Facebook

by gabriella

C. Leonardi, Utenti di Facebook, siete tutti clienti paganti

Utenti di Facebook,
siete tutti clienti paganti. L’iscrizione al social network non costa nulla, ma la presenza sul sito si ripaga abbondantemente. Sul web bisogna abituarsi a essere clienti e… prodotto.

CLAUDIO LEONARDI Molti utenti di Facebook hanno protestato per le modifiche dell’interfaccia operate a fine estate. Ritenevano un oltraggio non essere stati interpellati. Altri, invece, hanno bacchettato gli “indignados” del network perché a caval donato, si sa, non si guarda in bocca. Insomma, Facebook è gratis, e ti lamenti pure? E’ indiscutibile che nessun iscritto al social network debba sborsare alcunché per accedere ai servizi, ma è proprio vero che Facebook è gratis? Ira Winkler, presidente dell’Internet Security Advisors Group e autore del libro Spies Among Us (Spie tra di noi) non è di questo avviso.

Secondo l’esperto di sicurezza informatica, gli utenti pagano con due monete preziosissime: il loro tempo e la proprietà intellettuale sui loro dati. E guarda caso, sono esattamente le monete di cui Facebook ha più bisogno, quelle che può trasformare, senza troppo sforzo, in vera moneta sonante. Winkler, in un articolo di Computerworld USA, invita a quantificare il valore del proprio tempo con autentico spirito americano: tutti i minuti trascorsi sul sito di Mark Zuckerberg sono sottratti a lavoro, iniziative, manutenzione casalinga. Attività per cui, forse, si sarà costretti a pagare altri (lavare un auto, appendere mensole e così via). Si tratta, in ogni caso, di un tempo prezioso, che si trascorre a fare clic sui link di Facebook. E ogni clic fa aumentare il valore delle inserzioni sul social network e frutta dollari su dollari. Ma c‘è un altra moneta, secondo l’esperto americano, se possibile ancora più preziosa, che gli iscritti versano con generosità: “tutti i contenuti forniti a Facebook gratuitamente”.

Sono proprio i link, le riflessioni, gli annunci di matrimoni, di fidanzamenti e di lieti eventi che mettono in moto la curiosità delle persone, quindi i clic, quindi le inserzioni mirate. Quando si comunicano i primi vagiti del proprio figlio, si può stare certi che nella pagina del proprio profilo campeggeranno offerte di articoli per poppanti. E siamo stati proprio noi, gratis, a dare questa dritta agli inserzionisti. Una dritta miliardaria se moltiplicata per i 750 milioni di iscritti nella rete sociale. I clic sulla pubblicità, ammette Winkler, non sono mai numerosissimi, ma accendere la curiosità delle persone con i propri messaggi stimola comunque iscrizioni, connessioni, concentrazione di attenzione su quelle pagine col marchio bianco e blu. Aziende come il New York Times, sottolinea Winkler, “spendono milioni di dollari per ottenere la fedeltà dei lettori con contenuti di ottima qualità generati dal loro staff”. Non così Facebook e altri siti, totalmente dipendenti dal lavoro dei suoi utenti. Anche quando si è utenti svogliati, che aggiornano raramente e raramente consultano il sito, si fa comunque parte dell’esercito di iscritti che permette al sito di Zuckerberg di stabilire le tariffe pubblicitarie e di moltiplicare il valore delle sue azioni. E in effetti, è proprio così. E’ una esperienza nuova, come lo è la Internet economy, ma è un po’ come se un negozio potesse fare soldi per il solo fatto d’essere sempre pieno di clienti. Chi si iscrive a un social network ne diventa cliente, ma è anche un pezzo essenziale del suo valore economico. Siamo acquirenti di un prodotto e siamo, allo stesso tempo, il prodotto. Ecco perché la sola idea che Facebook potesse introdurre una tassa sul proprio servizio (circolata sul web poche settimane fa) ha suscitato l’indignazione di tanti. Perché, nel social network, le persone hanno investito tempo e contenuti: hanno creato le proprie impostazioni, archiviato foto, raccolto link, creato gruppi. Insomma, hanno prodotto un valore di cui, tra l’altro, sarebbe improbabile se non impossibile rientrare in possesso qualora si decidesse di migrare su un altro social network.

