Bonhoeffer

by gabriella
Dietrich Bonhoeffer (1906 - 1945)

Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945)

«Dio, inteso come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica, è eliminato, superato (..) E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi deus non daretur» [D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, ed. it. a cura di A. Gallas, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 1996, pp. 438-40.]

Sono le celebri parole affidate da Dietriech Bonhoeffer a una delle sue ultime lettere di argomento teologico, scritte in carcere, poco prima di essere assassinato per mano nazista, per l’accusa – fondata – di aver partecipato a una cospirazione per eliminare Hitler.

«Siamo diventati adulti», veniamo a capo «anche senza Dio» di tutte le questioni etiche ed esistenziali: questo era il messaggio depositato in bottiglia, poco prima della sua morte, dal teologo protestante. Un messaggio rivolto in primis a tutti i cristiani: l’autonomia della coscienza moderna nei confronti dei «concetti biblici», la ragione critica, la scienza, l´analisi della società e dell’io, osservava Bonhoeffer, ci hanno fatto diventare maggiorenni che non cercano più la mano del padre per stare in piedi, ma stanno in piedi da soli, decidono da soli, scegliendo e pagandone il prezzo. «Come se Dio non ci fosse».

Naturalmente, per il credente Bonhoeffer, Dio, il Cristo e la sua passione, continuavano a rimanere il senso del tutto, l’orizzonte e la bussola d’orientamento, ciò su cui l’uomo deve misurare la sua esperienza storico-mondana. Di questa esperienza, però, l’uomo divenuto adulto, secondo il teologo, deve ormai assumersi, nel tempo moderno, tutta la responsabilità, attraversando da solo i labirinti della storia, come il Cristo: senza ricorrere più a un “Dio tappabuchi”, a una religiosità querula e consolatoria che distrae da un impegno integrale nel mondo.

Ogni volta che si parla di credenti impegnati a «divenire adulti», a vivere una fede disposta a farsi carico del moderno “ateismo metodologico”, ad aprirsi cioè costruttivamente al compito di fronteggiare laicamente le sfide in cui si trovano coinvolte le nostre società sempre più globali e meticce, il pensiero corre, o dovrebbe correre, a queste ultime lettere di Bonhoeffer, vero e proprio vertice della riflessione teologica novecentesca. Ma a queste lettere il pensiero dovrebbe correre anche ogni volta che si afferma che il cristianesimo non può costitutivamente aprirsi ai principi moderni del pluralismo e della laicità. L’esortazione rivolta ai cristiani a vivere “a cospetto di Dio” ma “senza Dio”, era accompagnata infatti dal teologo protestante da un monito fondamentale:

«è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione»

per tutte le questioni etiche ed esistenziali [stralcio da un articolo di Giorgio Fazio].

 

Rossana Rossanda, Dietrich Bonhoeffer

Non so se Dietrich Bonhoeffer possa essere un nostro antenato, tanto è segnata dalla vicenda tedesca fra le due guerre la sua breve vita, tanto diversa è la figura del pastore protestante da quella del prete cattolico e tanto poco consolatoria – rispetto alla nostra religiosità, ricca di Madonne e santi con i quali intrattenere un rapporto familiare – è la sua rinuncia a ricorrere a un essere trascendente perché ci risparmi le prove dell’esistenza. Siamo diventati adulti – egli scrive – la modernità e la ragion critica, l’analisi della società e dell’io, ci hanno fatto maggiorenni che noncercano più la mano del padre per stare in piedi, si reggono da soli, decidono da soli, scegliendo epagandone il prezzo. “Come se Dio non ci fosse”.

