Andrea Camilleri, Il filosofo e il tiranno

by gabriella
1GR-13-E2-B (192086) 'Dion führt Platon bei Dionys ein' Platon; griech. Philosoph; Athen 427 v.Chr. - ebd. 347 v.Chr. - 'Dion führt Platon bei Dionys ein'. - (Um 390 v.Chr.; Platon am Hofe des Tyrannen Dionysius in Syrakus). Holzstich, unbez., spätere Kolorierung. Aus: Hermann Göll, Die Weisen und Ge- lehrten des Alterthums, Leipzig (Otto Spamer) 1876, S.89. Berlin, Slg.Archiv f.Kunst & Geschichte. E: 'Dion presents Plato to Dionysius' Plato; Greek philosopher; Athens 427 BC - ibid. 347 BC. - 'Dion presents Plato to Dionysius'. - (c.390 BC; Plato at the court of the tyrant Dionysius in Syrakus). Wood engraving, unsigned, later colouring. From: Hermann Göll, Die Weisen und Ge- lehrten des Alterthums, Leipzig (Otto Spamer) 1876, p.89. Coll. Archiv f.Kunst & Geschichte.

Otto Spamer, Dione presenta Platone a Dioniso, 1876

In questo racconto relativo all’incontro di Platone con il tiranno di Siracusa [Micromega 4, 1999 – pp. 17-33], Camilleri dichiara di essersi basato su due documenti sconosciuti: una lettera di Dione a Crisippo di Mitilene nella quale minutamente racconta come riuscì a far invitare a cena Platone dal tiranno e un testo che Cratilo di Megara asserisce essere una fedele trascrizione del dialogo notturno tra i due.

Aveva piovuto per due giorni e due notti di fila, ma la mattinata del terzo giorno, fin dalle prime luci dell’alba, si era annunziata come una generosa riparazione. Al sole era bastata appena un’oretta per asciugare case, palazzi, templi e strade.

A malgrado del calore umidizzo provocato dall’evaporazione, dintra di sé Dione sentiva tanticchia di freddo. La sera avanti, a casa sua, si era presentato il cerimoniere di corte.

«Dionigi domattina vuole vederti. Prima che puoi».

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Dionigi, tiranno di Siracusa, era suo cognato. C’era stato un tempo nel quale i loro rapporti erano improntati a reciproca cortesia, dovuta soprattutto al legame di parentela. Non ad amicizia, ch’era parola del tutto sconosciuta a Dionigi. Poi però il tiranno si era fatto persuaso (o l’avevano fatto persuadere) che Dione sparlasse di lui e dell’uso che faceva del potere per ottenere il consenso della gente mosso da malcelate ambizioni politiche. E i loro rapporti, di colpo, erano diventati gelidi e formali.

Dione perciò aveva motivo di sentirsi inquieto per quella convocazione che non arrivava del tutto inaspettata. Anzi, essa segnava un punto a favore di un piano accuratamente preparato. La sensazione di freddo diventò più forte quando finalmente giunse a Palazzo. Era una costruzione grandiosa dovuta ad orecchio_dionisioEripilo, il migliore architetto della Sicilia e della Magna Grecia. Sorgeva in cima allo stesso colle nelle cui pendici era stato ricavato il Teatro.

Anzi si diceva che l’orecchio di Dionigi, la grande fenditura nella roccia, la latomìa nella quale il tiranno teneva i prigionieri, terminasse in un sotterraneo del palazzo e precisamente in una cameretta nella quale Dionigi poteva ascoltare, in virtù delle straordinarie proprietà acustiche del luogo, tutto ciò che i suoi nemici in cattività dicevano di lui.

Dall’alto del Palazzo, Dionigi aveva ai piedi tutta la città, l’isola d ’Orti già trasformata in roccaforte dopo che ne erano stati evacuati gli abitanti, la terrazza di Epipoli circondata dalle fortificazioni, poteva persino contare le navi che entravano e uscivano dal porto. Il Palazzo era  arioso, c’erano e normi stanze che pigliavano luce da ogni parte, persino dal soffitto, restando luminose quale che fosse l’ora del giorno. Tuttavia Dione, ogni volta che ci andava, macari quando era in buona col cognato, provava un leggero stringimento di cuore. Cercava di controllarsi, ma era più forte di lui.

