Condorcet, L’educazione come emancipazione popolare

by gabriella

condorcetA Condorcet (Jean-Antoine de Caritat, marchese di Condorcet) si deve la teoria più completa della scuola repubblicana che il filosofo sviluppa in due testi capitali: i Cinq mémoires sur l’instruction publique, pubblicato nel 1791, e il Rapport sur l’instruction publique, del 1792.

Nelle Cinque memorie, per la prima volta l’idea filosofica dell’istituzione scolastica è pensata nella sua complessità e in rapporto con la sovranità popolare, cioè con l’idea che l’istruzione (pubblica statale) sia l’unico strumento capace di rendere effettivo l’esercizio dei diritti di libertà ed eguaglianza.

Proteggere i saperi da ogni potere, vedere in ogni allievo un titolare di diritti, difendere l’istruzione pubblica dagli interessi particolari e dall’utilità immediata, sono gli altri temi cruciali di quest’opera. Condorcet pensa che istruire non significhi né informare,conformare, quanto costruire un’educazione nazionale, cioè creare le condizioni per il progresso e il benessere del popolo francese e di ogni altro popolo libero.

Di seguito la traduzione della Prima memoria condotta da Mauro Poggi e me sulla versione digitale dell’opera curata dall’Università del Québec (Uqac). E’ lasciato in azzurro il testo in lingua originale delle altre quattro memorie e del Rapport sur l’instruction publique.

 

Cinque memorie sull’istruzione pubblica

Prima memoria: Natura e oggetto dell’istruzione pubblica

I. La società deve al popolo un’istruzione pubblica
II. La società deve anche un’istruzione pubblica relativa alle diverse professioni
III. La società deve ancora l’istruzione pubblica come strumento di perfezionamento della specie umana
IV. Motivi per stabilire più livelli nell’istruzione comune
V. L’educazione pubblica deve legarsi all’istruzione
VI. E’ necessario che le donne condividano l’istruzione data agli uomini

Seconda Memoria: Dell’istruzione comune per i bambini

I. Primo grado di istruzione comune
II. Studi del primo anno
III. Dei maestri

Terza memoria: Sull’istruzione comune per gli uomini

Dei libri necessari a questa istruzione

Quarta memoria: Sull’istruzione relativa alle professioni
Quinta memoria: Sull’istruzione relativa alle scienze

 

I. La società deve al popolo un’istruzione pubblica

1. Come mezzo per rendere effettiva l’uguaglianza dei diritti

L’istruzione pubblica è un dovere della società verso tutti i cittadini. Vanamente avremmo dichiarato che tutti gli uomini hanno gli stessi diritti, vanamente le leggi sarebbero informate a questo principio cardinale d’eterna giustizia, se la diseguaglianza delle facoltà morali impedisse ai più di godere di questi diritti in tutta la loro estensione.

Lo stato sociale diminuisce necessariamente la diseguaglianza naturale, facendo concorrere le forze comuni al benessere degli individui. Ma questo benessere diviene allo stesso tempo più dipendente dai rapporti di ogni uomo con i suoi simili, e gli effetti della diseguaglianza si accrescono proporzionalmente, se non si rende più debole o quasi nulla relativamente alla felicità e all’esercizio dei diritti comuni, quella che nasce dalla differenza degli spiriti.

 

Questa obbligazione consiste nel non lasciar sussistere nessuna diseguaglianza che comporti dipendenza

 

E’ impossibile che un’istruzione, anche uguale, non aumenti la superiorità di quelli che la natura ha favorito d’una organizzazione più felice. Ma è sufficiente al mantenimento dell’uguaglianza dei diritti che questa superiorità non implichi dipendenza concreta, e che ciascuno sia abbastanza istruito per esercitarne da se stesso, e senza sottomettersi ciecamente alla ragione altrui, il godimento.

Allora, la superiorità di qualcuno, lungi dall’essere un male per quelli che non hanno ricevuto gli stessi vantaggi, contribuirà al bene di tutti, e i talenti come i Lumi diverranno il patrimonio comune della società [Condorcet si rifà alla tesi sostenuta da Rousseau nel Discours sur l’origine et le fondements de l’inégalité parmi les hommes, secondo la quale, nello stato di natura le poche differenze naturali tra gli uomini non sono causa di diseguaglianza delle condizioni. Es.: un differente colore della pelle può implicare diseguaglianza sociale, un diverso colore di capelli può risultare ininfluente al riguardo].

Così, per esempio, colui che non sa scrivere e che ignora l’aritmetica, dipende realmente dal più istruito a cui è obbligato a ricorrere continuamente. Egli non è uguale a coloro a cui l’educazione ha dato quelle conoscenze; non può esercitare gli stessi diritti con la stessa estensione e la stessa indipendenza. Chi non è a conoscenza delle prime leggi che regolano il diritto di proprietà, non gode di questo diritto nello stesso modo di chi le conosce; nelle controversie che si creano tra loro, essi non combattono ad armi pari.

Ma l’uomo che conosce le regole d’aritmetica necessarie agli usi della vita, non è dipendente dal sapiente che possiede il genio matematico al massimo grado e il cui talento gli sarà di reale utilità senza mai ostacolarne il godimento dei diritti. L’uomo che è stato istruito degli elementi della legge civile non dipende dal giureconsulto più dotto, le cui conoscenze non possono che aiutarlo e non asservirlo.

La diseguaglianza dell’istruzione è una delle principali fonti della tirannia

Nei secoli dell’ignoranza, alla tirannia della forza si univa quella dei Lumi deboli e incerti, ma concentrati esclusivamente in alcune classi poco numerose. I preti, i giureconsulti, gli uomini che conservavano il segreto delle operazioni di commercio, i medici formati in un piccolo numero di scuole, erano i capi del mondo come guerrieri armati di tutto punto; e il dispotismo ereditario di questi guerrieri era fondato sulla superiorità che dava loro, prima del’invenzione della polvere da sparo, l’apprendimento esclusivo dell’arte del maneggio delle armi.

E’ così che presso gli Egiziani e gli Indiani, delle caste che si erano riservate la conoscenza dei misteri della religione e dei segreti della natura erano arrivate ad esercitare sui loro disgraziati popoli il dispotismo più assoluto che l’immaginazione umana abbia potuto concepire. E’ così che a Costantinopoli persino il dispotismo militare dei sultani ha dovuto piegarsi davanti al credito degli interpreti privilegiati delle leggi del Corano.

Forse non c’è motivo di temere oggi gli stessi pericoli del resto d’Europa ; i Lumi non possono essersi concentrati né in una casta ereditaria, né in una corporazione esclusiva. Non possiamo più conservare queste dottrine occulte o sacre che introducono una frattura immensa tra due porzioni dello stesso popolo. Ma questo grado d’ignoranza in cui l’uomo, trastullo del ciarlatano che vorrà sedurlo e incapace di difendere da sé i propri interessi, è obbligato a consegnarsi ciecamente a delle guide ch’egli non può né giudicare né scegliere; questo stato di dipendenza servile che ne è la conseguenza, sussiste presso quasi tutti i popoli nella parte maggioritaria, per quelli ai cui occhi la libertà e l’uguaglianza non sono che parole lette nei codici e non diritti di cui sappiano gioire.

2° Per diminuire la diseguaglianza che nasce dalla differenza dei sentimenti morali

C’è ancora un’altra diseguaglianza della quale un’istruzione generale ugualmente diffusa può essere il solo rimedio. Quando la legge ha reso tutti gli uomini uguali, la sola distinzione che li distingue in classi è quella che nasce dalla loro educazione; essa non riguarda soltanto la differenza di Lumi, ma quella delle opinioni, dei gusti, dei sentimenti che ne sono la conseguenza inevitabile.

Il figlio del ricco non sarà affatto della stessa classe del figlio del povero se nessuna istituzione pubblica non li avvicini attraverso l’istruzione, e la classe che ne riceverà una più curata avrà necessariamente delle maniere più dolci, una probità più delicata, un’onestà più scrupolosa; le sue virtù saranno più pure, i suoi vizi, al contrario, meno rivoltanti, la sua corruzione meno disgustosa, meno barbara e meno inguaribile. Esisterà dunque una distinzione reale che non sarà nel potere delle leggi distruggere, e che, fissando una vera separazione tra chi possiede i Lumi e chi ne è privo, ne farà necessariamente uno strumento di potere per gli uni e non un mezzo di felicità per tutti.

Il dovere della società relativamente all’obbligo di estendere nei fatti quanto più possibile l’uguaglianza dei diritti, consiste dunque nel procurare ad ognuno l’istruzione necessaria per esercitare le comuni funzioni umane, di padre di famiglia e di cittadino, per sentirne, per conoscerne, tutti i doveri.

E’ dunque ancora un dovere della società quello di offrire a tutti i mezzi per acquisire le conoscenze che la forza dell’intelligenza d’ognuno e il tempo che può dedicare ad istruirsi permetterà di raggiungere. Ne risulterà forse una differenza più grande in favore di quelli che hanno maggior talento naturale, e di chi la ricchezza lasci la libertà di consacrare più anni allo studio; ma se questa diseguaglianza non sottomette un uomo a un altro, se essa offre un appoggio al più debole senza dargli un maestro, essa non è né un male, né un’ingiustizia, e certo, sarà un amore dell’uguaglianza ben funesto per chi teme d’estendere la classe degli uomini illuminati e di aumentarvi i Lumi.

II. La società deve anche un’istruzione pubblica relative alle diverse professioni

1° Per mantenere più uguaglianza nella scelta

Nello stato attuale delle società, gli uomini si trovano distribuiti in professioni diverse, delle quali ciascuna esige delle conoscenze particolari. I progressi di queste professioni contribuiscono esse stesse al benessere comune, ed è utile per l’uguaglianza reale aprirne l’accesso a colori i cui gusti o le loro facoltà ve li richiamano ma che, per difetto dell’istruzione pubblica, la loro povertà allontana in modo assoluto, condannandoli alla mediocrità e di lì alla dipendenza.

I pubblici poteri devono dunque annoverare tra i propri doveri quello di assicurare, di facilitare, di moltiplicare i mezzi per acaquisire queste conoscenze; e questi doveri non sono legati all’istruzione relativa alle professioni a cui si può guardare come a delle specie di funzioni pubbliche, ma si estende anche a quelle che gli uomini esercitano per la loro utilità, senza considerare l’influenza che esse possono avre sulla prosperità generale.

2° Per renderli più ugualmente utili

Questa uguaglianza d’istruzione contribuirebbe alla perfezione delle arti e non soltando distruggerebbe la diseguaglianza che la differenza di ricchezza mette tra gli uomini, ma stabilirebbe un genere di uguaglianza più generale, quella del benessere. Importa poco alla felicità comune che qualcuno debba alla propria ricchezza i benefici desiderati, se tutti posono soddisfare i loro bisogni con facilità e riunire nelle loro abitazioni, nel loro abbigliamento, nel loro cibo, in tutte le abitudini della vita, la salubrità, la pulizia e perfino la comodità e la piacevolezza. Ora, il solo modo di conseguire questo risultato è di portare una sorta di perfezione nella produzione delle arti, anche delle più comuni. Allora un più alto grado di bellezza, d’eleganza o di delicatezza in quelle che sono destinate solo a un piccolo numero di ricchi, lungi dall’essere un male per quelli che non ne beneficiano, contribuisce perfino al loro vantaggio, favorendo i progressi del’industria animata dall’emulazione. Ma questi beni non esisterebbero se il primato nelle arti fosse unicamente appannaggio di qualcuno che ha potuto ricevere un’istruzione più curata e non una superiorità che il talento naturale ha saputo dare nel contesto di un’istruzione pressoché uguale. L’operario ignorante produce solo opere difettose in se stesse: ma colui che è inferiore solo per talento può sostenere la concorrenza in tutto ciò che non esige affatto la sensibilità per l’ultimo grido dell’arte.  Il primo è cattivo; il secondo è soltanto meno buono di un altro.