Facebook non è Google, che ha avviato un’operazione trasparenza perché gli utenti possano impacchettare i propri contenuti pubblicati online e trasferirli sulla piattaforma che preferiscono, senza danni. Quindi, sembrano proprio fuori luogo i complessi di inferiorità: ogni utente è anche un piccolo azionista, che paga la sua quota con tempo e contenuti. Questo è il modello di business che permette a YouTube, Linkedin, Twitter e altri di prosperare, mentre fior di siti giornalistici faticano a far quadrare i conti tra i costi per giornalisti inviati nel mondo a fare un buon lavoro e gli introiti. Facebook è un piccolo Grande Fratello, nato, come sottolinea Winkler, non per controllare, ma “vendere al miglior offerente”. E allora, quando ne saremo tutti consapevoli e il social network stesso saprà ammetterlo, forse si otterrà la cortesia e l’attenzione dovuta ai clienti “paganti” (o si migrerà altrove, N.D.R.).

tratto da La Stampa: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp?ID_blog=30&ID_articolo=9625&ID_sezione=38

 

Roberto Venturini, I social media e il rischio della realtà soggettiva

Il pericolo delle piattaforme sociali? Permetterci di selezionare una realtà su misura per noi, facendoci perdere il senso di una realtà diversa, più complessa, a volte sgradevole

Tanto per mettere subito le cose in chiaro, partiamo dicendo che la mia posizione ideologica è la seguente: i social media sono, tutto sommato, una buona cosa. Un fenomeno positivo, che arricchisce e porta opportunità alle vite delle persone.Un fenomeno che però è stato anche tanto ideologizzato: nel male («fanno disimparare a relazionarsi fisicamente con gli altri») e nel bene («sono il viatico per una rivoluzione che ci porterà in un’epoca aurea dove tutto andrà bene e le aziende, castigate dai consumatori, pagheranno duramente i loro errori»). Detto quindi che sono un fan delle piattaforme sociali e che credo che almeno potenzialmente aumentino significativamente la qualità e la quantità delle nostre relazioni, devo però dire anch’io la mia: come tutte le creazioni umane anche questa è imperfetta. E per certi versi potremmo perfino dire pericolosa. In un modo tutto suo.

Quello che ci piace sentire

C’è una cosa, in particolare, che mi affascina. I social network rischiano di darci una visione soggettiva della realtà. Quindi ingannevole. Questo, in fondo è naturale. E tutto sommato non è colpa dei social media ma colpa nostra. Il nostro processo di comprensione della realtà che ci circonda, essendo il mondo troppo grande per avere di tutto un’esperienza diretta, si basa sull’assunzione di input esterni, provenienti da fonti informate. Ed è un aspetto profondamente umano quello di selezionare queste fonti sulla base delle nostre simpatie, affinità. Il problema è antico, ed è particolarmente visibile per quello che riguarda i media cui attingiamo per informarci e farci un’opinione nostra. Difficilmente troviamo persone che leggano sia il Manifesto che il Giornale. Che seguano i tg di Rai3 e di Rete4.