Per Bonhoeffer, credente, Dio e il Cristo e la sua passione, le scritture e la rivelazione sono assolute, sono il senso dell’universo, la premessa e l’orizzonte. Su di loro l’uomo misura la suaesperienza terrena, ma di essa si assume l’intera responsabilità. Non ha da un paio di secolidesacralizzato la sovranità restituendola al popolo e alle costituzioni storiche? non ha acquistato sapere sulla natura e su di sé? Sono acquisizioni di maturità, e se è un errore pensare che in esse siesaurisca la sapienza, e si possa fare a meno della rivelazione, non è piu ammissibile che ci si sottragga ai diritti e responsabilità che da esse derivano. Le cose ultime, e non solo vita e morte,appartengono a Dio. Ma è la crocifissione quel che Dio ha in comune con gli uomini e gli uomini in lui, il percorso del figlio fatto uomo e crocifisso. Il cristiano deve attraversare senza sottrarvisi la storia in cui si trova, come il Cristo. Del quale tiene ferma la fede, buttano la sua riduzione la querula religiosità. Deve vivere senza Dio in presenza di Dio.

Per la prima volta sentii queste parole da Ugo Perone nella biblioteca dei camaldolesi a San Gregorio a Roma; conoscevo “Resistenza e resa”, le “Lettre” e “Scritti dal carcere” di Bonhoeffer, ma me ne era venuto soprattutto il ritratto d’una figura alta della sfortunata resistenza tedesca. Mi mancava la chiave. Da allora ho letto e riletto altri scritti, sovente spezzati, difficili, riflettendo su quel suo essere cristiano e solo davanti al mondo – interamente nel mondo, guardandosi da fughe, financo nell’ascetismo – senza il conforto di una devozionalità anestetizzante. Non che sia meno complessa, penso, l’esperienza mistica di chi è con Dio in un perpetuo dialogo amoroso, o meno rispettabile quella di chi cerca nell’umile religiosità una regola di vita. Ma è per questo suo accento che Bonhoeffer – che deve molto a Karl Barth anche se se ne separa – è uno dei pochi antenat ipossibili per un non credente.

Dietrich Bonhoeffer nasce nel 1906 in una famiglia colta, operosa, luterana ma poco praticante, padre psichiatra e una madre che ha fatto l’esame di maestra per provvedere alla prima formazione degli otto figli. E’ una casa dove si studia, si lavora, si fa musica, si sta ai pubblici doveri e si assumono pubbliche funzioni, si frequenta una certa nobiltà prussiana colta. Il secondogenito morirà giovanissimo nella prima guerra mondiale, una sorella di Dietrich sposa il giudice Carl von Donhanyi, e la sua gemella, Sabine, un professionista ebreo, Gert Leibholtz. E’ un aborghesia illuminata, “giusta”, che sarà ostile al nazismo ma non gli si è opposta, e ne sarà distrutta. Non poca Germania si riconosce in quel vivere serio e impegnato, credendosi al riparo dalle tragedie del potere, fidando nella saggezza dell’autorità, finché ne scopre troppo tardi la furia omicida.

Adolescente, Dietrich ha alle spalle la sconfitta tedesca in guerra e nel suo presente la repubblica di Weimar. Nulla in casa lo spinge verso gli studi teologici, se non forse la voglia di essere differente. La regola fra i Bonhoeffer è il rispetto, perciò a diciotto anni – è il 1924 – studia teologia a Berlino, presto diventerà libero docente, frequenta circoli luterani a Barcellona, a NewYork e in Gran Bretagna, e prenderà gli ordini nel 1931. Il nazismo è al potere un anno dopo. E impatta con la Chiesa, cui le leggi discriminatorie del 1933 impongono di non ordinare più chi è nato ebreo. Accettare significa farsi vassalla dello stato, e infatti diventa ufficialmente Chiesadel Reich; non accettare è la scissione, e sarà quella della chiesa confessante cui appartiene il pastore Bonhoeffer. Non è semplice per un uomo che ha introiettato l’obbedienza allo stato come educazione alla cittadinanza, partecipazione al destino della nazione tedesca. E che dopo la primissima e brillante fase degli studi si dice – e lo scriverà in “Sequela” – che obbedire in modo “semplice” e “concreto” è un passo avanti nell’essere cristiani, perché cala dalla testa nel cuore, libera dall’orgoglio. E invecedeve essere disobbediente, alla chiesa e allo stato; Martin Niemoeller, che pure ha fondato nel 1933 la chiesa confessante, che sarà arrestato e poi internato a Dachau, dovrà arrivare al 1945 per comprendere la natura del nazismo. Bonhoeffer no, forse è già di allora – suppone l’amico ebiografo Bethge – il suo famoso:

“Chi non grida con gli ebrei non può cantare il gregoriano”.

