della personalità umana, l’archetipo a cui si attribuisce il massimo potenziale espressi­vo dell’individuo e il raggiungimento della totalità psichica.

Il Sé non è soltanto il punto centrale – scrive Jung – ma anche l’estensione che comprende la coscienza e l’inconscio; è il centro di questa tota­lità come l’Io è il centro della coscienza [Jung, 1944].

Dal momento che il Sé è l’immagine della totalità, l’Io non potrà mai integrarlo completamente nei confini limitati della sua coscienza. È chiaro dunque che la realizzazione del Sé è un’idea utopica, si tratta co­munque di una linea di tendenza verso una meta ideale, un proces­so inesauribile che impegna l’intera esistenza umana. Pertanto, l’in­dividuazione non è altro che questa interminabile interazione tra l’Io e il Sé, all’interno della quale si esprime il significato individuale di ogni esistenza.

In quanto totalità il Sé non è soltanto portatore del bene ma an­che del male, ovvero dell’Ombra archetipica;

è una forza determi­nante priva di coscienza; le decisioni etiche vengono lasciate all’uo­mo” [Samuels et al., 1986, p. 155].

Questa proposizione è di fondamentale importanza, perché in es­sa viene ribadito il ruolo attivo e decisionale dell’Io cosciente; quin­di non bisogna confondere una creativa adesione con la sottomissio­ne all’archetipo del Sé. “I simboli del Sé spesso possiedono una qua­lità numinosa e trasmettono un senso di necessità che dà loro una priorità trascendente nell’ambito della vita psichica. Essi sono porta­tori dell’autorevolezza di un’immagine di Dio” (ibidem).

Ma il significato individuale dell’esistenza cade proprio nell’ambi­to del potere decisionale e della facoltà discriminante dell’Io co­sciente, ciò che costituisce la responsabilità individuale di fronte a se stessi e al mondo. È il particolare modo in cui ci rapportiamo alla totalità psichica che crea la nostra individualità, e in questo proces­so non possono non essere coinvolti i valori etici. Mi viene in mente, a questo punto, la parabola di Giobbe, a cui Jung ha dedicato uno dei suoi saggi più intensi e toccanti (Jung, 1952). A me pare che una delle possibili letture psicologiche del rac­conto biblico riguardi il rapporto Io-Sé come un riflesso del rappor­to uomo-Dio. Come sappiamo, Giobbe sopporta con indefessa pa­zienza e incrollabile fede la volontà di Dio, che si manifesta in tutto il suo potere di dare il bene e il male. Giobbe non può che ricono­scere il potere della divinità, così come noi non possiamo che rico­noscere il potere dell’inconscio. Ma senza un Giobbe che rifletta, gioisca e patisca la volontà divina, Dio non avrebbe immagine nel mondo. Allo stesso modo, senza un Io riflettente il Sé è solo una manifestazione della natura e non potrebbe essere una forza operati­va nel mondo.

All’interno della psicologia analitica il Sé ha dunque la funzione di mediazione tra gli opposti. Sotto l’archetipo del Sé, l’Io è continuamente posto a confronto con le esigenze apparentemente contrastanti della vita, mosso dal desiderio primo di ricercare il senso, una verità che ovviamente è del tutto individuale. Le polarità di be­ne e di male, di umano e divino, di libertà e relazione, di solitudine e comunione, di femminile e maschile, e così via, sono le coppie archetipiche con cui ogni esistenza deve confrontarsi coscientemente, a meno di non aderire pienamente ai valori collettivi, il che costitui­sce per Jung il vero fallimento dell’esistenza umana, intesa come compimento dell’individualità.

Considerazioni conclusive

Come abbiamo già osservato, Jung non si basò soltanto sulla sua esperienza, clinica ma trasse anche dall’immaginario collettivo gli elementi e le conferme per la costruzione delle sue teorie. Infatti, l’i­dea di un centro della personalità è universale e ha origini antichis­sime, come si può verificare dalla sterminata fenomenologia mitolo­gica e religiosa di tutte le culture.

In particolare, Jung ha tratto osservazioni determinanti dallo studio pietra filosofaledell’alchimia. Esaminò attentamente i testi di alchimisti, accostandosi al mistero di esperimenti volti a trasformare vili metalli in oro; ma si apprestò a leggerli in chiave psicologica, assumendo la ricerca della pietra filosofale co­me metafora della conquista del Sé. Pertanto, nella sua autobiogra­fia affermò che l’alchimia costituisce il più interessante antecedente storico della psicologia dell’inconscio (Jung, 1961, p. 234). Natural­mente, gli alchimisti non erano consapevoli che i loro esperimenti sulla trasmutazione della materia rappresentassero simbolicamente un processo di trasformazione psichica, ma a uno psicologo del pro­fondo appare evidente come essi proiettassero sull’opus alchemico un’esigenza psicologica collettiva. Si dovettero acquisire nuove con­sapevolezze in campo psicologico perché il valore simbolico dei procedimenti alchemici potesse essere interpretato. Del resto, gli stessi alchimisti consideravano il lapis come una metafora della me­ta, ovvero, detto in termini junghiani, della realizzazione del Sé e del processo di individuazione.