«Aspetta qui», gli disse il cerimoniere appena lo vide comparire, «Dionigi ha già domandato di te, ma, visto che non arrivavi, ha cominciato le udienze. Ora l’avverto, ti riceverà subito».

L’anticamera era piena di persone che lo salutarono con rispetto. A Siracusa si sapeva tutto di tutti e quindi i presenti erano benissimo a conoscenza di come in quel momento andassero le cose tra lui e Dionigi. Eppure non ci fu uno che finse di non vederlo, nessuno gli voltò le spalle. In attesa che il tiranno chiarisse il suo atteggiamento verso il cognato, era meglio non sbilanciarsi. Dione non si fece illusioni: quegli stessi che l’ossequiavano sarebbero accorsi in frotta per assistere al suo supplizio, se Dionigi avesse deciso così.

«Puoi entrare», gli disse il cerimoniere.

Dionigi era solo, si era sbarazzato dei ministri, dei consiglieri, dei postulanti. Quindi ciò di cui voleva parlargli  doveva essere molto importante.

«Sempre caro ai miei occhi, Dione!»

Si alzò, gli andò incontro, l’abbracciò.

Dione si sentì agghiacciare da quell’accoglienza. Era cògnito a tutti che più il tiranno si mostrava aperto, espansivo, cordiale e più c’era da aspettarsi la lama nello scuro della notte, l’agguato feroce in una strada deserta.  Si fece coraggio, si mostrò lieto e sereno, ricambiò con forza l’abbraccio.

«Che tu possa vivere a lungo, Dionigi!»

«Siediti accanto a me».

Dione obbedì , il tiranno gli poggiò affettuosamente una mano sul ginocchio.

«Come stanno i tuoi cari? E Dionigi, mio figlio, come sta?»

Dione provò a esibire un pallido sorriso.

«Meglio di me lo sai tu che sei il padre».

«Eh, no. Mio figlio Dionigi frequenta più la tua casa che la mia, pende dalle tue labbra, ti ascolta come fa il popolino con l’oracolo. Alle mie parole, invece, è insofferente».

Dione pensò ch’era meglio cangiare argomento.

«Ti trovo veramente bene», disse.

Dionigi parse non averlo sentito.

«Ti ho mandato a chiamare perché, macari senza volerlo, mi stai facendo un grosso torto».

Dione aggelò ed esultò a un tempo. Forse il piano che avevano tanto a lungo studiato stava funzionando.

.. quale?», balbettò. In parte recitava e in parte era realmente atterrito.

« Non lo l’immagini? So che da due giorni è tuo ospite un  grande filosofo greco…».

Ce l’avevano fatta, Dionigi ci era cascato!

«Stai parlando di Platone?»

«E di chi altro? Tu non me l’hai fatto ancora conoscere.

Temi che io non sia alla sua altezza? Eppure sai che filosofi, poeti, intellettuali alla mia corte ne son venuti tanti, Polisseno, Eschine, Aristippo . . . Sai anche che io stesso compongo non spregevoli tragedie…».

Certo che lo sapeva. E sapeva macari che Dionigi aveva mandato a marcire nella più profonda delle latomìe il poeta Filosseno che non aveva apprezzato le sue composizioni. Doveva esibire la scusa plausibile, se l’era ripassata fin nelle minime intonazioni mentre si recava a Palazzo.

«Ma quando mai! E lui che ancora non se la sente d’uscire da casa! In questi ultimi mesi non ha fatto che viaggiare, a Megara, in Egitto, a Cirene . .. È molto stanco».

«Lo capisco, Dione. Ma ho tanto desiderio di conoscerlo anch’io che non lascerò passare un giorno di più. Stasera, poco dopo il tramonto, l’accompagni qui. Mangeremo da soli, lui ed io, così non gli sarà molto faticoso».

Un’ultima, fìnta resistenza.

«Dionigi, mi devi credere, non riesce a stare in piedi. Durante il suo viaggio qui, la nave ha incontrato un terribile fortunale. Cammina barcollando come se si fosse sottoposto a troppe libagioni in onore di Dionisio».

«Vuol dire che lo sorreggerai fino alla mia porta».

Dione entrò a casa sorridente e trionfante.