Il tempo è poco, e sono poche le persone che hanno l’interesse e la pulsione intellettuale per ascoltare organicamente le varie campane. Tendiamo a scegliere delle fonti che ci dicano quello che ci vogliamo sentir dire: la tentazione di sentirci riconfermati nelle nostre idee e nei nostri valori, eliminando voci discordanti, è forte. La situazione è analoga per quanto riguarda i social network, in qualche modo. I nostri “amici” spesso sono persone che la pensano come noi, che dicono cose che a noi non dispiacciono – al punto che chi va controcorrente rischia di essere eliminato dalla lista, unfriended, arrabbiandosi talvolta moltissimo di fronte al peggiore degli sgarri nel mondo 2.0. Il che, intendiamoci, va benissimo. Non ci paga nessuno per esporci a opinioni che non ci piacciono, relazionandoci con gente le cui idee non sposiamo o peggio ancora disprezziamo.

Non siamo l’universo

Di qui però il rischio, a lungo andare, di farci un’opinione distorta della realtà, basandoci sugli input che tutti i giorni ci arrivano dai nostri network, da noi stessi selezionati. Non stiamo ascoltando la società, forse stiamo ascoltando solo gente che ci somiglia, ci stiamo costruendo una realtà a nostra immagine e somiglianza. Nulla di nuovo, del resto. Quante volte sentiamo commenti stupiti del tipo «non capisco, tutti parlano male di Berlusconi eppure vince le elezioni…»: forse il problema è che abbiamo scelto, coscientemente o meno, di frequentare solo antiberlusconiani, avendo quindi della realtà un ritratto parziale e basato su un campione certamente non significativo della varietà e ricchezza delle opinioni.

Una realtà, dunque, su misura, che ci può portare, specialmente se siamo profesisonisti della comunicazione, a correre il pericoloso rischio di generalizzare l’ingeneralizzabile. Di estendere il nostro soggettivo all’universo. Di dimenticare che non sempre il target siamo noi. Che «la gente» è diversa da noi, che in qualche modo, se siamo su Internet a leggere queste noiose disquisizioni, siamo un’elite culturale rispetto a chi non va più in là di una rapida occhiata alla Gazzetta mentre beve un caffè corretto al bar. Rischiamo di finire a pensare e dire che tutto il mondo in fondo la pensa come noi, visto che lo vediamo nella pratica tutti i giorni su Facebook, Friendfeed, Twitter. Sul nostro Facebook, Friendfeed, Twitter, però. Perchè la visione universale, totale, oggettiva di questi media, di queste conversazioni non ci è data.

Il mondo, in realtà, è probabilmente più complesso. Fatto da persone che sui social network dicono cose diverse, ma le dicono a persone che non la pensano come noi, la pensano invece come loro. O da persone che sui social network proprio non ci sono. In entrambi i casi voci invisibili (inaudibili) che però esistono. E pesano. Sulla realtà.

Tratto da apogeo.it

 

Federico Guerrini, The Filter bubble. La bolla che deforma il tuo sguardo sul mondo

Che cosa succede se i risultati dei motori di ricerca e i contenuti dei socialnetworkseguono criteri e selezioni di fonti completamente basate su chi li consulta? Secondo Eli Pariser poco di buono

In molti, quando un paio di settimane fa il guru del free software Richard Stallman ha espresso la sua soddisfazione per «la fine dell’influenza negativa di Steve Jobs sul mondo del software», hanno pensato che il vecchio Richard avesse perso una buona occasione per stare zitto. Però un po’ bisogna capirlo: dopo una vita spesa a lottare per le libertà digitali, il panorama che oggi si trova davanti è un mondo di software proprietari, e la stessa internet è ben lontana dall’essere quella promettente prateria di anarchia creativa che sognava. È, piuttosto, una rete fatta in maniera crescente su misura per le imprese, in cui le logiche del mercato sono riuscite a imbrigliare e addomesticare ciò pareva per sua natura infinito e sfuggente perché in continuo mutamento. E stanno imponendo le loro leggi, nel cui computo non entrano considerazioni di tipo etico o politico.