Il cristiano deve dare a Cesare quel che è di Cesare. Ma chi è Cesare? In un discorso del1934 Bonhoeffer ammonisce che una guida, un Fuhrer – e nel principio che le nazioni hannobisogno d’una guida è stato cresciuto – può diventare un Verfuehrer, uno che ti porta fuori strada. Sta di fatto che presto è sottoposto a vigilanza e nel 1936 perde la libera docenza. Nel 1935 la chiesa confessante lo ha nominato direttore d’un seminario di studi a Finkewalde, comunità di studio meditazione preghiera silenzio e musica, dove si disegna una scelta quasi monastica, ma basata più che sulla solitudine sul discepolato, l’importanza della parola scambiata.

“Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello, il primo è incerto, il secondo è certo”;

purché la parola venga dalla vita, non sia mera ripetizione d’una teologia raffreddata in ideologia. Finkewalde sarà tenuta d’occhio dal regime e chiusa dopo due anni, nel 1937, e molti allievi finiranno arrestati. Quando la guerra sta arrivando, il che fare? diventa drammatico. Il cognato giudice von Donhanyi introduce Bonhoeffer nel circolo dell’ammiraglio Canaris, che dirige la Abwehr, i servizisegreti dell’esercito, autonomi da quelli del governo e delle SS. Canaris e alcuni altri ufficialivedono l’abisso cui porta il nazismo, tentano di far sì che la Germania non sprofondi con Hitler, cercano di farlo sapere agli alleati. Bonhoeffer ha molte relazioni in Gran Bretagna e negli StatiUniti, sarà un “agente” della Abwehr, che le SS sospettano ma sul quale non possono mettere lemani. Al cristiano che è, questa scelta fa certamente problema, ma gli permette di far espatriarealcuni gruppi di ebrei. Tuttavia non è facile augurarsi la sconfitta del proprio paese. Quanti lo comprenderebbero? Attraverso quale impietosa riflessione vi giunge egli stesso?

La tesi sulla solitudine dell’umanità adulta, che decide la sua condotta senza, per dir così, coinvolgere Dio, riflette l’esperienza che sta facendo. E che affronta come vita, vita completa, dalla quale non bisogna fuggire, fino al punto di innamorarsi nel 1942, in piena guerra, di Marie von Wedemeyer. E’ una giovane donna, diciotto anni, bellissima, lusingata da un uomo tanto più grande e colto, che ha un sorriso largo e allegro, ama camminare e sciare, e le propone il matrimonio come compimento assoluto, totalità dell’incontro – quello di cui parla nel saluto per le nozze dell’amico Bethge. Sarà uno strano fidanzamento, perché pochi mesi dopo, è il 5 aprile del 1943, Bonhoeffer è arrestato, poco dopo Donhanyi. Canaris e i suoi cercano una pace separata con l’Inghilterra, anche per proteggersi dall’Unione Sovietica della quale temono lo sfondamento da quando la Wehrmacht è stata battuta a Stalingrado alla fine del 1942. L’Inghilterra non patteggia alcunché finché Hitler governa. Nel 1943 Canaris comincia a preparare un attentato contro il Fuhrer, Donhanyi e Bonhoeffer lo sanno. Il governo e le SS sospettano e perciò li arrestano, ma c’è poco contro di loro, possono sperare nel tempo. E Bonhoeffer spera per sé e per Maria, chiamata di colpo a diventare adulta, lasciando le cavalcate in campagna per correre a Berlino tra lavoro obbligatorio e visite al carcere. Che sono paurose, la comunicazione è ridotta al minimo, si erano appena conosciuti, è poco più d’una bambina, a un certo punto si ritirerebbe dall’impegno, ma egli non lo concede. E’ la sua lealtà, la sua speranza.