3° Per diminuire il pericolo a cui alcuni sono esposti

Si può guardare ancora come a una conseguenza di questa istruzione generale, il vantaggio di rendere le diverse professioni meno insalubri. I mezzi per preservare dalle malattie a cui espongono molte di esse sono più semplici e conosciuti di quanto si immagini comunemente. La grande difficoltà è soprattutto di farle adottare da uomini che, non possedendo che la routine della loro professione, sono in difficoltà con i più piccoli cambiamenti e mancano di quella flessibilità che solo una pratica meditata può dare. Costretti a scegliere tra una perdita di tempo che diminuisce il loro guadagno e una precauzione che garantirebbe la loro vita, essi preferiscono un danno lontano o incerto a una privazione presente.

4° Per accelerare i loro progressi

Ciò sarebbe anche un mezzo per dissolvere, tra quelli che coltivano le diverse professioni e quelli che le impiegano, questa mole di piccoli segreti di cui la pratica di quasi tutte le arti è infettata, arrestandone il progresso e offrendo un eterno impulso alla cattiva fede e alla ciarlataneria. Infine, se le scoperte pratiche più importanti sono dovute in generale alla teoria delle scienze i cui precetti dirigono queste arti, c’è una quantità di invenzioni di dettagli che gli artigiani soli possono avere anche solo l’idea di cercare, perchè solo loro ne conoscono il bisogno e ne percepiscono i vantaggi. Ora l’istruzione che essi ricevranno, renderà loro questa ricerca più facile; essa impedirà loro soprattuto di smarrirsi nel percorso. Senza questa istruzione, quelli tra loro dotati di talento inventivo, invece di vedervi  un beneficio, non vi troverebbero spesso che un danno. Invece di vedere la loro ricchezza aumentare grazie al frutto delle loro scoperte, essi la consumano in sterili ricerche, prendendo strade sbagliate di cui la loro ignoranza non permette di percepire i pericoli, finendo per cadere nella follia e nella miseria.

III. La società deve ancora l’istruzione pubblica come mezzo per perfezionare la specie umana

1° Mettendo tutti gli uomini nati con un talento in grado di svilupparlo

E’ attraverso la scoperta successiva delle verità di ogni grado che le nazioni civili sono uscite dalla barbarie e da tutti i mali che conseguono all’ignoranza e al pregiudizio. E’ attraverso la scoperta delle nuove verità che la specie umana continuerà a perfezionarsi. Siccome non c’è nessuna di esse che non ci offra il modo di elevarci sulle altre, così come ognuna mettendoci davanti degli ostacoli più difficili da vincere ci comunica allo stesso tempo una forza nuova, è impossibile assegnare qualunque termine a questo perfezionamento.

E’ dunque ancora un vero dovere quello di favorire la scoperta di verità speculative, come l’unico mezzeo di portare successivamente la specie umana ai diversi gradi di perfezione, et di conseguenza di felicità a cui la natura permette di aspirare; dovere tanto più importante quanto più il benessere può non essere durevole se non si fanno progressi verso il meglio e visto che bisogna o andare verso la perfezione, o esporsi ad essere bloccati indietro dallo choc continuo e inevitabile delle passioni, degli errori, degli avvenimenti.

Fin qui, un piccolo numero d’individui riceve durante la propria infanzia un’istruzione che gli permette di sviluppare tutte le sue facoltà naturali. Appena un centesimo dei bambini può godere di questo vantaggio e l’esperienza ha provato che quelli a cui la ricchezza non l’ha permsso e che in seguito la forza del loro genio insieme al caso fortunato ha messo nelle condizioni di istruirsi, sono rimasti al di sotto di se stessi. Niente può riparare alla mancanza di questa prima educazione che sola può dare  l’abitudine al metodo e quella varietà di conoscenze così necessarie per elevarsi in una di esse a tutta l’altezza a cui naturalmente ci si può protendere.

Sarebbe dunque importante avere una forma d’istruzione pubblica che non lasciasse scappare alcun talento senza averlo esplorato e che gli offrisse tutto l’aiuto riservato fin qui ai figli dei ricchi.

Lo si era sentito perfino nei secoli dell’ignoranza. Di lì nacquero numerose fondazioni per l’educazione dei poveri; ma queste istituzioni, infangate dai pregiudizi dei tempi che le hanno viste nascere, non presero alcuna precauzione per applicarle anche agli individui la cui istruzione non sarebbe diventata un vanto pubblico; esse non furono che una specie di lotteria che offriva ad alcuni esseri privilegiati l’incerto vantaggio di elevarsi alla classe superiore; facevano molto poco per la felicità di quelli che favorivano e niente per l’utilità comune.

Vedendo ciò che il genio ha saputo fare malgrado tutti gli ostacoli, si può immaginare quali progressi avrebbe fatto lo spirito umano se un’istruzione meglio diretta avesse almeno centuplicato il numero degli inventori.

E’ vero che dieci uomini che partono dallo stesso punto non faranno il decuplo delle scoperte, e soprattuto non andrammo dici volte più lontano di quanto avrebbe fatto uno tra loro che si fosse incamminato da solo. Ma i veri progressi della scienza non si limitano a semplici avanzamenti; consistono anche nell’estendersi prima intorno allo stesso punto, a raccogliere il più gran numero di verità attraverso gli stessi metodi e le conseguenze degli stessi principi. Spesso è solo dopo averli esauriti che è possibile oltrepassarli e, da questo punto di vista, il numero di queste scoperte secondarie porta con sé un progresso reale.

Bisogna osservare, inoltre, che moltiplicando gli uomini occupati dallo stesso insieme di verità si aumenta la speranza di trovarne di nuove, perché la differenza dei loro spiriti può corrispondere più facilmente a quelle difficoltà, così che il caso che influenza così spesso la scelta dei nostri oggetti di ricerca, e anche quella dei nostri metodi, possa produrre più combinazioni favorevoli. Ancora, il numero dei geni destinati a creare dei metodi, ad aprire una nuova strada, è molto più piccolo di quello dei talenti, dai quali ci si può aspettare delle scoperte di dettaglio; e la successione dei primi, invece di essere interrotta spesso, diverrà tanto più rapida quando si abbia dato a più giovani spiriti i mezzi per realizzare i propri destini. Infine, queste scoperte di dettaglio sono utili, soprattutto per le loro applicazioni; e tra il genio che inventa e il tecnico che le fa servire all’utilità comune, resta sempre un intervallo da percorrere che spesso non può essere superato senza scoperte di grado inferiore.

Così, mentre una parte dell’istruzione metterebbe in grado gli uomini comuni  di profittare dei lavori del genio e di impiegarli sia per i loro bisogni, sia a vantaggio della loro felicità, un’altra parte di questa stessa istruzione avrebbe per obiettivo di mettere all’opera i talenti preparati dalla natura, di abbattere i loro ostacoli, di aiutarli nel loro cammino.

2° Preparando le nuove generazioni attraverso la cultura delle precedenti

Il tipo di perfezionamento che ci si deve attendere da un’istruzione diffusa più egualitariamente, non si limita probabilmente a valorizzare nello stesso modo individui nati con le stesse facoltà. Non è così chimerico, come sembra a colpo d’occhio, credere che la cultura possa migliorare le generazioni stesse, e che il perfezionamento delle facoltà degli individui sia trasmissibile ai loro discendenti.

L’esperienza sembra averlo provato. Un popolo sottratto alla civilizzazione, benché circondato di nazioni illuminate, non sembra affatto potersi elevare al loro livello nel momento in cui eguali mezzi di istruzione gli sono offerti. L’osservazione delle razze animali asservite ai bisogni umani sembra offrire un’altra analogia favorevole a questa opinione. L’educazione che si dà loro, non cambia affatto la loro taglia, la loro forma esteriore, le loro qualità puramente fisiche; essa sembra influenzare le loro disposizioni naturali, il carattere di queste diverse razze.

Viene dunque abbastanza semplice pensare che se più generazioni hanno ricevuto un’educazione diretta verso uno obiettivo preciso, se ciascuno di quelli che le formano ha coltivato il loro spirito attraverso lo studio, le generazioni successive nasceranno con una maggiore capacità di ricevere istruzione e una maggiore attitudine a profittarne.

Qualunque opinione si abbia sulla natura dell’anima, o qualunque scetticismo si conservi, sarebbe difficile negare l’esistenza di organi intellettuali intermedi necessari anche per il pensiero che sembrano allontanarsi di più dalle cose sensibili. Tra quelli che si sono elevati a delle meditazioni profonde, non ce n’è nessuno a cui l’esistenza di questi organi non sia manifestata che attraverso la fatica di usarli. Il loro grado di forma o di flessibilità, benché non sia indipendente dal resto della costituzione fisica, non è però proporzionale né alla salute, né al vigore, sia del corpo che dei sensi.

Così, l’intensità delle nostre facoltà è legata, almeno in parte, alla perfezione degli organi intellettuali ed è naturale credere che questa perfezione non sia indipendente dallo stato in cui si trovano nelle persone che ci mettono al mondo.

Non si deve affatto guardare come un ostacolo a questo perfezionamento indefinito, la massa immensa di verità accumulate da tanti secoli. I metodi  per ridurli a verità generali, per ordinarle seguendo un metodo semplice, per abbreviarne l’espressione attraverso formule più precise, sono ugualmente suscettibili degli stessi progressi; e più lo spirito umano avrà scoperto delle verità, più diverrà capace di conservarle e combinarle nel modo più ampio.

Se questo perfezionamento indefinito della nostra specie è, come credo, una legge generale della natura, l’uomo non deve più guardare se stesso come un essere limitato a un’esistenza passeggera e isolata, destinata a svanire dopo un’altalena di felicità e malessere per se stesso, di bene e di male per quelli che il caso ha messo vicino a lui; egli diviene una parte attiva del grande tutto e il cooperatore di un’opera eterna. In un’esistenza di un momento su un punto dello spazio egli può, attraverso il suo lavoro, abbracciare tutti i luoghi, legarsi a tutti i secoli, e agire ancora molto tempo dopo che la sua memoria sia sparita sulla terra.

Noi ci vantiamo dei nostri lumi, ma possiamo osservare lo stato attuale delle società senza scoprire nelle nostre opinioni, nelle nostre abitudini, i residui dei pregiudizi di venti popoli dimenticati  i cui soli errori sono sfuggiti al tempo per sopravvivere alle rivoluzioni? Potrei citare, per esempio, delle nazioni in cui esistono filosofi e orologi e ciò nonostante si guardano come capolavori della saggezza umana delle istituzioni introdotte dalla necessità, quando l’arte della scrittura non esisteva ancora, dove li si impiega per misurare il tempo in un atto pubblico, mentre sono i primi mezzi che si sono offerti ai popoli selvaggi. Possiamo non sentire quale immensa distanza ci separa in termini di una perfezione che viene da lontano, il cui genio ci ha aperto e spianato la strada, e verso il quale ci trascina la sua infaticabile attività, mentre uno spazio più vasto ancora deve svelarsi allo sguardo dei nostri nipoti? Allo stesso modo, possiamo non essere colpiti sia da tutto ciò che resta da distruggere, sia di tutto ciò che un avvenire, anche prossimo, offre alle nostre speranze?

L’istruzione pubblica è ancora necessaria per preparare le nazioni ai cambiamenti che il tempo dovrà portare

Dei cambiamenti nella temperatura di un paese, nella qualità del suolo, causate sia dalle leggi generali della natura, sia per effetto di un lungo lavoro, di nuove culture, la scoperta di nuovi mezzi nelle tecniche, l’introduzione di nuovi mezzi che, impiegando meno braccia umane, obbligano gli operai a cercare altre occupazioni; l’aumento, infine, o la diminuzione della popolazione, devono produrre delle rivoluzioni più o meno rilevanti, sia nel rapporti dei cittadini tra loro, sia in quello con le nazioni straniere. Ne possono risultare o dei nuovi vantaggi che bisogna trovarsi pronti a utilizzare, o dei mali che bisogna saper fronteggiare, aggirare o prevenire. Bisognerebbe dunque poterli presentire e prepararsi in anticipo a cambiare abitudini.