«Ho recitato meglio di Palistio! Ha abboccato! E stato lui a invitarti, non tu a fare il primo passo! Ti vuole stasera a cena, da solo».

Platone fissò l’amico pensoso. Sotto quello sguardo, l’entusiasmo di Dio ne precipitò a picco, in tutto simile a un uccello colpito dal dardo.

«C’è qualcosa che non va?», spiò.

«Spesso, anzi quasi sempre, i desideri dei tiranni sono semplicemente ordini espressi in modo un po’ meno  imperativo. Allora io ti chiedo, o Dione, chi era Dionigi quando ti domandò di vedermi?»

«Dionigi», fece, strammato, Dione.

«Questo lo so, o Dione. Ma egli lo chiedeva da tiranno o da uomo desideroso di conoscermi?»

«Fa differenza?»

«La fa. E grandissima».

«A me non pare una questione di rilievo. L’importante è che lui abbia detto d ’avere urgenza di conoscerti».

«Dimmi, o Dione, tu, come avevamo concordato, gli hai ripetuto più di una volta che io ero molto stanco per il viaggio?»

«Certamente. Ma lui è rimasto fermo nel proposito di ve­derti».

«E dimmi ancora, o Dione, se noi avessimo diversamente stabilito, e cioè che io oggi non mi sarei dovuto far vedere da Dionigi, tu avresti lo stesso portato a termine il tuo compito? Avresti fermamente continuato a rispondere di no? Oppure per la sua insistenza, e nel timore d’avere a subire le conseguenze del tuo ostinato rifiuto, saresti corso qua a dirmi che, nell’interesse di tutti, era meglio se mi fossi recato a Palazzo?»

Ma questo, perdonami , Platone, si chiama spaccare il culo ai passeri!», esplose Dione liberandosi della tensione accumulata nell’incontro con Dionigi. «L’essenziale è che noi abbiamo raggiunto il nostro scopo. Se fossi stato io a domandargli udienza e lui te l ’avesse concessa, saresti partito da una condizione sfavorevole. Ora sei tu che concedi al tiranno la tua presenza!»

Platone tacque. Pensò che c’era una lunga strada da fare per educare Dione, Dionigi il giovane e i loro amici, ancora troppo inesperti, all’esercizio della vera filosofia. Fu il senso diplomatico di Dionigi il giovane a porre termine alla disputa.

« E se mio padre avesse chiesto di te da tiranno certamente, ma anche da uomo voglioso di vederti?»

«Messa così la cosa», fece il filosofo dopo averci pensato su tanticchia, «allora mi sta bene».

«Siamo nelle tue mani, anzi nella tua bocca», disse Dione abbracciando Platone sull’entrata del Palazzo.

«Noi tutti speriamo che le tue parole possano persuadere Dionigi ad esercitare il potere non solamente per sé, ma anche tenendo conto delle necessità dei sudditi, in nome della ragione e della giustizia. E soprattutto che si possa vivere tranquilli, liberi dalla paura della morte voluta, quasi per gioco, dal capriccio di uno».

«Non sono d’accordo con te sulle ultime parole che hai detto. La morte di un uomo è sempre capriccio di qualcuno, dio o uomo che sia. Per il resto, cercherò di fare del mio meglio».

Platone varcò la soglia ed entrò nella grande anticamera. Non si vedeva nessuno in giro. Non tutte le fiaccole erano accese e facevano un sinistro gioco di luci e di ombre. Il filosofo si era immaginato tutt’altra accoglienza e s’in­quietò.

«C’è nessuno?», spiò ad alta voce.

«.. .uno?», ripeté l ’eco.

«Uno c’è», disse Dionigi apparendo nel vano d’una porta.

Era un uomo immenso, una specie di Eracle che sarebbe stato forse più a suo agio rivestito solo dalla pelle di una belva feroce.

«Entra qua», fece scostando una pesantissima tenda.

Platone lo seguì e si trovò in una sala da pranzo gigantesca. C’erano due lunghi tavoli paralleli, capace ognuno di un centinaio di posti, sontuosamente imbanditi. Un terzo tavolo, piccolo, per due sole persone, era stato approntato in un angolo. Un quarto tavolo stava appoggiato alla parete, stracolmo di portate già pronte, dal cinghiale al pesce spada, dall’agnello all’aragosta. E inoltre, condimenti d’ogni colore, frutta, vini rossi, bianchi, rosati, speziati, mielati. E frutta di Sicilia, di Grecia, d’Arabia.