Patto sociale

I legislatori statali sono impossibilitati a regolare fenomeni per loro natura sovranazionali, e sono troppo lenti: una volta che avessero raggiunto il consenso su una proposta per regolamentare internet, la rete sarebbe già andata oltre. Perciò, come ha detto qualche mese fa Luca Ascani, Ceo di Populis e uno dei soli tre italiani invitati all’e-G8 voluto da Sarkozy a Parigi, «su Internet le regole le fanno le aziende». Che sono sempre più potenti e sempre meno: Amazon da sola ospita sui suoi server migliaia di siti che dipendono dalla sua infrastruttura per la loro stessa esistenza. Microsoft, Facebook, Google, Yahoo!. Più qualche altra di minori dimensioni. Stallman non è solo nella sua disillusione e nel timore per la piega che sta prendendo la rete: uno dei papà di quest’ultima, Sir Tim Berners-Lee aveva cercato di risvegliare le coscienze lo scorso anno con un pamphlet su Scientific American intitolato Long live the Web – A Call for Continued Open Standards and Neutrality.

Nell’articolo, Berners-Lee se la prendeva soprattutto con chi aveva tradito i principi fondanti il patto sociale del cyberspazio: l’accesso garantito a tutti i contenuti per chiunque disponesse di una connessione, indipendentemente dalla lingua parlata, dal conto in banca, dall’etnia di appartenenza e da eventuali disabilità. Il sorgere di giardini recintati come Facebook, in cui i contenuti postati sono riservati soltanto agli iscritti e non scandagliabili dai motori di ricerca e il comportamento di alcuni provider, che hanno deciso d’arbitrio di limitare la banda destinata a particolari utilizzi – leggi file sharing – erano alcune delle cose che davano particolarmente fastidio al grande scienziato britannico. Ma l’appello di Berners-Lee, dopo le debite attestazioni di stima da parte dei giovani miliardari divenuti tali facendo proprio quello che lui aveva stigmatizzato, fu lasciato cadere nel nulla. Arrivava tardi: i mercanti avevano già invaso il Tempio. Il che non significa naturalmente che non esista più la libertà su internet; il web è talmente vasto che nessuna corporation, o nessuno Stato, può dominarlo del tutto.

Frammenti

Quello che i grandi gruppi commerciali sono riusciti a fare è cambiare l’esperienza che del web ha ciascun utente: il viaggio di ciascuno verso gli orizzonti cibernetici non è più quel balzo verso l’ignoto, certo scomodo e con alcuni potenziali pericoli, che permetteva di scoprire a ogni passo gemme insospettate. Assomiglia a una gita organizzata in cui ciascuna tappa, perfino ciascuna deviazione, è pre-confezionata attorno all’utente per offrirgli un’esperienza personalizzata: contenuti tarati su quello che si è cercato e navigato sul web in precedenza, sui consigli degli amici, sui cinguettii di Twitter e sui “like”. Annunci pubblicitari che ti inseguono e che, per scoprire chi sei e quali sono i punti deboli su cui far leva per una vendita, utilizzano le enormi banche di dati accumulati da società che nessuno ha mai sentito nominare ma detengono un potere economico e politico, in senso lato, con pochi precedenti.

Società come Acxiom, che nei suoi sterminati data center situati in Arkansas conserva circa 1.500 frammenti di informazione per ogni appartenente a quel 96% di americani (e mezzo miliardo di persone nel resto del mondo) da lei catalogati: dal numero della carta di credito, all’indirizzo, ai debito accumulati, ai gusti sportivi alle opinioni politiche, alla patente di guida e molto altro ancora.  Lo racconta con grande dovizia di particolari il giornalista e attivista Eli Pariser, che sull’argomento della personalizzazione della rete ha scritto un intero libro, The Filter Bubble. Nel primo capitolo cita il caso di una ricerca effettuata con Google da due persone di estrazione e visione del mondo simili, entrambe residenti nel Nord Est degli Stati Uniti. L’oggetto della query era lo stesso: la macchia d’olio versata dalla British Petroleum nel Golfo del Messico, ma mentre la prima navigatrice fra i primi risultati otteneva link a notizie sul disastro ambientale, alla seconda venivano proposte soltanto notizie sugli investimenti finanziari dell’azienda. Anche il numero totale di risultati era differente.