Una nazione che si governasse sempre attraverso gli stessi principi, e le cui istituzioni non fossero flessibili ad alcun cambiamento, conseguenza necessaria delle rivoluzioni portate dal tempo, vedrebbe nascere la propria rovina dalle stesse opinioni e dagli stessi mezzi che avevano assicurato la sua prosperità.

L’eccesso di male può correggere solo una nazione votata alla routine, mente quella che grazie a un’istruzione generale si è resa degna d’obbedire alla voce delal ragione; che non è sottomessa al giogo di ferro che l’abitudine impone alla stupidità, trarrà profitto delle prime lezioni dell’esperienza e talvolta le preverrà perfino.

Come l’individuo obbligato a staccarsi dalla terra che l’ha visto nascere ha bisogno di acquisire più idee di quello che vi resta attaccato, e deve, tanto quanto se ne allontana, gestire nuove risorse, così le nazioni che procedono attraverso i secoli hanno bisogno d’una istruzione che rinnovandosi e correggendosi incessantemente, segua il corso del tempo, lo anticipi qualche volta e non lo contrasti mai.

Le rivoluzioni generate per il perfezionamento generale della specie umana devono probabilmente portarla alla ragione e alla felicità. Ma per quanti infelici passeggeri bisognerà conquistarle? Quanto regrediranno i tempi se un’istruzione generale non avvicinerà gli uomini tra loro, se il progresso dei lumi, sempre diffusi in modo ineguale, divenisse l’alimento d’una eterna guerra d’avarizia e d’astuzia tra le nazioni, come tra le diverse classi di uno stesso popolo, invece di legarsi attraverso quella reciprocità fraterna di bisogni e di servizi, fondamento di una felicità comune ?

Divisione dell’istruzione pubblica in tre parti

Da tutte queste riflessioni, si vede nascere la necessità di tre distinte specie di istruzione. Prima di tutto, un’istruzione comune deve proporre:
1° D’insegnare a ciascuno, secondo il grado della sua capacità e la quantità di tempo di cui dispone, ciò che per tutti gli uomini è bene conoscere, quale che sia la loro professione e il loro gusto;
2° Di assicurare un mezzo per conoscere le disposizioni particolari di ogni soggetto, al fine di poterne profittare per il generale vantaggio;
3° Di preparare gli allievi alle conoscenze necessarie alla professione che sceglieranno.
La seconda specie d’istruzione deve avere per oggetto gli studi relativi alle diverse professioni che è utile perfezionare sia per il vantaggio comune, sia per il benessere particolare di quelli che ci si dedicano.
La terza, infine, puramente scientifica, deve formare quelli che la natura destina a perfezionare la specie umana attraverso nuove scoperte, e attraverso queste, il loro miglioramento e la loro moltiplicazione.

Necessità di distinguere, in ognuna, l’istruzione dei bambini e quella degli uomini

Queste tre specie di istruzione si dividono ancora in due parti. In effetti, bisogna prima insegnare ai bambini ciò che sarà loro utile sapere fino a quando entreranno nel pieno godimento dei loro diritti, vale a dire quando eserciteranno in modo indipendente le professioni che scelgono; ma c’è un’altra specie d’istruzione che deve essere abbracciata tutta la vita. L’esperienza ha provato che si possono fare solo progressi o regressi, non c’è una terza possibilità. L’uomo che uscendo dalla propria formazione non continuasse a fortificare la propria ragione, nutrire con conoscenze nuove quelle già acquisite, correggere gli errori o rettificare le nozioni incomplete che ha acquisito, vedrebbe ben presto svanire il frutto del lavoro dei suoi primi anni; mentre il tempo cancellerebbe le tracce di queste prime impressioni non rinnovate da altri studi, lo spirito stesso, perdendo l’abitudine all’applicazione, perderebbe la sua flessibilità e la sua forza. Anche per quelli a cui una professione necessaria al loro sostentamento lascia meno libertà, il tempo dell’educazione non è quasi mai tutto quello che possono dedicare all’istruzione. Infine, la scoperta di nuove verità, i progressi o l’applicazione di quelle già conosciute, le conseguenze degli avvenimenti, i cambiamenti delle leggi e delle istituzioni devono portare a circostanze nelle quali diviene utile e perfino indispensabile aggiungere nuovi lumi a quelli dell’educazione. Non è dunque sufficiente che l’istruzione formi degli uomini, bisogna che essa conservi e perfezioni in loro ciò che ha formato, che chiarisca le loro menti, le preservi dall’errore e impedisca loro di ricadere nell’ignoranza; bisogna dunquie che la porta del tempio della verità sia aperta a tutte le età e che se la saggezza dei genitori ha preparato l’anima dei figli ad ascoltarne la voce, la sappiano sempre riconoscere e non siano più esposti a confonderla con i sofismi dell’impostura per il resto della loro vita. La società deve dunque preparare dei mezzi facili e semplici per istruirsi, per tutti quelli a cui la povertà non permette di procurarseli ed è necessario che una prima educazione li metta in grado di distinguere da se stessi e di cercare le verità che sarebbe loro utile conoscere.

Necessita di dividere l’istruzione in più gradi, dopo quello della capacità naturale e il tempo che si può impiegare ad istruirsi

I bambini, seguendo le possibilità dei loro genitori, le circostanze in cui si trovano nella loro famiglia, lo stato a cui li si destina, possono dedicare più o meno tempo all’istruzione. Non tutti gli individui nascono con uguali facoltà e non tutti, educati con lo stesso metodo, nello stesso numero di anni, apprenderanno le stesse cose. Cercando di far apprendere prima quelli che hanno meno facilità o talento, invece di diminuire gli effetti di questa diseguaglianza, non si farebbe che aumentarli. Non si apprende ciò che è utile, ma ciò che si è trattenuto, e soprattutto ciò che si è fatto proprio, sia attraverso la riflessione, sia attraverso l’abitudine.

L’insieme di conoscenze che è utile dare a ogni uomo deve dunque essere proporzionata non soltanto al tempo che questi può dedicare allo studio, ma alla forza della sua attenzione, all’estensione e alla durata della sua memoria, alla facilità e alla precisione della sua intelligenza. La stessa osservazione può applicarsi anche all’istruzione che ha per oggetto certe professioni e anche agli studi genuinamente scientifici.
Ora, un’istruzione pubblica è necessariamente la stessa per tutti quelli che la ricevono nello stesso tempo. Non si può dunque aver attenzione a quelle differenze che si stabiliscono nei diversi corsi d’istruzione dopo questa osservazione, così che ogni allievo potrà arrivare ai gradi seguenti impiegando più o meno tempo e trovando così più facilità ad apprendere.

Tre gradi di studio per l’istruzione generale e due sia per quella relativa alle diverse professioni che alle scienze, sembrano sufficienti. Ciascuno di questi ordini può inoltre ancora prestarsi a diverse suddivisioni per facilitare l’apprendimento raggruppando il numero di argomenti che l’allievo può abbracciare e fissando più o meno lontano il limite di ciascuno. Allora un padre saggio, o chi ne assolve le funzioni, potrebbe adattare l’istruzione comune sia alle diverse disposizioni degli allievi sia agli scopi della loro istruzione, seguendo la facilità naturale e il desiderio o l’interesse di formarsi. Nelle istituzioni dedicate a tutti, ognuno ne troverà anche una proporzionata ai propri bisogni. Allora un’educazione che l’equità deve destinare a tutti non sarà più destinata al piccoli numero di quelli che la natura o la ricchezza hanno favorito.

1° Per rendere i cittadini capaci di adempiere le  funzioni pubbliche, affinché non divengano una professione

Trovo tre motivi principali per moltiplicare il numero dei livelli d’istruzione comune. Nelle professioni private, dove coloro che vi si dedicano hanno per scopo principale il loro interesse di profitto o gloria, e nelle quali i rapporti con gli altri sono sempre da individuo a individuo, l’utilità comune esige che esse si suddividano sempre di più, perché una professione più specialistica può essere meglio esercitata, anche a parità di capacità e di lavoro. Ciò non vale per quelle professioni che, comportando relazioni dirette con l’intera società, e agendo su di essa, sono vere e proprie funzioni pubbliche.

Quando la produzione delle leggi, i lavori amministrativi, l’amministrazione della giustizia, divengono professioni specializzate riservate a coloro che vi si sono preparati con studi specifici, allora non si può più dire che regna una libertà reale. Si forma necessariamente nella nazione una specie di aristocrazia, non di talenti e di Lumi ma di professioni. E’ così che in Inghilterra l’uomo di legge è arrivato a concentrare, fra i suoi membri, quasi tutto il potere effettivo. Il paese più libero è quello dove la maggior parte delle funzioni pubbliche può essere esercitata da coloro che hanno ricevuto solo un’istruzione comune. Occorre dunque che le leggi rendano più semplice l’esercizio di tali funzioni, e allo stesso tempo che un sistema di educazione saggiamente articolato conferisca a questa istruzione comune tutta l’ampiezza necessaria per rendere degno di adempiere queste funzioni chi ha saputo profittarne.

2° Perché la suddivisione dei mestieri e delle professioni non renda il popolo stupido

M. Smith ha osservato che più le professioni meccaniche si dividevano, più il popolo era soggetto a alla stupidità connaturata agli uomini limitati da un piccolo numero di idee di uno stesso genere. L’istruzione è il solo rimedio a questo male, tanto più pericoloso in uno Stato dove le leggi hanno stabilito più uguaglianza.  Infatti, se essa si estende al di là dei diritti puramente personali, il destino della nazione dipende allora, in parte, da uomini non in grado di essere governati dalla loro ragione né di avere una volontà propria. Le leggi affermano l’uguaglianza nei diritti; le istituzioni per l’istruzione pubblica sono le sole che possono rendere tale uguaglianza effettiva. Quella che è stabilita per legge è ordinata dalla giustizia; ma solo l’istruzione può far sì che questo principio di giustizia non sia in contraddizione con quello che prescrive di non accordare agli uomini altro che i diritti il cui esercizio, in conformità alla ragione e all’interesse comune, non pregiudichi quello degli altri membri della stessa società.  Occorre dunque che un livello di istruzione comune renda capaci di ben adempiere tutte le funzioni pubbliche anche gli uomini di capacità ordinaria, e  un altro livello richieda tanto poco tempo quanto ne può sacrificare allo studio l’individuo destinato al ramo più specializzato di una professione meccanica, affinché possa evitare la stupidità non per l’estensione, ma per la scelta e la correttezza delle nozioni che riceverà.

Altrimenti si verrebbe a introdurre un’ineguaglianza molto tangibile, che renderebbe il potere patrimonio esclusivo degli individui che lo comprassero, dedicandosi a certe professioni, oppure si consegnerebbero gli uomini all’autorità dell’ignoranza, sempre ingiusta e crudele, sempre sottomessa alla volontà corrotta di qualche tiranno ipocrita; non si potrebbe mantenere questo fantasma impostore d’uguaglianza che sacrificando la proprietà, la libertà, la sicurezza, ai capricci di feroci agitatori d’una moltitudine smarrita e stupida.