Ma il 14 luglio del 1944 – poco più d’un mese dopo lo sbarco in Normandia – l’attentato clamorosamente fallisce, e la vendetta sarà tremenda. Le SS abbatteranno ogni copertura nell’esercito e nella magistratura, tutto il gruppo di Canaris sarà giustiziato dopo veloci Corti Marziali, l’Armata rossa è già alle porte di Berlino. Bonhoeffer viene impiccato il 9 aprile del 1943.Il cognato il 10, il fratello Klaus il 23 aprile. Avrà passato in carcere due anni, prima a Tegel, negli ultimi due mesi – Maria corre disperatamente a cercarlo e non lo trova da nessuna parte – trasportato a Dachau, a Buchenwald einfine a Flossenburg. E’ una terribile storia tedesca del novecento. Alla signora von Hase Bonhoeffer, la madre, la prima guerra mondiale ha preso un giovanissimo figlio, il nazismo ne hagiustiziati altri due e il genero più amato. La figlia Sabine ha appena fatto in tempo a mettersi in salvo con il marito ebreo. La sconfitta si abbatte sui due vecchi genitori come ha travolto all’est, i Wedemeyer.

Da quella fusione fra amore per la vita e fedeltà alla crocifissione, ricerca della fede e assunzione di responsabilità terrene, nulla di facile, nulla che non sia totalmente esposto nelvacillare della chiesa e della nazione tedesca, vengono i testi dell’ “Etica” e le “Lettere dal carcere” pubblicate in “Resistenza e resa”. Marie von Wedemayer ha reso pubbliche più tardi le lettere del fidanzato – s’è spenta da pochi anni, era diventata una grande informatica, aveva avuto una vita piena, come egli avrebbe desiderato. Il lascito di Bonhoeffer è vasto, non agevole, traccia d’un pensiero che tende all’assoluto ma in ogni piega della Scrittura e dell’esistenza, molto concede alla gioia e nulla alla facilità. Mi ha colpito un breve filmato francese dove il biondo pastore Bonhoeffer, in giacca sportiva al bordo d’un bosco, non so dove né con chi, ride di cuore, come quando l’allegria ci travolge, una spuma iridescente che scorre sopra i pensieri. E’ un uomo come noi. Ed è vissuto come noi ma in presenza di Dio, senza sfuggire a nulla, senza chiedere a Dio nulla se non la forza. Non c’è non credente che possa non sentire questa lezione di laicità, nulla del mondo fuggito e nulla abbandonato.

La biografia più completa è di Eberhaed Bethge, Dietrich Bonhoeffer, Una biografia, Queriniana 1975 sull’edizione tedesca del 1966, Monaco Kaiserverlag. Notizie più precise sul fidanzamento con Marie von Wedemayer in: Lettere alla fidanzata, Cella 92, Dietrich Bonhoeffer e Marie von Wedemeyer, Queriniana, Brescia, 1994. Una bella serie di saggi sulle fasi della vita e del pensiero in Vorrei imparare a credere, a cura di F. Ferrario, Claudiana, Torino 1999.

Fra le opere tradotte: D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. ed. Paoline 1970; Etica, Bompiani 1969; Una pastorale evangelica, Torino 1990, La parola predicata, corso di omiletica a Finkewalde, Torino, 1994.23 (o 20?)

Amo in modo particolare il sole; esso mi ricorda che l’uomo è stato creato dalla terra, e non è fatto di aria e di pensieri. Un giorno a Cuba, arrivando io dal ghiaccio del Nord America in quella lussureggiante vegetazione, stavo per lasciarmi sopraffare dal culto per il sole, e quasi non sapevoche cosa avrei detto nella preghiera. Fu una vera crisi, e qualcosa di simile mi capita ogni estate, quando sento il sole. Per me il sole non è una realtà astronomica, ma qualcosa come un potere vivo, che amo e temo. Trovo pusillanime scartare queste cose perché non sarebbero razionali. […] Nel Salmo si dice: «Dio è il sole, e splende». Riconoscere, sperimentare e credere tutto questo non è affatto saggezza di tutti i giorni, ma un momento di grande grazia [ agosto 1943, lettera a Marie]

