Bertold Brecht, Fulgenzio e Galilei

by gabriella
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Bertold Brecht (1898 – 1956)

Le implicazioni politico-culturali della nuova visione dell’universo. Lavoro di analisi per una quarta Liceo di Scienze Umane.

Nell’VIII scena di Vita di Galilei, Brecht colloca lo splendido colloquio tra il vecchio scienziato e il discepolo, l’ecclesiastico Fulgenzio che difende l’idea dell’utilità compassionevole della credenza e dell’ignoranza.

Fulgenzio è allievo di Galilei e ha capito, da matematico qual è, la verità del copernicanesimo propugnato dal maestro. Si reca allora da lui per comunicargli la volontà di abbandonare l’astronomia, davanti alla quale Galilei ipotizza, sulle prime, che l’allievo fugga il rogo e la tortura.

Ma non si tratta solo di questo. Da religioso e uomo di cultura, Fulgenzio presagisce l’impatto che la nuova visione può avere sulla società. Ricorda i propri genitori, poveri contadini che avevano nel ciclo della semina l’unica sicurezza di una vita di sofferenze e nella certezza del Paradiso la ricompensa per le rinunce e i dolori terreni. Certezze che un universo meccanico, vuoto, fatto di sola materia rotante nello spazio dissolverebbe all’istante.

È il religioso, quindi, a trarre tutte conseguenze culturali, sociali e politiche della nuova astronomia che il Galilei storico non intravide mai.

Sotto il testo semplificato con una possibile interpretazione (e la versione pdf per la stampa) dalla quale si può vedere come per svolgere l’analisi, non sia sufficiente parafrasare il testo, ma occorra indicare i contenuti impliciti e il significato delle metafore e delle tante osservazioni ironiche o sarcastiche con cui il Galilei brechtiano respinge la visione tradizionale del potere offerta da Fulgenzio.

 

VIII.

Palazzo dell’ambasciata fiorentina a Roma.
Galileo sta parlando con frate Fulgenzio.

“Per haver tenuto e creduto che il sole sia il centro del mondo et immobile, e che la terra non sia centro e si muova, abiuro, maledico e detesto li suddetti errori ed eresie”

GALILEO Parlate pure: il vostro abito vi dà diritto di dire tutto quel che volete.
FULGENZIO  Ho studiato matematica, signor Galilei.
GALILEO Questo può tornarci utile, se vi induce ad ammettere che due e due possono anche fare quattro.
FULGENZIO Signor Galilei, non ho chiuso occhio da tre notti per tentar di conciliare il decreto, che ho letto, con le lune di Giove, che ho viste. Stamattina ho deciso di dire la messa e poi di venirvi a trovare.
GALILEO Per dirmi che le lune di Giove non esistono?
FULGENZIO No. Sono riuscito a convincermi che il decreto [del Sant’Uffizio, nota mia] è stato saggio. È servito a rivelarmi quanto possa essere rischiosa per l’umanità un’indagine libera da ogni freno: tanto, che ho preso la decisione di abbandonare l’astronomia. Ma ho pure sentito il bisogno di esporvi alcuni motivi che possono spingere anche un astronomo, quale ero io, a interrompere lo studio delle scienze esatte.

Fulgenzio e Galilei: le conseguenze politico-culturali della nuova astronomia

GALILEO So benissimo quali sono questi motivi.
FULGENZIO Capisco la vostra amarezza.  Alludete a certi poteri straordinari di cui dispone la Chiesa.
GALILEO Chiamateli pure strumenti di tortura.

 

1. Che cosa va a dire Fulgenzio a Galilei? Quali ragioni ipotizza Galilei per la scelta che Fulgenzio sta per fare?

Il giovane ecclesiastico Fulgenzio va a comunicare a Galilei, un tempo suo maestro, l’intenzione di abbandonare l’astronomia. Galilei immagina che lo faccia per paura dei metodi brutali (la tortura, il rogo a cui era appena stato condannato Giodano Bruno, la prigione) con cui la Chiesa reprimeva le eresie.