«M’è parso di capire che saremmo stati noi due soli», disse Platone.

«E così sarà», fece Dionigi mentre riempiva vassoi su vas­soi del cibo che c’era sul tavolo portavivande e li depo­neva per terra.

«E tutta questa roba?»

«È per noi».

Platone si sentì pigliare dal panico.

«Ma io la sera mangio solo un pochino di verdura».

«Anch’io», disse Dionigi, «ma bisogna salvare le forme».

Quando in terra ci furono una ventina di vassoi pieni, fece un fischio modulato. Da una stanza vicina arrivarono quattro superbi cani e si buttarono avidamente sul pasto.

«Vedi», fece Dionigi pigliando amichevolmente sotto brac­cio Platone e guidandolo verso il tavolino apparecchiato per due, «così i cani mangeranno quello che la gente, domani, crederà abbia mangiato io. Il popolo ama sapere che chi governa mangia, beve, fa l’amore quanto dieci di loro. È la regola prima della tirannia. E dimmi: quando te ne riparti?»

Il filosofo lo sapeva che questo era l’uso delle genti che vivevano in Sicilia. Due le domande immediate allo stra­niero: «Quando sei arrivato? E quando te ne vai?»

«Me ne andrò quando piacerà a te, Dionigi».

«Ahi!», fece il tiranno. «Questa tua risposta, scusami se te lo dico, non mi piace per niente. Mi pare degna di un cortigiano».

«Non puoi definire cortigianeria la mia risposta. Essa è il risultato di una semplice, addirittura banale, constatazione».

«Spiegati meglio. Intanto siediti e mangia un po’ di verdura».

Il piatto era già pronto sul tavolo piccolo.

«Tu lo sapevi qual è il mio pasto serale?»

«Certo, Platone. Se non mi fossi informato, non sarei né un tiranno né un buon padrone di casa. Ma continua il tuo discorso».

«Non sei tu, o Dionigi, il signore della vita e della morte di tutti quelli che vivono a Siracusa? Vita e morte non sono altro che concrete espressioni del tempo. Tu puoi far ammazzare, per tuo capriccio, un bimbo appena nato: ecco, hai disposto che gli fosse tolto il tempo che aveva da vivere. Tu potresti, sto dicendo un paradosso, fermare il tempo dei tuoi sudditi».

«E come?», spiò Dionigi interessato.

«Potresti riunire nello Stadio tutti i siracusani e cosi obbligarli a starsene lì senza fare niente. Gli toglieresti, cosi, il tempo degli affari, dell’amore, dell’amicizia…».

Dionigi lo taliò ammirato, a bocca spalancata.

«Mi avevano detto ch’eri una gran testa fina, ma così fina non te la facevo! Complimenti!»

Per una volta tanto, Platone cedette all’orgoglio.

«Hai letto le mie opere?», spiò.

«Le opere no, le lettere sì».

«Quali lettere?»

«Quelle che ti scrivono Dione, Dionigi mio figlio e i loro amici e quelle tue in risposta. Non c’è capitano di mare, o Platone, che non mi porti la corrispondenza in arrivo o in partenza. Quindi conosco bene le tue idee». Il filosofo si ricordò di qualche passo delle sue lettere e non si sentì tanto bene.

«Concludendo il discorso di prima», fece Platone, «credo d’averti spiegato perché la durata del mio soggiorno qua dipende da te».

«Non solo la durata del tuo soggiorno, direi».

Il sorrisetto che accompagnò quelle parole aumentò il malostare di Platone.

«Devo dirti», continuò Dionigi, «che questa tua idea dello Stadio mi pare formidabile. Tra una decina di giorni farò concentrare allo Stadio tutti gli uomini validi di Siracusa e farò sapere loro che, per mio volere, dovranno starsene lì a tempo indeterminato».

«Per quale scopo? Cosa ne ottieni?»

«La loro gratitudine. Lascerò trascorrere qualche settimana e poi, quando ormai si saranno rassegnati a una lunghissima permanenza, darò l’ordine di farli tornare a casa.