3° Per diminuire, grazie a un’istruzione generale, la vanagloria e l’ambizione

In una società numerosa, è una grave disdetta questa avidità turbolenta con la quale – coloro che non si dedicano principalmente a lavorare per il loro sostentamento o ad arricchirsi  – perseguono posti che danno potere o che lusingano la loro vanità. Un uomo non fa in tempo ad acquisire una mezza conoscenza che già vuole governare la sua città, o pretende illuminarla. Si considera inutile, quasi vergognosa, la vita del cittadino che, occupato nei suoi affari, resta tranquillamente in seno alla propria famiglia a preparare la felicità dei suoi figli, a coltivare l’amicizia, a esercitare la beneficenza, a irrobustire la sua ragione con l’acquisizione di nuove conoscenze e la sua anima con nuove virtù. Tuttavia è difficile sperare che una nazione possa gioire di una pacifica libertà e perfezionare le proprie istituzioni e leggi, se non vede proliferare questa classe di uomini, la cui opinione dev’essere diretta dall’ imparzialità, il disinteresse e i Lumi: essi soli possono opporre una barriere alla ciarlataneria e all’ipocrisia, che senza quest’utile resistenza finirebbero per impadronirsi di ogni cosa. Chi difetta di talento o virtù, in mancanza di questo aiuto non sarebbe in grado di combattere l’intrigo. Infatti, un istinto naturale ispirerà sempre negli uomini poco illuminati una specie di diffidenza per chi aspira ad ottenere il loro suffragio: non potendo giudicare sulla base dei loro propri Lumi come valuteranno i candidati ? Non sospetteranno delle loro opinioni, nelle quali supporre un interesse nascosto, tanto più che se tale fosse realmente il caso non sarebbero in grado di avvertirlo? Occorre dunque che la fiducia del cittadino comune possa riposare su uomini che non aspirano a nulla e siano capaci di guidare le loro scelte.

Ma questo genere di persone non può esistere che in un paese dove l’istruzione pubblica offra a un gran numero di individui la possibilità di acquisire agevolmente quelle conoscenze che consolano e abbelliscono la vita, che impediscono di sentire il peso del tempo e la fatica del riposo. E’ lì che questi nobili amici della verità possono proliferare abbastanza per essere utili, e trovare nella società dei loro uguali un incoraggiamento alla loro modesta e serena carriera. Poiché le conoscenze comuni non offrono l’ambizione di speranze seduttrici, c’è solo bisogno di una virtù ordinaria che consenta di essere un onest’uomo e un cittadino illuminato.

Ciò che abbiamo detto dell’istruzione dei giovani si applica ugualmente a quella degli uomini; bisogna che essa sia compatibile con la loro capacità naturale, con l’estensione della loro istruzione primaria, e con il tempo che essi possono o vogliono ancora dedicarvi, onde stabilire tutta l’uguaglianza che può esistere fra due cose necessariamente ineguali; ciò che esclude non la superiorità ma la dipendenza.

Sotto una costituzione fondata su principi ingiusti, e nella quale tuttavia un’accorta miscela di monarchia o aristocrazia assicurasse la tranquillità e il benessere del popolo, distruggendone la libertà, un’istruzione pubblica generale sarebbe senza dubbi utile: e tuttavia lo Stato conserverebbe senza di essa la pace, e perfino una sorta di prosperità. Ma una costituzione veramente libera, dove tutte le classi sociali godono degli stessi diritti, non può sussistere se l’ignoranza di una parte dei cittadini non permette loro di conoscere la natura e i limiti, li obbliga a pronunciarsi su ciò che non conoscono, a scegliere senza poter giudicare; una tale costituzione si autodistruggerebbe alle prime difficoltà, e degenererebbe in una di quelle forme di governo che non possono mantenere la pace in un popolo ignorante e corrotto.

Necessità d’esaminare a parte ogni suddivisione e ogni livello di istruzione

Per ciascuna delle numerose suddivisioni che sono state stabilite, è necessario esaminare: 1° quali devono essere gli oggetti dell’istruzione e a quale punto conviene fermarsi; 2° quali libri devono servire a ciascun insegnamento e quale altro mezzo può essere utile aggiungere; 3° quali devono essere i metodi di insegnamento; 4° quali insegnanti scegliere, da chi e come farli scegliere.

In realtà, tali diverse questioni non devono essere risolte nello stesso modo per ciascuna delle suddivisioni stabilite. Il vero spirito sistematico non consiste nello’estendere a caso le applicazioni di una stessa massima, ma a far derivare dagli stessi principi le regole proprie a ogni oggetto. Appartiene al talento valutare sotto tutti i loro aspetti le idee giuste e vere che si offrono alla riflessione e trarne le combinazioni nuove e profonde che vi sono nascoste; non generalizzare delle combinazioni formate a caso  dal primo ridotto numero di idee che si presentano.  Allo stesso modo che, nel sistema del mondo, gli astri sottomessi da una legge comune a una dipendenza reciproca si muovono ciascuno in orbite differenti, e, trascinati a velocità mutevoli, presentano, nel risultato dello stesso principio, un’inesauribile varietà di apparenze e movimenti.

Questioni preliminari da risolvere

Ma prima di entrare in questi dettagli, bisogna determinare, 1° se l’educazione pubblica, istituita da un potere nazionale, deve limitarsi all’istruzione; 2° fin dove si estende, su questa istruzione, i diritti del potere pubblico; 3° se l’istruzione dev’essere la stessa per entrambi i sessi o se sono necessari, per ciascuno, indirizzi particolari.

V. L’educazione pubblica deve limitarsi all’istruzione

1° Perché la differenza dei lavori e delle ricchezze impedisce di darle maggiore estensione

L’educazione pubblica deve limitarsi all’istruzione? Troviamo presso gli antichi acuni esempi d’una educazione comune nella quale tutti i giovani cittadini, visti come figli della repubblica, erano allevati per la città e non per la loro famiglia o per se stessi. Molti filosofi hanno tracciato il quadro di istituzioni simili. Essi credevano di trovarvi un mezzo per conservare la libertà e le virtù republicane che vedevanmo progressivamente svanire, dopo poche generazioni, nei paesi in cui avevano brillato col maggior splendore; maquesti principi non potevano essere applicati alle nazioni moderne. Questa uguaglianza assoluta nell’educazione può esistere solo presso i popoli che utilizzano il lavoro degli schiavi. E’ sempre immaginando una nazione avvilita che gli antichi hanno ceracto i mezzi per elevarne un’altra a tutte le virtù di cui la natura umana è capace. Fondandosi sulla diseguaglianza mostruosa tra schiavo e padrone, l’uguaglianza che volevano stabilire tra i cittadini e tutti i loro principi di libertà e giustizia erano fondati sull’iniquità e sulla servitù. Per questo non sono mai potuti sfuggire alla giusta vendetta della natura oltraggiata. Ovunque hanno smesso d’essere liberi, perché non potevano sopportare che altri uomini lo fossero.

L’educazione pubblica deve limitarsi all’istruzione? Presso gli antichi si trovano esempi di un’educazione comune dove tutti i giovani cittadini, considerati come figli della repubblica, erano allevati per questa e non per le famiglie o per loro stessi. Molti filosofi hanno disegnato il quadro di simili istituzioni. Essi credevano di trovarvi un modo per conservare la libertà e le virtù repubblicane, che vedevano costantemente fuggire, dopo poche generazioni, dai paesi dove esse avevano brillato maggiormente; ma questi principi non possono essere applicati alle nazioni moderne. L’uguaglianza assoluta nell’educazione non può esistere che presso quei popoli dove i lavori della società sono svolti da schiavi. E’ proprio partendo sempre da una nazione svilita che gli antichi cercavano di erigerne una piena di tutte le virtù di cui la natura umana è capace. L’uguaglianza che volevano stabilire tra cittadini aveva costantemente per base l’ineguaglianza mostruosa tra schiavo e padrone, e tutti i principi di libertà e giustizia erano fondati sull’iniquità e la servitù. Perciò non hanno mai potuto sfuggire alla giusta vendetta della natura oltraggiata. Ovunque essi hanno perso la libertà, perché non potevano sopportare che gli altri uomini fosse come loro.

Il loro indomito amore per la libertà non era la passione generosa dell’indipendenza e dell’uguaglianza, ma la febbre dell’ambizione e dell’orgoglio; una miscela di durezza e ingiustizia corrompeva le loro più nobili virtù: e come, una pacifica libertà – la sola durevole – poteva appartenere a uomini che non potevano essere indipendenti se non attraverso il dominio, vivendo con i propri concittadini come fratelli ma trattando come nemici il resto degli uomini? Coloro che oggi si vantano di amare la libertà e condannano la schiavitù di esseri che la natura ha fatto loro uguali,  che non aspirino nemmeno lontanamente a quelle macchiate virtù degli antichi; non hanno più la scusa né del pregiudizio né della necessità, né l’invincibile errore di un comportamento universale; e l’uomo vile, la cui avarizia trae un vergognoso profitto dal sangue e dalle sofferenze dei suoi simili, appartiene non meno che il suo schiavo al padrona che vorrà comprarlo.

Da noi, i lavori penosi della società sono affidati a uomini liberi i quali, obbligati a lavorare per soddisfare i propri bisogni, hanno tuttavia gli stessi diritti e sono uguali a quelli che ne sono dispensati dalla fortuna. Una grande parte dei figli dei cittadini sono destinati a dure occupazioni, il cui apprendistato dovrà iniziare presto, e il cui esercizio occuperà tutto il loro tempo: il loro lavoro diviene una risorsa per la famiglia prima ancora che siano usciti dal’infanzia; mentre a quelli a cui l’agiatezza dei loro genitori consente più tempo e più spese per un’educazione maggiore , si preparano, in virtù di questa educazione, a professioni più remunerative; per altri, infine, nati benestanti, l’educazione a per unico oggetto di assicurare loro i modi per vivere felici e acquisire le ricchezza o la considerazione che offrono gli incarichi, i servizi o i talenti.

E’ dunque impossibile sottomettere ad una educazione rigorosamente uguale uomini la cui destinazione è differente. Se essa è stabilita per quelli che hanno meno tempo da consacrare all’istruzione, la società è obbligata a sacrificare tutti i vantaggi che essa può aspettarsi dal progresso dei Lumi. Se al contrario si volesse adattarla per chi può sacrificare l’intera giovinezza a istruirsi, o si incontrerebbero insormontabili ostacoli o bisognerebbe rinunciare ai vantaggi di un’istituzione che abbracciasse l’insieme dei cittadini. Infine, nell’uno e nell’altro caso, i fanciulli non sarebbero educati né per loro stessi, né per la patria, né per i loro futuri bisogni, né per i loro doveri.

Un’educazione completa non può graduarsi come l’istruzione. Occorre che sia completa, altrimenti è nulla e persino nociva.

2° Perché altrimenti comprometterebbe i diritti dei genitori

C’è un altro motivo che obbliga a limitare l’educazione pubblica alla sola istruzione: ed è che non la si può estendere senza intaccare dei diritti che l’autorità deve rispettare.

Gli uomini si sono uniti in società allo scopo di ottenere il godimento più completo, pacifico e sicuro dei loro diritti naturali, tra i quali, senza dubbio, bisogna comprendere quello di vegliare sui primi anni dei propri figli, supplire alla loro inconsapevolezza, sostenere la loro debolezza, guidarne l’emergente intelletto, prepararli alla felicità. E’ un dovere che la natura impone, e ne risulta un diritto che la tenerezza paterna non può abbandonare. Si commetterebbe una vera ingiustizia dando alla maggioranza reale dei capo-famiglia, e più ancora affidando a quella dei loro rappresentanti il potere d’obbligare i padri al diritto di allevare i propri figli. Un tale sistema, che spezzando i legami naturali distruggerebbe la felicità domestica, indebolirebbe o perfino annienterebbe i sentimenti di riconoscenza filiale, prima fra tutte le virtù, condannerebbe la società  che lo avesse adottato ad una felicità solo di facciata e a virtù fittizie. Questo metodo può formare, senza dubbio, un ordine di guerrieri o una società di tiranni; ma non creerà mai una nazione di uomini, un popolo di fratelli.