 

FULGENZIO Ma non si tratta solo di questo. Permettete che vi parli di me? Sono cresciuto in campagna, figlio di genitori contadini: gente semplice, che sa tutto della coltivazione dell’ulivo, ma del resto ben poco istruita. Quando osservo le fasi di Venere, ho sempre loro dinanzi agli occhi. Li vedo seduti, insieme a mia sorella, sulla pietra del focolare, mentre consumano il loro magro pasto. Sopra le loro teste stanno le travi del soffitto, annerite  dal fumo dei secoli, e le loro mani spossate dal  lavoro reggono un coltelluccio.

Jean-François Millet, L’Angelus (Musée d’Orsay, 1857)

Certo, non vivono bene; ma nella loro miseria esiste una sorta di ordine riposto,  una serie  di  scadenze:  il  pavimento  della  casa  da lavare,  le  stagioni  che variano nell’uliveto, le decime da pagare…  Le sventure  piovono loro addosso con regolarità, quasi seguendo un ciclo. La schiena di mio padre non s’è incurvata tutta in una volta, ma un poco più ogni primavera, lavorando nell’uliveto: allo stesso modo che i parti, succedendosi a intervalli sempre uguali, sempre più facevano di mia madre una creatura senza sesso.

Donde traggono la forza necessaria per la loro faticosa esistenza? per salire i sentieri petrosi con le gerle colme sul dorso, per far figli, per mangiare perfino? Dal senso di continuità, di necessità, che infonde in loro lo spettacolo degli alberi  che  rinverdiscono  ogni  anno,  la  vista  del  campicello  e  della  chiesetta,  la spiegazione del Vangelo che ascoltano la domenica. Si son sentiti dire e ripetere che l’occhio di Dio è su di loro, indagatore e quasi  ansioso; che intorno a loro è stato costruito  il  grande  teatro  del  mondo  perché  vi  facciano  buona  prova  recitando ciascuno la grande o piccola parte che gli è assegnata… Come la prenderebbero ora, se andassi  a dirgli  che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro, uno fra tanti, e neppure molto importante?

Che scopo avrebbe tutta la loro pazienza, la loro sopportazione di tanta infelicità? Quella Sacra Scrittura, che tutto spiega e di tutto mostra la necessità:  il sudore,  la  pazienza,  la  fame,  l’oppressione,  a  che  potrebbe  ancora  servire  se scoprissero che è piena di errori? No: vedo i  loro sguardi velarsi  di sgomento, e il coltelluccio cadere sulla pietra del focolare; vedo come si sentono traditi, ingannati. Dunque,  dicono,  non  c’è  nessun  occhio  sopra  di  noi?  Siamo  noi  che  dobbiamo provvedere a noi stessi, ignoranti, vecchi, logori come siamo? Non ci è stata assegnata altra parte che di vivere cosi,  da miserabili  abitanti  di un minuscolo astro, privo di ogni autonomia e niente affatto al centro di tutte le cose? Dunque, la nostra miseria non ha alcun senso, la fame non è una prova di forza,  è semplicemente non aver mangiato! E la fatica è piegar la schiena e trascinar pesi, non un merito! Così direbbero; ed ecco perché nel decreto del Sant’Uffizio ho scorto una nobile misericordia materna, una grande bontà d’animo.

 

2. Quali ragioni porta Fulgenzio per spiegare la sua scelta? E perché ritiene che il decreto del Sant’Uffizio manifesti “una nobile misericordia materna, una grande bontà d’animo”?

Fulgenzio respinge l’insinuazione di Galilei che il suo abbandono degli studi sia motivato solo dalla paura e propone allo scienziato un quadro di vita popolare che, a suo avviso, non potrebbe che essere sconvolto dalla nuova visione dell’Universo.

Perché, infatti, i poveri sopportano la loro pesante condizione? Si chiede il monaco. Perché pensano che la loro povertà il tassello di un ordine universale in cui ognuno ha la sua parte, al quale corrisponderà una giusta ricompensa (la vita eterna nella beatitudine). Se venissero a sapere che questo ordine forse non esiste, che non c’è un alto e un basso, che tutti i pianeti, e dunque tutti gli esseri, sono uguali e che quindi la loro oscena povertà non trova giustificazione, tutte le loro fatiche e la loro eroica sopportazione perderebbero senso e non potrebbero più essere sostenute.