Non mi terranno rancore, anzi. Saranno pieni di gioia e di gratitudine per la mia generosità. Dopo due o tre mesi, li rinchiuderò nuovamente. Grazie dell’idea, Platone!»

« Hai travisato il mio esempio. E non ringraziarmi, io non collaboro con la tirannia».

«Lo stai facendo. Dai tiranni bisogna stare alla larga. Se li si frequentano, in un modo o nell’altro si finisce col collaborare».

«Tutti capiranno che non posso essere stato io a darti un così ingiusto suggerimento!»

«Allora dammene di saggi e di giusti. Parliamo, se vuoi, di ragione e di giustizia, come ti ha suggerito poco fa Dione sulla soglia del Palazzo».

«Come fai a saperlo?», spiò il filosofo sconcertato.

«L’orecchio di Dionigi non esiste solo nelle latomìe. Parliamo pure di ragione e di giustizia, prima però mettiamo­ci d’accordo sui termini. Ma prima ancora: vuoi mangiare qualche altra cosa?»

«Beh, ti confesso di sì. L’appetito, come si usa dire, vien mangiando. Se ci fossero dei capperetti di Lipari, li gradirei».

Dionigi si trasformò. La fronte gli s’arrugò, le labbra gli diventarono sottili, l’occhio s’infuscò.

«Li hai mai mangiati prima?»

Platone s’inquartò. Perché Dionigi era diventato di colpo così sospettoso?

«No. Ma mi hanno detto che …».

«Chi te l’ha detto?», spiò con una specie di ruggito il tiranno, balzando in piedi.

«Tuo figlio Dionigi», riuscì ad articolare Platone.

Il tiranno emise un ululato che fece accapponare la pelle al filosofo. I cani abbandonarono il pasto e scapparono, la coda in mezzo alle gambe.

«Lo sapevo! Lo sapevo!», gridava Dionigi percorrendo a grandi passi la sala.

«Ma che ho detto di tanto grave?», si lamentò il filosofò.

Dionigi non rispose subito, camminò ancora per la stanza, poi, più calmo, tornò ad assittarsi.

«Mio figlio Dionigi è un mascalzone. Lui crede d’essere migliore di me, ma quando prenderà il mio posto, ve la godrete, tutti voi che sperate e credete nel suo senso di giustizia! Mi rimpiangerete!»

«Va bene, ma che c’entra questo con i capperetti?»

«C’entra. Non con i capperetti in generale, ma con quelli di Lipari. Non lo sai che Imileone, il comandante dell’esercito cartaginese, ha conquistato Lipari e Messana? E quindi mio figlio, attraverso di te, mi ha mandato a dire che mi giudica un pessimo stratega !

Comunque, capperetti non ce ne sono. Vuoi qualche altra cosa?»

«M’è passato l’appetito. E m’è venuto anche un certo dolore di stomaco, forse per la paura di un momento fa».

«A te la paura fa venire il mal di pancia?»

«In genere, sì».

«Ce l’avevi quando Socrate ha dovuto bere la cicuta?»

Platone non era presente alla morte di Socrate perché, dirà nel Fedone, era malato

Tutto s’aspettava Platone tranne che quella domanda.

«Che c’entra?», spiò imparpagliato.

«Rispondimi. È stato il mal di pancia a impedirti d’andare a trovare il tuo amico e maestro Socrate per stargli accanto mentre portava alle labbra il veleno?»

Platone si sentì ribollire dallo sdegno.

«Ti proibisco! Ti proibisco di supporre che un volgare mal di pancia avrebbe potuto tenermi lontano da lui in quel momento!»

«Allora, se non era mal di pancia, di cosa pativi?»

«Non mi ricordo. E poi che importanza ha?»

« Hai ragione, non importa. Importa solo che tu non c’eri.  I suoi discepoli, i suoi amici, i suoi estimatori c’erano tutti. Tu invece no».

«Cosa stai insinuando?»

«La presenza di quelle persone non aveva solo valore affettivo, significava l’adesione alle sue idee. Un’adesione politica. Tu, però, non c’eri. Allora io ti domando, Platone: non hai pensato che la tua assenza implicitamente significasse assenso alle leggi che mandavano a morte il tuo maestro?»