Negli ultimi mesi ho letto più l’Antico Testamento che il Nuovo. Solo quando si riconosce l’impronunciabilità del nome di Dio si può pronunciare finalmente il nome di Gesù Cristo; solo quando si ama a tal punto la vita e la terra, che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e ad un mondo nuovo; solo quando ci si riconosce sottomessi alla legge di Dio, si può finalmente parlare della grazia, e solo se l’ira e la vendetta di Dio contro i suoi nemici restano realtà valide, qualcosa del perdono e dell’amore verso i nemici può toccare il nostro cuore. Chi vuole essere e sentire troppo frettolosamente e troppo direttamente in modo neotestamentario, secondo me non è un cristiano. […] Proprio ora è arrivata la notizia dello sbarco a Nettuno. Davanti a svolte come questa mi accorgo che la imperturbabilità non fa parte della mia natura, ma che la devo sempre faticosamente riconquistare; del resto, essere imperturbabili per natura nella maggior parte dei casi è soloun’espressione eufemistica per indicare indifferenza e indolenza, e dunque non qualcosa di molto rispettabile.

Recentemente ho letto in Lessing: «sono troppo orgoglioso per considerarmi sfortunato-digrigno i denti- e lascio che la barca vada dove vogliono il vento e le onde. E’ già tanto che nonvoglia rovesciarla io stesso!». Questo orgoglio e digrignare i denti dovrebbero essere interdetti ed estranei a un cristiano? Magari a favore di una immatura/fuori luogo, preventiva, tiepida imperturbabilità? La quale a sua volta è qualcosa di diverso dall’assoggettarsi all’inevitabile, ostinato, insensibile, rigido, inerte e soprattutto dovuto al caso/accidentale/non voluto? [seconda domenica d’Avvento, 5 dicembre 1943, lettera a Eberhard Bethge]

Devo parlarti della preghiera nella tribolazione. […] Il salmo 50 dice chiaramente: «invocami nella tribolazione, ti salverò e tu mi darai gloria!». Tutta la storia dei figli di Israele è fatta di grida d’aiuto. Le due ultime notti mi hanno posto nuovamente davanti a questo problema in modo elementare. Mentre le bombe esplodevano tutt’intorno, non potevo far altro che pensare a Dio, al suo giudizio, ai segni della sua ira (Is 5,25 e 9,11 – 10,4), alla mia insufficiente preparazione; riesco a capire perché qualcuno faccia un voto. […] Deve giungere la tribolazione, perché veniamo scossi e condotti alla preghiera; questo lo sento ogni volta come motivo di vergogna, e tale è effettivamente. Forse dipende da questo che in momenti come quelli, finora mi è stato impossibiledire agli altri una parola cristiana. Ieri sera, mentre eravamo ancora una volta stesi sul pavimento, e uno gridò: «oh Dio, oh Dio!» -era un ragazzo di solito spensierato-, non me la sono sentita di incoraggiarlo e consolarlo con parole cristiane, ricordo di aver detto soltanto: dura al massimo altri10 minuti. Tutto questo non in maniera riflessa, ma in modo spontaneo, e certamente in base al sentimento che non è lecito sfruttare questi momenti per dei ricatti religiosi (Gesù sulla croce non ha fatto opera di persuasione sui due ladroni, ma è stato uno di loro a rivolgersi a lui!) [29 e 30 gennaio 1944].