3° Perché un’educazione pubblica diverrebbe contraria all’indipendenza delle opinioni

D’altra parte l’educazione, se la si prende in tutta la sua estensione, non si limita all’istruzione positiva, all’insegnamento delle verità, di fatto e di calcolo, ma abbraccia tutte le opinioni politiche, morali e religiose. Ora, la libertà di queste opinioni sarebbe più che illusoria se la società si impadronisse delle generazioni nascenti per dettar loro ciò che devono credere. Colui che entrando nella società vi porta delle opinioni che la sua educazione gli ha dato non è più un uomo libero; egli è lo schiavo dei suoi maestri,  e le sue catene sono tanto più difficili da spezzare quanto meno egli non le percepisce, credendo di obbedire alla sua ragione mentre nei fatti è sottomesso a quella di un altro. Si dirà forse che non sarebbe più libero se ricevesse le sue opinioni dalla famiglia. Ma in tal caso queste opinioni non sono le stesse per tutti i cittadini; ognuno si rende ben conto che il suo credo non è universale; ne diffida; non ha più ai suoi occhi il carattere di una verità convenuta; e il suo errore, se persiste, non è altro che un errore volontario. L’esperienza ha provato quanto si indebolisce il potere dei primi convincimenti appena si levino contro di essi delle obiezioni: si sa che allora la vanità di rigettarli ha spesso la meglio su quella di non cambiare. E anche se queste opinioni cominciassero ad essere più o meno le stesse in tutte le famiglie, ben presto, a meno che un errore dell’autorità non offrisse loro un motivo di coesione, le si vedrebbe dividersi e ogni pericolo sparirebbe insieme all’uniformità.  D’altra parte, i pregiudizi che si ricevono dall’educazione domestica discendono dall’ordine naturale delle società, e una saggia istruzione, che diffonda i Lumi, ne è il rimedio; mentre i pregiudizi imposti dall’autorità sono una vera e propria tirannia, un attentato contro uno degli aspetti più preziosi della libertà naturale.

Gli antichi non avevano alcuna nozione di questo genere di libertà; sembra perfino che avessero per scopo, nelle loro istituzioni, di annientarla. Essi avrebbero voluto non lasciare altro agli uomini che le idee, i sentimenti che entravano nel sistema del legislatore,  Per loro la natura aveva creato solo delle macchine, di cui la legge doveva regolare i meccanismi e dirigere l’azione. Questo sistema è giustificabile in società nascenti, dove predominavano i pregiudizi e gli errori; mentre poche verità, più supposte che conosciute, indovinate che scoperte, erano distribuite fra alcuni uomini privilegiati obbligati a dissimularle. Si poteva crede allora che fosse necessario fondare su errori la felicità della società, e di conseguenza conservare, mettere al riparo da ogni pericoloso esame le opinioni giudicate opportune ad assicurarla,

Ma oggi, che si riconosce alla verità sola la base di una prosperità duratura, e che il crescere incessante dei Lumi non permette più all’errore di affermarsi perennemente, lo scopo dell’educazione non può essere quello di consacrare le opinioni stabilite ma, al contrario, di sottometterle al libero esame di generazioni successive, sempre più illuminate.

Infine, un’educazione completa si estenderebbe alle opinioni religiose; l’autorità si troverebbe dunque obbligata a stabilire tante educazioni differenti quante religioni antiche o nuove fossero professate nel territorio; oppure a imporre ai cittadini di credenze diverse sia di adottare la stessa per i loro figli, sia di limitarsi a scegliere tra il ristretto numero che si sarebbe convenuto di incoraggiare. Si sa che la maggior parte degli uomini in questo campo seguono le opinioni che hanno ricevuto nell’infanzia, e raramente viene loro l’idea di esaminarle. Se dunque esse fanno parte dell’educazione pubblica, esse cessano di essere la libera scelta dei cittadini e diventano un giogo imposto da un potere illegittimo. In breve, è ugualmente impossibile ammettere o rifiutare l’istruzione religiosa in un’educazione pubblica che escludesse l’educazione domestica, senza ferire la coscienza dei genitori ove costoro considerassero una religione esclusiva come necessaria, o utile alla morale e alla felicità  in una vita ultraterrena. Occorre dunque che l’autorità pubblica si limiti a regolare l’istruzione, abbandonando alle famiglie il resto dell’educazione.

3° Perché un’educazione pubblica diverrebbe contraria all’indipendenza delle opinioni

D’altra parte l’educazione, se la si prende in tutta la sua estensione, non si limiti all’istruzione positiva, all’insegnamento delle verità, di fatto e di calcolo, ma essa abbraccia tutte le opinioni politiche, morali e religiose. Ora, la libertà di queste opinioni non sarebbe più che illusoria se la società si impadronisse delle generazioni nascenti per dettar loro ciò che devono credere. Colui che entrando nella società vi porta delle opinioni che la sua educazione gli ha dato non è più un uomo libero; egli è lo schiavo dei suoi maestri,  e le sue catene sono tanto più difficili da spezzare quanto meno egli non le percepisce, credendo di obbedire alla sua ragione mentre nei fatti è sottomesso a quella di un altro. Si dirà forse che non sarebbe più libero se ricevesse le sue opinioni dalla famiglia. Ma in tal caso queste opinioni non sono le stesse per tutti i cittadini; ognuno si rende ben conto che il suo credo non è universale; ne diffida; non ha più ai suoi occhi il carattere di una verità convenuta; e il suo errore, se persiste, non è altro che un errore volontario. L’esperienza ha provato quanto si indebolisce il potere dei primi convincimenti appena si levino contro di essi delle obiezioni: si sa che allora la vanità di rigettarli ha spesso la meglio su quella di non cambiare. E anche se queste opinioni cominciassero ad essere più o meno le stesse in tutte le famiglie, ben presto, a meno che un errore dell’autorità non offrisse loro un motivo di coesione, le si vedrebbe dividersi e ogni pericolo sparirebbe insieme all’uniformità.  D’altra parte, i pregiudizi che si ricevono dall’educazione domestica discendono dall’ordine naturale delle società, e una saggia istruzione, che diffonda i Lumi, ne è il rimedio; mentre i pregiudizi imposti dall’autorità sono una vera e propria tirannia, un attentato contro uno degli aspetti più preziosi della libertà naturale.

Gli antichi non avevano alcuna nozione di questo genere di libertà; sembra perfino che avessero per scopo, nelle loro istituzioni, di annientarla. Essi avrebbero voluto non lasciare altro agli uomini che le idee, i sentimenti che entravano nel sistema del legislatore,  Per loro la natura aveva creato solo delle macchine, di cui la legge doveva regolare i meccanismi e dirigere l’azione. Questo sistema è giustificabile in società nascenti, dove predominavano i pregiudizi e gli errori; mentre poche verità, più supposte che conosciute, indovinate che scoperte, erano distribuite fra alcuni uomini privilegiati obbligati a dissimularle. Si poteva crede allora che fosse necessario fondare su errori la felicità della società, e di conseguenza conservare, mettere al riparo da ogni pericoloso esame le opinioni giudicate opportune ad assicurarla,

Ma oggi, che si riconosce alla verità sola la base di una prosperità duratura, e che il crescere incessante dei Lumi non permette più all’errore di affermarsi perennemente, lo scopo dell’educazione non può essere quello di consacrare le opinioni stabilite ma, al contrario, di sottometterle al libero esame di generazioni successive, sempre più illuminate.

Infine, un’educazione completa si estenderebbe alle opinioni religiose; l’autorità si troverebbe dunque obbligata a stabilire tante educazioni differenti quante religioni antiche o nuove fossero professate nel territorio; oppure a imporre ai cittadini di credenze diverse sia di adottare la stessa per i loro figli, sia di limitarsi a scegliere tra il ristretto numero che si sarebbe convenuto di incoraggiare. Si sa che la maggior parte degli uomini in questo campo seguono le opinioni che hanno ricevuto nell’infanzia, e raramente viene loro l’idea di esaminarle. Se dunque esse fanno parte dell’educazione pubblica, esse cessano di essere la libera scelta dei cittadini e diventano un giogo imposto da un potere illegittimo. In breve, è ugualmente impossibile ammettere o rifiutare l’istruzione religiosa in un’educazione pubblica che escludesse l’educazione domestica, senza ferire la coscienza dei genitori ove costoro considerassero una religione esclusiva come necessaria, o utile alla morale e alla felicità  in una vita ultraterrena. Occorre dunque che l’autorità pubblica si limiti a regolare l’istruzione, abbandonando alle famiglie il resto dell’educazione.

L’autorità pubblica non ha il diritto di legare l’insegnamento della morale a quello religioso

A questo proposito, la sua azione non deve essere né arbitraria né universale. Abbiamo già visto che le opinioni religiose non devono far parte dell’istruzione comune, poiché, essendo la scelta di una coscienza indipendente, nessuna autorità ha il diritto di preferire una all’altra; ne risulta la necessità di rendere l’insegnamento della morale rigorosamente indipendente da queste opinioni.

Essa non ha il diritto di insegnare opinioni come se fossero delle verità

L’autorità non può nemmeno, su qualunque argomento, arrogarsi il diritto di insegnare opinioni come verità; essa non deve imporre alcun credo. Se alcune opinioni le apparissero come pericolosi errori, non è facendo insegnare le opinioni contrarie che le combatte  o previene; è scartandole dall’istruzione pubblica non con delle leggi ma attraverso la scelta degli insegnanti e dei metodi; è soprattutto fornendo agli spiriti avveduti i mezzi per sottrarsi a questi errori e conoscerne tutto il pericolo.

Il suo dovere è armare contro l’errore, che è sempre un male pubblico, tutta la forza della verità; ma essa non ha il diritto di decidere dove abita la verità o si annida l’errore. Allo stesso modo, la funzione dei ministri della religione è incoraggiare gli uomini ad adempiere i propri doveri; e tuttavia, la pretesa di decidere esclusivamente quali sono questi doveri sarebbe la più pericolosa delle usurpazioni sacerdotali.

Di conseguenza, essa non deve affidare l’insegnamento a corpi insegnanti permanenti

L’autorità pubblica deve dunque soprattutto evitare di affidare l’istruzione a corpi insegnanti che si auto-reclutano. La loro storia è quella degli sforzi che hanno fatto per perpetuare vane opinioni relegate da tempo fra gli errori dagli uomini illuminati; è quella dei loro tentativi di imporre un giogo grazie al quale prolungare la loro influenza o aumentare le loro ricchezze. Che essi appartengano ad ordini monastici, congregazioni o università, oppure a semplici corporazioni, il rischio è lo stesso. L’istruzione che essi daranno sarà sempre mirata non al progresso dei Lumi ma ad aumentare il loro potere; non insegnare la verità ma perpetuare i pregiudizi utili alle loro ambizioni, le opinioni che lusingano la loro vanità. D’altra parte, anche se non fossero gli apostoli travestiti delle opinioni che sono loro utili, le idee insegnate diverrebbero ereditarie; tutte le passioni dell’orgoglio si unirebbero per tramandare il sistema di un capo che li ha governati, di un confratello celebre della cui gloria vorrebbero scioccamente appropriarsi; e nella stessa ricerca della verità si introdurrebbe il più pericoloso nemico, l’abitudine consacrata.

Certo, non c’è più da temere il ritorno a quei grandi errori che colpivano lo spirito umano condannandolo a una lunga sterilità, che asservivano intere nazioni al capriccio di qualche dottore al quale avevano delegato il diritto di pensare per esse. Ma quanti sono ancora i piccoli pregiudizi attraverso i quali tali corpi potrebbero intralciare o sospendere il progresso della verità? Abili a perseguire con infaticabile tenacia i loro sistemi di dominio, essi potrebbero ritardare questo progresso abbastanza per darsi il tempo di ribadire le catene che ci destinano, prima che il loro peso ci avverta di spezzarle. Chissà se il resto della nazione, tradita da questi educatori e dall’autorità che li avesse protetti, sarebbe in grado di svelare i loro piani abbastanza per tempo da prevenirli? Create dei copi insegnanti, e sarete sicuri di aver creato dei tiranni o degli strumenti di tirannia.