Bolle individuali

Google era impazzito? Niente di tutto ciò: nonostante quello che credono molti non addetti ai lavori, da tempo l’algoritmo di Mountain View ha cessato di essere un arbitro freddo e imparziale. E precisamente dal 4 dicembre 2009, quando un post sul blog societario annunciò l’avvio della personalized search. A partire da quel giorno, Google avrebbe usato 57 “segnali” (oggi sono molti di più), dal luogo di connessione al tipo di browser, alle ricerche precedenti, per scodellare risultati su misura. La motivazione di fondo è la medesima di quella offerta da Facebook per spiegare come mai, se si hanno migliaia di amici, nella bacheca degli utenti vengono evidenziati soltanto i post provenienti dalle persone con cui si interagisce di più o che paiono avere i nostri stessi gusti: dare alla gente quello che vuole. Evitare i contrasti. Tutto molto bello, in apparenza, e finché si tratta di scoprire gruppi musicali che probabilmente ci vanno a genio, visto che piacciono anche al nostro contatto.

Il punto, spiega Pariser, è che questo rischia di rinchiuderci in bolle in cui ciascuno vede solo la parte del web che è stata selezionata per lui da curatori invisibili. Una parte concepita come uno specchio perfetto di quella che qualcun altro ha individuato essere la nostra personalità digitale, e in cui non c’è spazio per il confronto, il dialogo, l’imprevisto. Il monito di Pariser ha alcune caratteristiche in comune con quello lanciato l’anno prima da Jaron Lanier nel suo You’re not a gadget. Ma se entrambi vedono il rischio dell’appiattimento dell’isolamento e della banalizzazione di un web che ha tradito le sue radici, l’autore della “bolla filtrante” va oltre. L’idea di vezzeggiare e rafforzare con contenuti ad hoc le convinzioni di un certo navigatore può portare a effetti perversi: se il motore di ricerca sa, ad esempio, che chi è alla tastiera è una persona povera o illetterata, gli fornirà i contenuti che ritiene adatti: chi naviga potrebbe non venire nemmeno mai a conoscenza dell’esistenza di determinate opportunità economiche o culturali.

Terreno comune

In un mondo che si informa sempre più attraverso il web se all’elettore che ha sempre votato democratico o repubblicano (o, in Italia, Berlusconi o Pd) vengono nascoste le voci dissonanti, quelle che potrebbero mettere in discussione le sue convinzioni e magari aprirgli gli occhi su determinati problemi, come sarà possibile trovare un punto di terreno e di conversazione comune? Alla fine, è lo stesso spazio pubblico che ne viene logorato. E se il palinsesto del quotidano che leggo su Facebook è composto dagli articoli più letti dai miei amici e da quelli prediletti dagli iscritti al network nel loro complesso, è probabile che nel mio stream non comparirà mai quel disturbante e noioso articolo sulla siccità in Somalia. Che, magari mi avrebbe reso più consapevole come cittadino e come essere umano, ma impallidisce e scompare davanti al didietro di Belèn che di certo fa più audience.

tratto da apogeo.it

 

Roberto Venturini, Non pensate Facebook come un luogo colto

11 nov 2011

Con un italiano su tre iscritto a Facebook, è inevitabile che anche Facebook diventi sempre più simile alla società vera: non esiste un “utente Facebook” medio.

Giorno dopo giorno, per lavoro o per diletto, frequento i social media, in primis ovviamente Facebook. E ne parlo. E ne sento parlare. Quello che mi fa riflettere è che un po’ troppo spesso ne sento parlare come di un luogo un po’ magico dove si incontrano e conversano le èlite socioculturali italiane. Dove tutti noi ci incontriamo e dibattiamo temi se non profondi, almeno intelligenti, smart. Con un sano background culturale. Fin qui, possiamo anche sopravvolare. Un po’ meno quando si vedono progetti di comunicazione che si basano su questi assunti. Ovvero che chiunque sia su Facebook ha una certa cultura e una certa smartness. Secondo me, è il momento di fare un minimo di reality check.