Si ciancia davanti a chiunque delle proprie faccende personali, senza badare se gli interessi, semplicemente perché si ha bisogno di cianciare. Se uno controlla questo impulso quasi fisico per un paio d’ore, poi resta contento di non essersi lasciato andare. Qualche volta provo vergogna a vedere come gli uomini si abbassino, nel bisogno di comunicare, come parlino senza interruzione delle loro faccende con persone che non ne sono assolutamente degne e per di più poco disposte ad ascoltare. La cosa più singolare è che non sentono mai il bisogno di dire la verità, vogliono semplicemente raccontare di sé, cose vere o false che siano. Totalmente diverso è il desiderio diavere un buon dialogo, cioè il desiderio di un incontro spirituale. Ma sono pochissime le persone in grado di condurre dei colloqui che vadano al di là della sfera personale [13 febbraio 1944].

Spesso mi chiedo perché un «istinto cristiano» mi spinga frequentemente verso le persone non-religiose piuttosto che verso quelle religiose, e non con l’intenzione di fare il missionario, ma quasi «fraternamente». Mentre davanti alle persone religiose spesso mi vergogno a nominare il nome di Dio -perché mi pare che suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento un po’ insincero (quando gli altri cominciano a parlare in termini religiosi ammutolisco quasi del tutto) – davanti alle persone non-religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e come se fosseuna cosa ovvia. Le persone religiose parlano di Dio quando la coscienza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre sfruttando la debolezza umana o di fronte a limiti umani; questo sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ più avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo– […] io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo [30 aprile 1944].

Non è forse venuto a cadere quasi completamente per tutti noi il problema individualistico della salvezza personale dell’anima? Non ci troviamo sotto l’impressione che ci sono cose più importanti (forse non più importanti di questa cosa, ma di questo problema!?)? So che suona quasi mostruoso dire una cosa simile. Ma in fondo non è biblico? Si trova nell’AT la questione della salvezza personale dell’anima? [5 maggio 1944, lettera a Eberhard Bethge].

Non c’è sensazione più felice dell’intuire che si è qualcosa per altre persone. In questo, ciòche conta non è il numero, ma l’intensità. Alla fine, le relazioni interpersonali sono senz’altro lacosa più importante della vita. Nemmeno il moderno «uomo della prestazione» può modificare questo fatto e neppure o semidei o i folli che nulla sanno delle relazioni interpersonali. Ogni altra osa è molto vicina all’hybris. Una cura troppo consapevole delle relazioni interpersonali e del significato che si riveste gli uni per gli altri può condurre a un culto della personalità inadeguato rispetto alla realtà. Ma mi riferisco al fatto puro e semplice che nella vita gli uomini sono per noi più importanti di qualsiasi altra cosa. Ciò non significa disprezzo del mondo delle cose e delle prestazioni pratiche. Ma che cosa sono per me il libro, il quadro, la casa, la proprietà più belli, di fronte a mia moglie, ai miei genitori, al mio amico? Così può parlare solo chi nella sua vita abbia trovato veramente delle persone [14 agosto 1944].

In questi tempi turbolenti perdiamo continuamente di vista il perché valga la pena di vivere. Pensiamo che siccome vive questa o quest’altra persona, abbia senso vivere anche per noi. Ma in verità se la terra è stata fatta degna di sostenere i passi dell’uomo Gesù Cristo, se è vissuto un uomo come Gesù, allora e solo allora per noi uomini vivere ha un senso. Se Gesù non fosse vissuto, nonostante tutte le persone che conosciamo, onoriamo e amiamo, la vita non avrebbe senso. Forse in questo periodo qualche volta svanisce per noi il significato e il compito della nostra professione. Ma non li possiamo esprimere in modo più semplice? Il concetto biblico di «senso» è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama «promessa» [dal carcere, non datato].

Siamo fatti in modo tale che ciò che è perfetto ci riesce noioso. Non posso spiegarmi diversamente il fatto che sia Raffaello che il Paradiso di Dante mi sono così lontani e indifferenti. Nemmeno il ghiaccio eterno, o il cielo eternamente azzurro mi attraggono. Io ho cercato «ciò che è perfetto» in ciò che è umano, che vive, che è terreno, dunque non nell’apollineo, ma nemmeno nel dionisiaco o nel faustiano. Io sono portato al clima moderato, temperato [21 agosto 1944, lettera a Eberhard Bethge].

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