Nell’impossibilità che le cose cambino e che la società diventi più giusta (questa è, infatti, la convinzione e l’auspicio di chi comanda), mantenere i poveri nella loro ignoranza è, quindi, un gesto di misericordia materna, poiché una eventuale nuova consapevolezza non potrebbe che rendere insostenibile la loro sofferenza, privandoli anche di una illusoria speranza di compensazione.

Forse intendete dire che, dal momento che non c’è più niente, che tutto il vino è bevuto e che le loro labbra sono secche, non gli resta che baciare la tonaca! Ma perché non c’è più niente? Perché mai l’ordine che regna in questo paese è l’ordine che esiste in un magazzino vuoto?

GALILEI: O Bontà d’animo! Forse intendete dire che, dal momento che non c’è più niente, che tutto il vino è bevuto e che le loro labbra sono secche, non gli resta che baciare la tonaca! Ma perché non c’è più niente? Perché mai l’ordine che regna in questo paese è l’ordine che esiste in un magazzino vuoto? Perché non v’è altra necessità che quella di lavorare fino a crepare? In mezzo a vigneti carichi di grappoli, ai campi folti di grano! Sono i vostri parenti contadini quelli che pagano le guerre scatenate dal vicario del pio Gesù in Spagna e in Germania! Perché Gesù ha posto la terra al centro dell’universo? Ma perché la cattedra di Pietro possa essere il centro della terra! È solo di questo che si tratta.

 

3. Spiega cosa obietta sarcasticamente Galilei

Galilei respinge con sdegno la visione offerta da Fulgenzio con la quale il potere legittima il proprio diritto a mantenere le diseguaglianze e l’ingiustizia. Se, infatti, esiste un Dio – sostiene implicitamente il religioso – non è possibile che la realtà così com’è non risponda a un suo disegno o che, in qualche modo, Egli non voglia ciò che accade sulla terra (i Greci antichi chiamavano Themis questa idea di giustizia che verrà abbandonata dopo le guerre civili della Ionia a favore dell’idea soloniana di giustizia come uguaglianza davanti alla legge). 

Galilei gli fa osservare, invece, che il problema, per la Chiesa, non è l’astronomia, ma le conseguenze di una nuova visione dell’Universo in cui non trova spazio l’idea che il Papato sia al centro della società e debba comandarla; non trova spazio, cioè, la giustificazione religiosa della miseria e dell’oppressione dei poveri, mandati in guerra per arricchire i potenti. 

 

Avete ragione voi: non si tratta dei pianeti, ma dei contadini dell’Agro Romano. […] perché le guerre spopolano i territori e i nostri campi sono sterili. Bisogna dunque proprio mentire alla tua gente?

Ancora ironia sulle parole di Fulgenzio: certo, non stiamo parlando di astronomia, ma della società e della giustizia: è questo il problema. Perché le cose restino come sono, occorre mentire alla gente del popolo. Solo la loro ignoranza può cementare il potere dei ricchi e dei prelati e il mantenimento di un ordine che è quello che “regna in un magazzino vuoto”.

 

4. Secondo Galilei, qual è la ragione autentica per cui la Chiesa osteggia la nuova astronomia?

Galilei osserva. invece, che se c’è ingiustizia, se i poveri non hanno niente, è perché qualcuno li ha spogliati di ciò che spettava loro. Se i poveri vivono nella miseria non è, quindi, per fare cosa grata a Dio, ma perché ricchi e potenti si sono impadroniti di tutte le ricchezze. Sono loro a mandare i poveri in guerra a morire, per beneficiare poi delle conquiste ottenute col sangue.

Lo scienziato conclude poi ironicamente, che è evidente che il senso di questo universo geocentrico che la Chiesa difende così tenacemente, è il diritto che essa si arroga di fare ciò che vuole: la terra deve restare al centro dell’Universo perché la Chiesa resti al centro della società e continui a guidarla, non certo perché Dio abbia reso l’uomo e la Chiesa sovrani dell’Universo. 