Platone si pigliò la faccia tra le mani, fece una pausa lunghissima prima di rispondere a Dionigi che intanto ridacchiava taliandolo.

«Acutamente, o Dionigi, hai capito che il mio male non era del corpo. Quelle leggi erano, nei limite del possibile, giuste. Ma furono usate male».

«Tu dici? Forse hai ragione e macari quelli che l’avevano condannato si erano resi conto di star usando male la legge. L’usavano male non per averlo condannato a morte, ma adoperando tutti i mezzi possibili per evitare che la condanna venisse eseguita. Gli fecero sapere che avrebbe potuto chiedere in cambio l’esilio; gli mandarono a dire che poteva riscattare la morte con una grossa somma di denaro; gli offrirono la possibilità di fuggire. E lui niente. Approfittarono del fatto che mentre c’è una nave in viaggio verso Deio non si possono eseguire condanne a morte per dargli il tempo di trovare una scappatoia, ma lui niente. Più la severità della legge si smagliava, più cercavano un adattamento, un accordo e più s ’intestardiva nella rigorosa applicazione della legge a suo danno, lo credo che in quei giorni Socrate abbia rimpianto di non essere stato condannato da un tiranno».

«Che menzogna stai dicendo?»

«A parte che, dal punto di vista del condannato, non fa differenza se ad ammazzarlo sia un governo tirannico o una democrazia, io, da tiranno, se mando qualcuno a morte, la decisione la mantengo senza sentire lamenti di parenti o ragioni d’opportunità. Quando invece la democrazia ti condanna a morte, siccome si tratta di leggi fatte dai più, deve ascoltare le idee, i ripensamenti dei più. Allora cos’è meglio? La legge forte o la legge debole? Con la sua morte, Socrate volle dimostrare una cosa: la subordinazione del singolo di fronte allo Stato. In quel momento la sua morte era utile ai più forti. Allora, Platone, dopo questa lunga premessa io ti domando? Cos’è giustizia? Ha ragione Trasima­co quando afferma che la giustizia è l’utile del più forte?»

«Anzitutto, Trasimaco dice che il giusto, e non la Giustizia, è l’utile del più forte».

«Ma giusto e giustizia non sono la stessa cosa?»

«No. Ma ammettiamo, tanto per parlare, che Trasimaco abbia detto “giustizia”.  Anche in questo caso, però la frase non è corretta. Al posto di Giustizia bisognerebbe dire: le leggi. E comunque tu, citando a questo modo Trasimaco, semplifichi molto le cose».

«Perdona la mia rozzezza e chiariscimi quest’argomento che dici complicato».

«Intanto l’identificazione di tutte le leggi promulgate da uno Stato, dispotico o democratico che sia, con la Giusti­zia è assolutamente errata. Una cosa è il corpo delle leggi, un’altra cosa la Giustizia».

«Scusami se oso interromperti. Se io riuscissi a raccoglie­re tutte le leggi di tutti gli Stati del mondo e le conservassi in una camera, potrei dire che in quella camera ho la giustizia?»

«No. Potresti solamente dire che in quella camera ci sono tutte le leggi degli uomini, non la Giustizia».

« E allora la giustizia dove sta? Sta al di fuori di quella camera?»

«Al momento attuale, sì.Vedi, Dionigi, tutte le leggi fanno l’utile di una parte contro un altra. La Giustizia invece dev’essere totalmente svincolata da ogni parte che abbia il potere».

«Ma la giustizia senza potere non potrà mai essere applicata!»

«Lo sarà nel momento nel quale Giustizia e potere coincideranno e non saranno più l’una contro l’altro. E la Giustizia potrà coincidere col Potere solo quando questo sarà capace di rinnegare la sua natura di parte, rinunziando al dominio».

La risata d i Dionigi esplose così alta e vibrante che i cani, tornati timidamente al loro pasto, scapparono di nuovo.

«Ma chi, sulla terra, è in grado d’esercitare il potere rinunziando al dominio? Tu non sei un filosofo, Platone, ma un poeta con la testa tra le nuvole!»

«I filosofi lo sono in grado, o Dionigi».

«Tu vorresti dei filosofi despoti?»

«Non despoti, ma re».

«Spiegati meglio».