L’autorità pubblica non può imporre un corpo di dottrine  da insegnare esclusivamente

Senza dubbio è impossibile evitare che nelle verità  oggetto dell’istruzione si mescolino delle opinioni. Se le verità matematiche non sono soggette a essere confuse con l’errore, la scelta delle dimostrazioni e dei metodi deve variare secondo i loro progressi, secondo il numero e la natura delle loro comuni applicazioni. Se quindi in questo campo, e solo in questo, il perpetuarsi dei corpi insegnanti non conduce all’errore, esso impedisce tuttavia ogni possibilità di perfezionamento. Nelle scienza naturali i fatti sono costanti. Ma questi, al di là dell’uniformità, manifestano rapidamente differenze, modifiche che un esame più specifico o molteplici osservazioni fanno scoprire; altre, considerate in un primo tempo come generali, cessano di esserlo perché il tempo o più accurate ricerche ne dimostrano l’eccezione. Nelle scienze morali e politiche i fatti non sono altrettanto costanti, o almeno tali non appiano a coloro che li osservano. Più gli interessi, i pregiudizi, le passioni sono d’ostacolo alla verità, meno ci si deve illudere di averla trovata; e ci sarebbe ancor più presunzione a volere imporre agli altri opinioni ritenute verità.  E’ soprattutto in queste scienze che tra le verità riconosciute e quelle che sono sfuggite alle nostre ricerche esiste un immenso spazio che solo l’opinione può riempire.  Se in questo spazio gli spiriti superiori hanno collocato verità grazie alle quali si muovono con passo sicuro, potendo perfino lanciarsi oltre i limiti, per il resto degli uomini queste stesse verità si confondono ancora con le opinioni, e nessuno ha diritto di distinguere per conto degli altri, e dire: Ecco ciò che vi ordino di credere, e che non posso provarvi.

Le verità appoggiate da prove certe e generalmente riconosciute sono le sole che si debbono considerare immutabili, e non si può non essere desolati nel costatare quante poche sono. Quelle che si credono universalmente riconosciute, contro le quali non si supporrebbe che possano levarsi contestazioni, devono spesso questo vantaggio al caso che non ha fatto volgere verso di esse l’attenzione dei più. Le si consegni alla discussione, e presto si vedrà nascere l’incertezza, e l’opinione condivisa oscillerà a lungo nel dubbio.

E tuttavia, poiché sono queste le scienze che maggiormente influenzano la felicità degli uomini, è tanto più importante che l’autorità si astenga dal dettare la dottrina comune del momento come verità eterna, per il rischio che essa non faccia dell’istruzione un mezzo di consacrazione dei pregiudizi che le sono utili, e uno strumento di potere di ciò che dev’essere invece la più sicura barriera contro ogni potere ingiusto.

L’autorità pubblica deve tanto più guardarsi dall’ esprimere le proprie opinioni come base dell’istruzione, in quanto non si può considerare all’altezza dei Lumi del secolo in cui essa si esercita

I detentori dell’autorità pubblica si troveranno sempre a una distanza più o meno grande dal punto dove sono arrivati gli spiriti destinati ad aumentare la massa dei Lumi. Benché spiriti geniali possano sedere fra coloro che esercitano il potere, essi non potrebbero mai avere ogni momento la preminenza che consenta loro di tradurre in pratica i risultati delle loro riflessioni. Questa fiducia in una ragione profonda di cui non si può tenere il passo, questa sottomissione volontaria al talento, questo omaggio alla reputazione costano troppo all’amor proprio perché divengano, se non nel lungo periodo, sentimenti abituali e non una sorta di d’obbedienza forzata da circostanze imperiose, caratteristiche dei tempi di pericolo e disordine. D’altronde, ciò che in ogni epoca segna la vera frontiera dei Lumi non è la ragione particolare del tale uomo di genio, che può avere lui pure pregiudizi personali, ma la ragione comune degli uomini illuminati; ed è necessario che l’istruzione si avvicini a questa frontiera più di quanto l’autorità pubblica possa fare. Poiché l’oggetto dell’istruzione non è di perpetuare le conoscenze divenute generali in una nazione, ma di perfezionarle ed estenderle.

Che succederebbe se l’autorità pubblica, invece di seguire, seppure da lontano, il progresso dei Lumi, fosse essa stessa schiava di pregiudizi? Se, per esempio, invece di riconoscere la separazione assoluta tra potere politico che regola le azioni e autorità religiosa che regola le coscienze, essa prostituisse la maestà delle leggi ai principi bigotti di una setta oscura, pericolosa per fanatismo e votata al ridicolo da sessant’anni di convulsioni? Che succederebbe se, sottomessa all’influenza dello spirito mercantile, essa usasse le leggi per favorire i progetti dell’avidità e la routine dell’ignoranza; o se, docile alla voce di qualche zelante seguace di dottrine occulte, essa ordinasse di preferire l’illusione dell’illuminazione interiore ai Lumi della ragione? Che succederebbe se, confusa da trafficanti avari che si credono in diritto di vendere o acquistare degli uomini purché questo commercio rapporti un percento in più; ingannata da barbari proprietari terrieri che non tengono in alcun conto il sangue e le lacrime dei loro fratelli se ciò può essere convertito in oro, e dominata da vili ipocriti, essa consacrasse con vergognosa contraddizione la violazione più aperta dei diritti che essa stessa ha stabilito? Che diverrebbe l’istruzione in una nazione dove il diritto pubblico e l’economia politica mutassero con l’opinione dei legislatori; dove non si permetterebbe di stabilire verità che condannassero la loro condotta; dove, non contenti di ingannare e opprimere i loro contemporanei, i legislatori estendessero le loro catene sulle generazioni successive, condannandole all’eterna vergogna di condividere o la loro corruzione o i loro pregiudizi?

Dovere e diritto dell’autorità pubblica, dunque,  è limitarsi a stabilire l’oggetto dell’istruzione e ad assicurarne il compimento

L’autorità pubblica, dopo aver fissato l’oggetto e l’estensione di ogni istruzione, deve dunque assicurarsi che per ogni epoca la scelta degli insegnanti e dei libri o dei metodi sia in sintonia con la ragione degli uomini illuminati, abbandonando tutto il resto alla loro influenza.

La costituzione di ogni paese non deve far parte dell’istruzione altro che come un fatto

Si è detto che l’insegnamento della costituzione di ogni paese debba far parte dell’istruzione nazionale. Ciò è vero, senza dubbio, se se ne parla come di un fatto; se ci si accontenta di spiegarla e svilupparla; se, insegnandola, ci si limita a dire: Tale è la costituzione dello Stato alla quale tutti i cittadini devono sottomissione. Ma se si intende insegnarla come una dottrina conforme ai principi della ragione universale, o manifestare verso di essa un cieco entusiasmo che rende i cittadini incapaci di giudicarla; se si dice loro: Ecco che voi dovete adorare e credere – allora si vuole creare una sorta di religione politica; si prepara una catena per gli spiriti violando la libertà nei diritti più sacri con il pretesto di insegnare ad amarla. Scopo dell’istruzione non è quello di fare ammirare agli uomini una legislazione confezionata, ma di renderli capaci di  apprezzarla e correggerla. Non si tratta di sottomettere ogni generazione alle opinioni e alla volontà di quella precedente, ma di illuminarle sempre di più, in modo che ognuna divenga sempre più degna di essere governata dalla propria ragione.

E’ possibile che la costituzione di un paese racchiuda leggi assolutamente contrarie al buon senso e alla giustizia, leggi sfuggite ai legislatori in momenti di disordine,  strappate loro dall’influenza di un oratore o di un partito, sotto la spinta di un malumore popolare; o che siano state ispirate loro alcune dalla corruzione, altre sotto la falsa apparenza di un’utilità locale e passeggera: può succedere, e succederà perfino spesso, che promulgando queste leggi, i loro autori non abbiano avvertito in che esse contrariavano i principi della ragione, o che non volessero abbandonare tali principi ma solamente sospenderne per un momento l’applicazione. Sarebbe dunque assurdo insegnare le leggi in vigore altrimenti che come volontà attuale dell’autorità pubblica alla quale ci si deve sottomettere, per non incorrere nel ridicolo di insegnare, come veri, principi contraddittori.

Queste riflessioni devono applicarsi anche all’istruzione destinata agli adulti

Ciò che abbiamo detto di questa istruzione destinata ai primi anni, si applica ugualmente a quella che abbraccia il resto della vita. Essa non deve avere l’oggetto di propagare tale o tal’altra opinione, di radicare negli spiriti principi utili a determinati punti di vista; ma di istruire gli uomini dei fatti che importa loro conoscere, di mettere sotto i loro occhi le discussioni che interessano i diritti e la felicità, offrendo loro gli strumenti necessari perché possano decidere autonomamente.

Senza dubbio, coloro che esercitano l’autorità pubblica devono spiegare ai cittadini i motivi delle leggi alle quali si sottomettono. Bisogna dunque guardarsi dal bandire queste spiegazioni, queste esposizioni di motivi o intenzioni che sono un omaggio a coloro presso i quali risiede il vero potere, e di cui i legislatori non ne sono che gli interpreti. Ma al di là delle spiegazioni necessarie por comprendere la legge ed eseguirla, occorre considerare questi preamboli o commenti presentati in nome del legislatore non tanto come un’istruzione, quanto come un resoconto dei depositari del potere del popolo, dal quale l’hanno ricevuto; e soprattutto bisogna ben guardarsi dal credere che tali spiegazioni siano sufficienti per adempiere i loro impegni nei confronti dell’istruzione pubblica. Essi non devono limitarsi a non ostacolare i Lumi che potessero condurre i cittadini a verità contrarie alle loro personali opinioni; occorre che abbiano la generosità, o piuttosto l’equanimità di prepararsi essi stessi a questi Lumi.

Nei governi arbitrari, si ha cura di dirigere l’insegnamento in modo che induca a un’obbedienza cieca verso il potere costituito, sorvegliando in seguito l’impressione e perfino i discorsi, affinché i cittadini non apprendano altro che non sia la conferma di quanto i loro insegnanti vogliono ispirare loro. In una costituzione libera, benché il potere sia in mano a uomini scelti dai cittadini e rinnovati frequentemente, al punto che questo potere sembra coincidere con la volontà generale e l’opinione comune, esso non deve imporre come regola per gli spiriti le leggi che hanno sovranità sulle sole azioni; altrimenti si incatenerebbe esso stesso, e obbedirebbe durante secoli agli errori che avesse stabilito una prima volta. Che l’esempio dell’Inghilterra sia dunque una lezione per gli altri popoli: un rispetto superstizioso per la costituzione e per certe leggi alle quali si è creduto di attribuire la prosperità nazionale, un culto servile a qualche massima consacrata all’interesse delle classi ricche e potenti, sono parte dell’educazione, mantenuti da tutti coloro che aspirano alla fortuna e al potere e divenuti una sorta di religione politica che rende pressoché impossibile ogni progresso verso il perfezionamento della costituzione e delle leggi.

Questa opinione e contraria a quella di pretesi filosofi, i quali considerano che le verità stesse non siano per il popolo altro che pregiudizi; essi propongono di impadronirsi dei primi momenti dell’uomo per imprimervi immagini che il tempo non possa distruggere, attaccandolo alla legge, alla costituzione del suo paese con un sentimento cieco, e condurlo alla ragione che attraverso il fascino dell’immaginazione e i turbamenti delle passioni. Ma io domando a costoro: come possono essere certi che ciò in cui credono è o sarà sempre la verità? Da chi hanno ricevuto il diritto di giudicare dove essa si trova? In virtù di quale prerogativa godono di questa infallibilità che sola può consentire di dare la propria opinione come regola allo spirito di un altro? Sono essi più sicuri delle verità politiche di quanto i fanatici di ogni setta credono esserlo delle loro chimere religiose? Tuttavia il diritto è lo stesso, il motivo è simile; permettere di confondere gli uomini anziché illuminarli , sedurli per la verità dandogliela come un pregiudizio, vuol dire autorizzare, consacrare tutte le follie dell’entusiasmo, tutte le astuzie del proselitismo.