Non è possibile comprendere i concetti che siamo andati espo­nendo in maniera intellettuale, senza una partecipazione empatica che presuppone la sperimentazione reale di questi aspetti della psi­che umana. Non si può capire fino in fondo il significato dell’Om­bra se non si patisce la potenza della sua distruttività, come non si può accederò al concetto di Anima senza averne fatto dolorosa esperienza nelle nostre relazioni amorose. Allo stesso modo, si ri­marrà scettici e distaccati quando parliamo del rapporto Io-Sé come metafora del rapporto uomo-Dio. Ci difenderemo da questo senti­mento del sacro, come da un pericoloso ostacolo che si frappone al nostro bisogno di scientificità, come da una superstiziosa inclinazio­ne che ci precipita di nuovo nelle tenebre del caos.

La strada dell’individuazione è, io credo, una scelta sacrificale, in cui si rinuncia al protagonismo assoluto dell’Io:

il Sé è ciò che mi spinge, anzi mi obbliga a sacrificare – scrive Jung – il Sé è il sacri­ficante e io sono il dono offerto, il sacrificio umano [1942-1954, p. 251].

Nel sacrificio sono la realtà e i rapporti di realtà, che la ragione ha faticosamente costruito a sacrificarsi; ciò che si perde non è qualco­sa, ma la verità che si è costruita per tutte le cose. Come negazione dell’ordine reale, il sacrificio è la condizione più favorevole per l’ap­parizione dell’ordine simbolico. […] Il sacrificio è una messa a morte che espone sull’ara sacrificale tutti i sensi che la vita rimuove per af­fermare se stessa e i propri valori. Il sacrificio consente allora di pas­sare da un ordine all’altro, dove l’altro ordine non è il contrario del­l’ordine sacrificato, ma è il tutt’altro, l’uno, e l’altro insieme. Questa preoccupante confusione di senso è l’apertura dell’ordine simbolico come distruzione, come sacrificio dell’ordine che l’Io e la sua ragio­ne hanno storicamente dispiegato sulla terra. Allontanando dall’Io il mio mondo abituale, il sacrifìcio genera nell’Io l’angoscia di uno spa­zio non egologico. {Galimberti, 1984, p. 194)

Questo non significa che l’Io deve sottomettersi o annientarsi. Ciò aprirebbe lo spazio della follia. Del resto, lo stesso Jung ribadi­sce continuamente che l’Io ha una solida struttura che non deve mai venir meno, altrimenti si verificano fenomeni psicopatologici.

[…] perché l’Io è pur sempre il luogo in cui ciò che sta oltre si mani­lesta. Il sacrificio richiesto è il sacrificio dell’autosufficienza dell’Io, della sua assolutizzazione. In questo caso trascendere è sì paradossa­le, ma non nel senso dell’autoannientamento della coscienza razio­nale, bensì nel senso di una sua apertura a ciò che, nel riconosci­mento dei propri limiti, si annuncia oltre, e quindi trascende l’am­piezza di volta in volta raggiunta dall’orizzonte dell’Io [Galimberti, 1984, p. 196].

La storia di un rapporto con l’inconscio non inizia soltanto attra­verso l’analisi personale ma anche tenendo un semplice diario, op­pure con la sistematica trascrizione dei sogni. Le persone che si as­sumono questo impegno sono più frequenti di quanto si creda, e la loro raccolta dura spesso per moltissimi anni, dopo essere iniziata in seguito a un evento particolare. Questo può essere un primo modo di accogliere il mondo interiore: leggendo i sogni in progressione si individuano già alcuni aspetti salienti della personalità inconscia. Nell’ottica junghiana è, infatti, molto importante inserire i sogni nella totalità del loro libero fluire nel tempo, poiché ciò permette di ve­dere un’evoluzione nelle immagini interne dell’Ombra, dell’Anima ecc. Come sosteneva Jung, il processo di individuazione presuppone la relazione tra l’Io e l’inconscio, non solo attraverso la ridefinizione in termini razionali della realtà psichica ma soprattutto attraverso una sostanziale apertura al simbolico.

Per Jung dunque lo sviluppo della personalità è un processo che trascende la fisiologica conquista delle tappe evolutive che consentono a un individuo di maturare sul piano psicofìsico e di raggiun­gere un adeguato adattamento alla realtà. Il compimento di una per­sonalità è nel divenire “individuo”, ovvero un essere non-diviso nel­la sua totalità di conscio e inconscio, luce e ombra, maschile e fem­minile.

Non va trascurato, d’altro canto, l’impatto che le teorie junghiane possono avere sul pensiero moderno, con tutti i suoi risvolti politici, ideologici e sociali. A questo proposito il test d’elezione è quello di Tilman Evers Mythos und Emanzipation: eine kritische Annàhrung an C.G. Jung (1987). L’autore, prendendo a riferimento le concezioni fi­losofiche della Scuola di Francoforte con la sua dialettica del disve­lamento, evidenzia come la teoria junghiana abbia contribuito a for­nire il contesto culturale e ideologico per movimenti di liberazione come quello per la pace, il movimento femminista, la corrente eco­logista. Il processo di individuazione viene quindi interpretato come un processo finalistico orientato a una formazione responsabile di sé […].

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