«A meno che i filosofi non regnino sulle città, o quelli che oggi sono re non si decidano a nobilmente filosofare, non ci sarà mai tregua ai mali degli uomini».

«In una sola persona, dici? Re e filosofo? Non un buon filosofo che consigli il re?»

«In una sola persona».

Dionigi si alzò, pigliò a passeggiare per la camera. Poi si riassittò.

«Rispondimi sinceramente, Platone. Io oggi rappresento tutto il male per i cittadini di Siracusa?»

«Sì, se me lo chiedi».

«E t u invece il possibile bene?»

«Sì».

«La sai una cosa, Platone? Ho incontrato uomini di gover­no vanagloriosi, soldati spacconi, governanti che pensavano d’essere nel giusto e militari che le guerre le hanno vinte sul serio. Ebbene, nessuno di loro aveva una così alta, orgogliosa, blasfema considerazione di sé».

«Non di me, ma della filosofìa».

«È lo stesso. E tu, con le parole che dici, tradisci anche quelli che ti hanno invitato qua a Siracusa».

«Non so cosa sia la parola tradimento, Dionigi».

«Dovresti saperlo, dato che sei un filosofo. Dione e lo stesso mio figlio ti hanno chiamato perché io modificassi certe leggi, perché io fossi più aperto ai desideri dei cittadini. Ma tu non sei venuto a dirmi questo; sei venuto a comunicarmi, in parole povere, che se io non cedo a te il potere, niente andrà bene per Siracusa».

«Se non a me, a un altro filosofo».

Il diritto restitutivo opera con il concorso libero e autonomo del cittadino che riconosce la legge e si conforma ad essa

«Credi davvero che ci sia da augurarsi che i re diventino filosofi o viceversa? Non capisci che il libero esercizio della ragione può essere corrotto dall’esercizio del potere? E, peggio ancora, che il potere corromperebbe inevitabilmente la filosofia?

Non è meglio per tutti se le cose restano come sono, io tiranno e tu filosofo? La vostra ricerca, di necessità, vi porta al dubbio continuo, noi politici amiamo la certezza, che è ordine. E la gente ama comunque l’ordine. O l’ordine comunque, se vuoi. A ben pensarci, coloro che condannarono Socrate videro giusto. Si servirono delle sciocche accuse di Meleto e Anito perché capirono che bisognava impedire a quel cervello di funzionare, le sue idee avrebbero prima o poi sovvertito istituzioni, tradizioni, religione, tutto. E, se io fossi saggio come loro, dovrei farti fare la stessa fine del tuo maestro. Ma non lo farò, mi hai dato dei buoni consigli».

(Non s’incontrarono più. Com’è noto, sui tre viaggi effet­tuati a Siracusa – gli altri due avvennero quando andò al potere Dionigi il Giovane – Platone ha detto il vero in lettere redatte in modo da apparire false e ha detto il falso in lettere scritte in modo d’apparire vere. Il nostro racconto invece si basa su due documenti sconosciuti.

Il primo è una lettera di Dione a Crisippo di Mitilene nella quale minutamente racconta come riuscì a far invitare a cena Platone dal tiranno. Il secondo è quella che Cratilo di Megara asserisce essere una fedele trascrizione del notturno dialogo tra i due. Egli potè ascoltarlo parola per parola attraverso un piccolo orecchio di Dionigi.

Va detto che, all’epoca, gli orecchi di Dionigi a Siracusa esistevano un po’ dappertutto: praticamente tutta la città era un immenso orecchio. Come avviene sempre nelle dittature. Confessiamo di avere esitato a lungo prima di pubblicare l’asserita trascrizione di Cratilo di Megara per la palese banalità e incongruità del dialogo. Possibile che un grande filosofo e un intelligente tiranno si siano espressi in questo modo?

A favore del passo sulla autenticità gioca però il fatto che proprio in quegli anni Dionigi istituì la «concentrazione», ossia la convocazione improvvisa dei cittadini allo Stadio, dove venivano trattenuti a tempo indeterminato – e il «processo preventivo», nel quale veniva valutato lo sviluppo pratico che le idee di un filosofo avrebbero potuto avere negli anni a venire.

Inutile dire che se il parere dei giudici risultava negativo, il filosofo veniva immediatamente messo a morte.

 

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