 

FULGENZIO: (con grande agitazione) Dobbiamo tacere per il più nobile dei motivi: la pace spirituale dei diseredati!
GALILEO: Vuoi che ti mostri una pendola del Cellini? Me l’ha portata stamane il cocchiere del cardinale Bellarmino. Caro mio, come contentino per non turbare la pace spirituale dei tuoi genitori, le autorità mi offrono la mia porzione del vino che hanno vendemmiato dal sudore dei loro volti, i quali, come tu ben sai, sono fatti a immagine e somiglianza di Dio. Se mi adattassi a tacere, potrei anche ricavarne qualche utilità: vita facile, niente persecuzioni e via dicendo. […]

 

5. Perchè Galilei parla a Fulgenzio della pendola del Cellini?

Fulgenzio insiste: “dobbiamo tacere la verità perché i poveri possano continuare a sperare in Dio (mantenendosi in una condizione di miseria e oppressione). Ma Galilei smaschera l’ipocrita pietà del religioso: non si tratta di mantenere la pace spirituale dei miserabili, ma il privilegio dei ricchi e dei potenti, primo tra tutti il Papa.

Per mantenere tali privilegi, chi comanda è disposto a pagare, cercando di corrompere chi scopre la verità. Il cardinale Bellarmino ha, infatti, cercato di comprare il silenzio dello scienziato con un dono prezioso (un orologio da parete cesellato da Cellini) con il quale la Chiesa accetta di condividere un po’ dei suoi privilegi (la ricchezza di cui è metafora “il vino vendemmiato dal sudore dei poveri”) con chi l’aiuta a mantenerli.

 

FULGENZIO Ma non credete che la verità – se verità è – si farà strada anche senza di noi?
GALILEI No, no, no! La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano. Tu parli dei contadini dell’Agro come se fossero il muschio che alligna sulle loro capanne! A chi mai può passare per la mente che ciò che a loro interessa, non vada d’accordo con la somma degli angoli di un triangolo? Certo che, se non si agitano, se non imparano a pensare, poco può aiutarli anche il più efficace sistema d’irrigazione. Per tutti i diavoli, vedo bene che sono ricchi di divina pazienza; ma la loro divina furia, dov’è?
FULGENZIO  Sono stanchi.
GALILEI (gettandogli un fascio di manoscritti) Sei o non sei un fisico, figlio mio? Qui sta scritto com’è che negli oceani avvengono le alte e le basse maree. Non lo puoi leggere, hai capito? To’, e invece lo leggi? Sei un fisico, allora? (Frate Fulgenzio è sprofondato nella lettura). Il frutto dell’albero della conoscenza! Ecco, lo azzanna subito. Sarà dannato in eterno, ma  non può far a meno di azzannarlo, sciagurato ghiottone! A volte penso che mi lascerei rinchiudere in una prigione dieci tese sotterra, dove non penetrasse un filo di luce, purché in cambio potessi scoprire di che cosa la luce è fatta. E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno: come un amante, come un ubriaco, come un traditore. È un vizio maledetto, mi trascinerà alla rovina. Quanto potrò resistere a parlare solo coi muri? Questo è il problema.

 

6. In che modo Fulgenzio e Galilei affrontano il tema della verità? In cosa differiscono i loro argomenti?

Fulgenzio e Galilei parlano della verità in termini politici e sociali: dire la verità sulla struttura dell’universo, significa scoprire la menzogna millenaria con cui si è legittimata l’ingiustizia sociale.

Galilei fa, pertanto, osservare a Fulgenzio che essa non può imporsi da sola, ma  ha bisogno, per essere affermata, di qualcuno che tolga il velo alla realtà, smascherandone la falsificazione.

Da questa prospettiva (che è stata già quella platonica e, nella filosofia contemporanea, di Michel Foucault), la verità non è solo corrispondenza della parola alla realtà, ma anche azione di trasformazione, impegno collettivo perché la verità si traduca in una realtà vissuta e abitata dalla gente.

Si veda, nella  lezione su Platone, il primo paragrafo La vita come parrhesia e il significato pratico (o politico) della verità e nella videolezione, il commento al frammento del film su Placido Rizzotto “contro di chi dobbiamo lottare”, posto al termine del video.

 

Platone

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