L’istruzione dev’essere la stessa per le donne e per gli uomini

Abbiamo provato che l’educazione pubblica si deve limitare all’istruzione; abbiamo dimostrato che occorre suddividerla in diversi livelli. Allo stesso modo, nulla può impedire che sia la stessa per uomini e donne. In effetti,  poiché ogni istruzione si limita a esporre delle verità, a svilupparne le prove, non si vede come la differenza dei sessi ne dovrebbe comportare un’altra nella scelta di queste verità o nel modo di provarle.  Se il sistema completo dell’istruzione comune, quella che ha per scopo di insegnare agli individui ciò che è loro necessario di sapere per godere dei loro diritti e per compiere i propri doveri, sembrasse troppo esteso per le donne, che non sono chiamate ad alcuna funzione pubblica, ci si può limitare a far loro percorrere i primi livelli, tuttavia senza vietare i successivi a quelle che avessero migliori predisposizioni  tali che le loro famiglie volessero far loro coltivare. Se si trattasse di qualche professione esclusivamente riservata agli uomini, le donne non sarebbero ammesse all’istruzione particolare che essa esige; ma sarebbe assurdo escluderle  diversamente.

Esse non devono essere escluse dall’istruzione delle scienze, perché possono rendersi utili al loro progresso sia facendo delle osservazioni, sia componendo libri elementari

Quanto alle scienze, perché sarebbero loro vietate? Benché non possano contribuire al loro progresso con delle scoperte (ciò che d’altra parte non può essere vero che in relazione alle scoperte di prim’ordine che esigono una lunga riflessione e una forza mentale straordinaria), perché le donne, la cui vita non deve essere occupata dall’esercizio di una professione lucrativa, né può esserlo interamente da occupazioni domestiche, non dovrebbero lavorare utilmente alla crescita dei Lumi, occupandosi di quelle osservazioni che richiedono un’esattezza minuziosa, una grande pazienza, una via sedentaria e regolata? Forse esse sarebbero perfino più adatte che gli uomini a dare ai libri elementari metodo e chiarezza, meglio disposte dalla loro amabile flessibilità a proporzionarsi allo spirito dei fanciulli che esse osservano da un’età meno avanzata e di cui hanno seguito lo sviluppo con un interesse più tenero. Ora, un libro elementare non può essere ben fatto che da chi ha imparato molto al di là di ciò che racchiude; si spiega male ciò che si sa, quando si è bloccati ogni momento dai limiti delle proprie conoscenze.

VI. E’ necessario che le donne condividano l’istruzione data agli uomini

1° Affinché esse possano sorvegliare quella dei loro figli

L’istruzione pubblica, per esser degna di questo nome, deve estendersi alla generalità dei cittadini, ed è impossibile che i fanciulli ne approfittino se, limitandosi alle lezioni che ricevono da un maestro comune, non hanno un istitutore domestico che possa vegliare sui loro studi nell’intervallo delle lezioni, li prepari a riceverle, ne faciliti loro la comprensione, supplendo infine a ciò che un momento di assenza o distrazione ha potuto far perdere loro. Ebbene, da chi i figli dei cittadini poveri potrebbero ricevere questi aiuti se non dalle loro madri, che votate alla cura delle loro famiglie, o dedite a lavori sedentari, sembrano chiamate a occuparsi di questo dovere: mentre agli uomini,  quasi sempre occupati fuori casa, ciò non sarebbe possibile? Sarebbe perciò impraticabile stabilire nell’istruzione questa uguaglianza necessaria a mantenere i diritti degli uomini, e senza la quale non si potrebbe impiegarvi legittimamente né i proventi di proprietà nazionali ne una parte dei frutti di contributi politici, se – facendo percorrere alle donne almeno i primi livelli dell’istruzione comune, non le si mettesse in condizione di sorvegliare quella dei loro figli.

2° Perché il difetto d’istruzione nelle donne introdurrebbe nella famiglia una diseguaglianza contraria alla felicità

D’altra parte non la si potrebbe stabilire per i soli uomini senza introdurre un’ineguaglianza considerevole, non solamente tre marito e moglie, ma tra fratello e sorella e perfino tra madre e figlio. Nulla sarebbe più contrario alla purezza e alla felicità delle tradizioni domestiche. L’uguaglianza è ovunque, ma soprattutto nella famiglia, il primo elemento della felicità, della pace e delle virtù. Quale autorità potrebbe avere la tenerezza materna, se l’ignoranza esponesse le madri a divenire per i loro figli oggetto di ridicolo e disprezzo? Si dirà forse che esagero questo pericolo; che attualmente si danno ai giovani delle conoscenze che non solamente le loro madri, ma perfino i loro padri non hanno, senza che gli inconvenienti che ne derivano siano particolarmente spiacevoli. Ma bisogna osservare innanzi tutto che la maggior parte delle conoscenze, considerate come inutili dai genitori, e spesso dagli stessi figli, non conferiscono a questi  alcuna superiorità  ai loro occhi; e sono le conoscenze realmente utili quelle che oggi è importante insegnare. D’altronde, si tratta di un’educazione generale, e gli inconveniente di questa superiorità sarebbero ben più considerevoli che in un’educazione riservata a classi dove la cortesia dei costumi e il vantaggio che dà ai genitori il godimento della loro fortuna, impediscono ai fanciulli di inorgoglirsi troppo della loro nascente scienza. Coloro invece che hanno potuto osservare i giovani delle famiglie povere ai quali il caso ha procurato un’educazione superiore, comprenderanno facilmente quanto questo timore sia fondato.

3° Perché è un modo di fare conservare agli uomini le conoscenze acquisite in gioventù

Aggiungerò ancora che gli uomini che avranno approfittato dell’istruzione pubblica ne conserveranno più facilmente i vantaggi se troveranno nelle loro donne un’istruzione pressoché uguale; se possono condividere le letture che alimentano la loro conoscenza; se nell’intervallo che separa la loro infanzia dalla loro sistemazione l’istruzione che questo periodo prevede non è estranea alle persone verso le quali li spinge un’inclinazione naturale.

4° Perché le donne hanno lo stesso diritto degli uomini all’istruzione pubblica

Infine, le donne hanno gli stessi diritti degli uomini; esse hanno dunque quello di ottenere le stesse agevolazioni per acquisire i Lumi che solo possono dare loro gli strumenti per esercitare realmente questi diritti, con pari indipendenza ed estensione.

L’istruzione dev’essere comune, e le donne non devono essere escluse dall’insegnamento

Poiché l’istruzione dev’essere in generale la stessa, l’insegnamento dev’essere comune e affidato a un’insegnante scelto indifferentemente nell’uno o nell’altro sesso.

In Italia talvolta è stato affidato loro l’incarico, e con successo

Diverse donne hanno occupato cattedre nelle più celebri università italiane e hanno soddisfatto con gloria la funzione di professore nelle scienze più alte, senza inconveniente alcuno né il minimo reclamo, perfino senza alcuna facezia, nonostante che il paese non sia un esempio di mancanza di pregiudizi e dove non regnano né la semplicità nè la sobrietà dei costumi.

Necessità di questa comunione, per la facilità e l’economia dell’istruzione

La riunione dei fanciulli dei due sessi in una stessa scuola è pressoché indispensabile per la prima educazione; sarebbe difficile stabilirne due in ogni villaggio, e trovare, soprattutto all’inizio, abbastanza maestri se ci si limitava a scegliergli fra un solo sesso.

Essa è utile ai costumi, non pericolosa

D’altra parte questa riunione, sempre pubblica e sotto gli occhi dei maestri, lungi dall’essere pericolosa per i costumi  sarebbe piuttosto un rimedio contro quelle diverse specie di corruzione di cui la separazione dei due sessi verso la fine dell’infanzia o nei primi anni dell’adolescenza è la causa principale. A quell’età, i sensi smarriscono l’immaginazione e troppo spesso la smarriscono senza rimedio se una dolce speranza non la mantiene su obiettivi più legittimi. Queste abitudini, avvilenti o pericolose, sono quasi sempre gli errori di una giovinezza ingannata nei suoi desideri, condannata alla corruzione dalla noia, che spegne in falsi piaceri una sensibilità tormentata nella sua schiavitù triste e solitaria.

Non bisogna stabilire separazioni che sarebbero effettive solo per le classi ricche

In una costituzione uguale e libera, non si tratta di stabilire una separazione che sarebbe puramente illusoria per la maggior parte delle famiglie. Essa non può mai essere effettiva al di fuori delle scuole, né per i contadini, né per la parte meno ricca degli abitanti di città: per cui la riunione nelle scuole non farebbe che diminuire gli inconvenienti della promiscuità che per queste classi non può essere evitata nella vita ordinaria, dove tuttavia essa non è esposta agli sguardi di testimoni della stessa età né è soggetta alla vigilanza di un maestro. Russeau, che attribuiva alla purezza un’importanza forse esagerata, voleva – per il bene di questa stessa purezza – che i due sessi si mescolassero nei loro svaghi. Si avrebbe maggior pericolo a riunirli per attività più serie?

La separazione dei sessi ha come principale causa l’avarizia e l’orgoglio

Non ci si inganni; non è all’intransigenza della morale religiosa, a questa astuzia inventata dalla politica sacerdotale per dominare gli spiriti; non è solo a questa intransigenza che bisogna attribuire l’origine delle idee di separazione rigorosa; l’orgoglio e l’avarizia ne sono almeno altrettanto responsabili, ed è a questi vizi che l’ipocrisia dei moralisti ha voluto rendere un interessato omaggio. La globalità di queste austere opinioni si deve, da una parte, al timore di alleanze disuguali, dall’altra al timore del rifiuto di consacrare legami fondati su rapporti personali. Lungi dal favorirle, nel paese in cui si vuole che le leggi seguano la natura, obbediscano alla ragione, si conformino alla giustizia,  occorre combatterle. Nelle istituzione di una nazione libera, tutto deve tendere all’uguaglianza, non solo perché essa è un diritto dell’uomo, ma ordine e  pace la richiedono imperiosamente. Una costituzione che stabilisce l’eguaglianza politica non sarà mai duratura o pacifica se la si mescola con istituzioni che mantengono pregiudizi favorevoli all’ineguaglianza.

Sarebbe pericolo mantenere lo spirito d’ineguaglianza nelle donne, perché impedirebbe di sopprimerlo negli uomini.

Il pericolo sarebbe tanto più grande se, mentre da una parte  un’educazione comune abituasse i fanciulli di uno stesso sesso a considerarsi uguali,  abbandonasse quelli dell’altro a un’educazione solitaria e domestica nell’impossibilità di stabilirne una analoga per loro; lo spirito d’ineguaglianza che si verrebbe a creare in un sesso si propagherebbe ben presto su entrambi, risultandone ciò che abbiamo visto succedere fin qui dell’uguaglianza nei nostri collegi, che sparirebbe per sempre nel momento stesso in cui lo scolaro si crede diventato adulto.

La riunione dei due sessi nelle stesse scuole favorisce un’emulazione basata su sentimenti di benevolenza, non i sentimenti personali alla base dell’emulazione dei collegi

Qualcuno potrebbe temere che l’istruzione necessariamente prolungata al di là dell’infanzia sia seguita troppo distrattamente da giovani richiamati da interessi più vivi e toccanti; ma questo timore è poco fondato. Se queste distrazioni sono un male, esso sarà più che compensato dall’emulazione  ispirata dal desiderio di meritare la stima della persona amata, o ottenere quella della sua famiglia. Una tale emulazione sarebbe più utile di quella che si basa sull’amore per la gloria o piuttosto sull’orgoglio; poiché il vero amore per la gloria non è una passione da fanciulli né un sentimento diffuso fra la specie umana. Cercare di ispirarlo a uomini mediocri ( e uomini mediocri possono nonostante tutto ottenere primi premi nella loro classe)  vuol dire condannarli all’invidia. Questo genere d’emulazione, inducendo passioni astiose, inspirando ai fanciulli ridicoli sentimenti d’importanza personale, produce più danno di quanto possa produrre in bene aumentando l’attività degli spiriti.