Non uscire dal nostro giardino

Continua, se volete, un discorso un po’ più ampio, che ho iniziato qualche tempo fa e in cui entra benissimo il recente pezzo di Federico Guerrini. Il tema è quello della deformazione della nostra visione della realtà, dato che sui social network tendiamo a circondarci di persone che ci somigliano e che quindi più o meno parlano e ragionano come noi. Nulla di più falso. Se prendiamo giusto un paio di numeri, i sospetti dovrebbero venire. 27 milioni di utenti Internet. 20,6 milioni di utenti Facebook. Quasi tutti gli utenti internet usano Facebook. Anzi, si dice (ma non ho i numeri, non ancora) che ci sia gente che è entrata su internet per usare Facebook e non usa null’altro, della rete.

Su una cifra così ampia è lecito sospettare che ci sia dentro l’élite socioculturale: laureati, professori, scienziati. Ma l’élite, per definizione, è piccola. E un terzo degli italiani, che è su Facebook, non può essere tutto fatto da persone che sanno come si scrive Nietzcheniecenietzke Nietzsche. Sapendo anche la maggioranza assoluta  (il 54%) della popolazione Italiana non legge mai libri. Mai (brivido). Solo il 15% degli Italiani legge in media almeno un libro al mese. E questi non bastano a fare il totale degli utenti italiani sui Social Media.

Due Italie

In fondo è innegabile che ci siano due Italie. Anzi, molte Italie. Un’Italia che una volta si trovava su Facebook e Twitter e Friendfeed, come in una riserva di caccia privata. Poi, con la crescita esponenziale dei social media, tutte le Italie sono finite su Facebook. Ognuna e ognuno a parlare (giustamente) dei temi che più gli sono cari, attorniandosi di persone che gli sono in fondo simili. Che usano i linguaggi con cui si sentono confortevoli, le grammatiche, le sintassi. O la mancanza di esse. Si fa in fretta a vedere: basta farsi un giro su Facebook e uscire dalla nostra oasi ecologica per andare a inseguire ambiti più mass.

Istruttivo (lo dico senza nessun giudizio di merito) guardarsi le pagine di Nino d’Angelo, oppure cosa si dice e come lo si dice sul Grande Fratello. Che fa quasi 700.000 fan e tantissima interazione. Superato però dal milione e centomila fan di Laura Pausini e dal milione di Eros Ramazzotti e soprattutto  dai 2,7 milioni di Vasco Rossi, che ad ogni post raccoglie centinaia di commenti. Chiaro che i toni e i temi sono un bel po’ diversi da quelli che troviamo negli ambiti di Wired. Che fa però 28.000 persone al seguito. E molta meno interazione ( in termini di “persone che ne parlano”, per capirci).

Il Nobel e lo spritz

Da leggere e studiare. Se volete con un approccio etnografico. Se non volete, semplicemente per rendersi conto che l’Italia non va solo a bit e byte, ma in larga parte a spritz e Gazzetta dello Sport. E non è un male che sia così! In sostanza, non ha più forse senso parlare di un utente Facebook o di un target Facebook. Così come non ha senso da tempo parlare di un utente televisivo medio. Sono mezzi, anzi piattaforme, su cui si trova dall’analfabeta al premio Nobel. Dal Bagaglino al Ted. E se ci occupiamo di società – o, come nel mio specifico, di marketing e comunicazione – avere un’idea fantasiosa di com’è la società, come sono le persone, cosa succede e come si usano i tool digitali lo si può definire un peccato mortale.

tratto da apogeo.it

 

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