La vita umana non è una lotta dove dei rivali si disputano i premi; è un viaggio che dei fratelli compiono insieme, dove ciascuno, usando le proprie forze per il bene di tutti, è ricompensato dalla dolcezza di una benevolenza reciproca, dalla soddisfazione del sentimento di aver meritato riconoscenza e stima. Un’emulazione che avesse per principio il desiderio di essere amato, o quello di essere per qualità assolute, non per superiorità sugli altri, potrebbe divenire molto potente; essa avrebbe il vantaggio di sviluppare e irrobustire quei sentimenti dei quali è utili avere l’abitudine; mentre le corone dei nostri collegi, sotto le quali uno scolaro si sente già grand’uomo, non fanno nascere che una vanità puerile da cui una saggi istruzione ci dovrebbe preservare, se non fosse che il germe si trova nella natura e non nelle nostre maldestre istituzioni. L’abitudine a voler essere il primo è una ridicolaggine o una disgrazia per coloro che ne sono contagiati, e una vera calamità per coloro che il destino condanna a viverci accanto. Il bisogno di meritare la stima conduce, al contrario, a quella pace interiore che sola consente la felicità e la virtù agevole.

Conclusione

Generosi amici dell’uguaglianza, della libertà, unitevi per ottenere dall’autorità pubblica un’istruzione che renda la ragione popolare, o temete di perdere presto ogni frutto dei vostri nobili sforzi. Non crediate che le migliori leggi possano fare dell’ignorate l’uguale dell’uomo abile, e libero colui che è schiavo dei pregiudizi. Più esse rispetteranno i diritti dell’indipendenza personale e dell’uguaglianza naturale, più agevoleranno la tirannia che l’astuzia esercita sull’ignoranza, rendendola insieme strumento e vittima. Se le leggi hanno distrutto tutti i poteri ingiusti, presto essa ne saprà creare di più pericolosi. Supponete, per esempio, che nella capitale di un paese sottomesso a una libera costituzione, un gruppo di audaci ipocriti sia riuscito a formare un’associazione di complici e imbroglioni; che in altre 500 città, piccole associazioni ne ricavino da questa le opinioni, la volontà e i fini,  e che esse operino su un popolo la cui mancanza d’istruzione assoggetta ai fantasmi del timore, alle trappole della calunnia; non è evidente che una tale associazione riunirà rapidamente sotto le sue bandiere sia la mediocrità ambiziosa, sia i talenti senza onore? che essa avrà come docili satelliti questa folla di uomini, senz’altro esercizio che quello dei loro vizi, condannati dal disprezzo pubblico all’obbrobrio e alla miseria? che in breve, infine, impadronendosi di tutti i poteri, governando il popolo con la seduzione e gli uomini pubblici con il terrore, essa eserciterà sotto la maschera della libertà la più vergognosa delle tirannie? Con quali mezzi le vostre leggi, che rispettano i diritti dell’uomo, potranno prevenire una simile cospirazione? Non sapete dunque quanto, per condurre un popolo senza Lumi, gli strumenti della gente onesta sono deboli e limitati rispetto ai colpevoli artifizi dell’audacia e dell’impostura? Certo, basterebbe strappare ai capi la loro perfida maschera; ma siete in grado di farlo? Voi confidate nella forza della verità; ma essa non è onnipotente che sugli spiriti abituati a riconoscerne e amarne i nobili accenti.

Altrove non vedete forse la corruzione scivolare dentro le leggi più sagge e incancrenirne i meccanismi? Avete riservato al popolo il diritto di eleggere; ma la corruzione, preceduta dalla calunnia, gli presenterà la propria lista e ne guiderà le scelte. Avete rimosso dai giudizi la parzialità e l’interesse; la corruzione saprà ritornarli alla credulità, che sa già di poter sedurre. Le istituzioni più giuste, più pure, non sono, per la corruzione, che strumenti più difficili a da maneggiare, ma più sicuri e potenti. Ora, tutto il suo potere non è forse fondato sull’ignoranza? Che farebbe,  se la ragione di un popolo, una volta formata, potesse difenderlo contro i ciarlatani pagati per ingannarlo; se l’errore non potesse più indurre un gregge docile e stupido di proseliti  a seguire la voce di un abile gaglioffo; se il velo steso dai pregiudizi su tutte le verità venisse sollevato? Chi acquisterebbe dagli imbroglioni se essi non trovassero più degli sciocchi? Che il popolo sappia distinguere la voce della ragione da quella della corruzione, e presto vedrà cadere ai suoi piedi le catene che essa gli aveva preparato; altrimenti sarà esso stesso a presentare le proprie mani smarrite, e offrirà con voce sommessa di  pagare i seduttori che lo stanno consegnando ai tiranni. E’ con la diffusione dei Lumi che, riducendo la corruzione a una vergognosa impotenza, voi farete nascere quelle virtù pubbliche che sole possono garantire e onorare il regno eterno di una pacifica libertà.

Second mémoire

De l’instruction commune pour les enfants

Je vais maintenant tracer le plan d’une instruction commune, telle que je la conçois, et je développerai les principes qui y servent de base, à mesure qu’ils me deviendront nécessaires pour en motiver les diverses dispositions.

I. Premier degré d’instruction commune

Distribution des écoles

Le premier degré d’instruction commune a pour objet de mettre la généralité des habitants d’un pays en état de connaître leurs droits et leurs devoirs, afin de pouvoir exercer les uns et remplir les autres, sans être obligés de recourir à une raison étrangère. Il faut de plus que ce premier degré suffise pour les rendre capables des fonctions publi-ques auxquelles il est utile que tous les citoyens puissent être appelés, et qui doivent être exercées dans les dernières divisions territoriales. En effet, le petit nombre de leurs habitants ne permettrait pas d’y choisir (p. 55) ou même d’y trouver des sujets à qui on pût confier ces fonctions sans péril, si l’instruction qu’elles exigent ne s’étendait pas sur tous les citoyens.
Dans la constitution française, les fonctions de juré, d’électeur, de membre de conseils généraux, doivent être rangées dans la première classe, et celles d’officier municipal, de juge de paix, dans la seconde.
Il faut donc établir, dans chaque village, une école publique, diri-gée par un maître.
Dans les villes ou dans les villages d’une population nombreuse, on aurait plusieurs maîtres, dont le nombre se réglerait sur celui des élè-ves de l’un et de l’autre sexe. On ne pourrait passer deux cents enfants pour chaque maître ; ce qui répond à une population d’environ deux mille quatre cents personnes.
Durée du cours d’instruction.
je propose que cette instruction dure quatre ans. En effet, on peut prendre neuf ans pour le terme moyen ou elle commencerait ; elle conduirait les enfants à treize, âge avant lequel n’étant pas encore d’une grande. utilité à leurs familles, les plus pauvres peuvent, sans se gêner, leur faire consacrer par jour quelques heures à l’étude. Il n’en résulterait même aucun embarras pour ceux qu’on voudrait mettre en apprentissage ; il ne commence guère sérieusement avant cette épo-que ; d’ailleurs, on disposerait l’instruction de manière qu’il fût compa-tible avec l’assiduité aux écoles, et elle ne peut que rendre les appren-tis plus intelligents et plus appliqués.
Les deux autres degrés d’instruction durant aussi chacun le même nombre d’années conduiraient naturellement les enfants à l’âge de vingt et un ans, terme marqué en France pour l’inscription civique, et qui, vu l’état actuel des lumières, deviendra bientôt, suivant toute ap-parence, l’époque commune de la majorité dans tous les pays (p. 56.)

Distribution des élèves

S’il n’y avait qu’une école dans le même lieu, les élèves seraient partagés en quatre classes, et il suffirait que chacune reçût une leçon par jour.
La moitié de la leçon serait donnée par le maître, et l’autre moitié par un élève des premières classes, chargé de cette fonction.
De très faibles appointements suffiraient pour ce répétiteur, qu’on propose de prendre parmi les élèves de la classe la plus avancée, et non parmi ceux qui ont déjà terminé cette partie de leurs études. En effet, ceux-ci, dont on ne pourrait exiger beaucoup de lumières, for-meraient bientôt un second ordre de maîtres qui auraient la prétention de succéder à celui qu’ils suppléent, et ils y parviendraient à force de complaisances et d’intrigues.
Ainsi, deux salles voisines, sans se communiquer, suffiraient à chaque école ; et le maître passant facilement de l’une à l’autre, pour-rait, à l’aide de l’élève chargé de le seconder, maintenir l’ordre dans toutes deux, et n’abandonner à son second que des soins qui ne se-raient pas au-dessus de sa portée.
Dans les endroits où il y aurait deux maîtres, chacun d’eux pourrait enseigner deux classes, dont il suivrait les élèves depuis la première jusqu’à la quatrième année ; en sorte que l’un d’eux aurait d’abord, par exemple, ceux de la première année et de la seconde, et l’autre ceux de la troisième et de la quatrième. L’année suivante, le premier, conser-vant ses élèves, aurait ceux de la seconde et de la troisième année, et le second ceux de la quatrième et de la première ; et ainsi de suite. Alors, en faisant deux leçons par jour, une aux écoliers de chaque an-née, ils n’auraient pas besoin du secours d’un élève.
Il y a de l’avantage à suivre cette distribution : 1° les élèves ne changent point de maître, ce qui est un grand bien pour leur instruc-tion comme pour leur caractère ; 2° il faut que chaque maître soit en état d’enseigner la totalité du cours, ce qui empêche de confier les premiers éléments à des hommes d’une ignorance trop absolue.

II. Études de la première année
1° Lecture et écriture

Dans la première année, on enseignerait à lire et à écrire. En pre-nant un caractère d’impression qui représenterait une écriture facile, on pourrait enseigner à la fois l’une et l’autre de ces connaissances, ce qui épargnerait aux enfants du temps et de l’ennui. L’action d’imiter les lettres à mesure qu’on leur apprendrait à les connaître, les amuserait, et ils en retiendraient les formes plus aisément. D’ailleurs, dans la mé-thode actuelle, on est obligé d’apprendre séparément à lire l’impres-sion et l’écriture.

2° Connaissances élémentaires contenues dans le livre de lecture. Explication des mots donnée par le maître

Au lieu de remplir les livres dans lesquels on apprend à lire de choses absolument inintelligibles pour les enfants, ou même écrites dans une langue étrangère, comme la coutume en a été introduite dans les pays de la communion romaine, par la superstition, toujours fé-conde en moyens d’abrutir les esprits, on emploierait à cet usage des livres dans lesquels on renfermerait une instruction appropriée aux premiers moments de l’éducation.
Il est impossible de s’entendre en lisant les phrases même les plus simples, si l’on n’est pas en état d’en pouvoir lire couramment les mots isolés ; autrement l’attention est absorbée par celle dont on a besoin pour reconnaître les lettres ou les syllabes. La première partie de ce livre doit donc contenir une suite de mots qui ne forment pas un sens suivi. On choisirait ceux qu’un enfant peut entendre, et dont il est inu-tile de lui donner une intelligence plus précise. À la suite de ces mots, on placerait un très petit nombre de phrases extrêmement simples, dont il pourrait également comprendre le sens, et qui exprimeraient quelques-uns des jugements qu’il a pu porter, ou quelques-unes des observations qu’il a pu faire sur les objets qui se présentent habituel-lement à lui ; de manière qu’il y reconnût l’expression de ses propres idées. L’explication de ces mots, donnée à mesure que les enfants ap-prendraient à les lire et à les écrire, deviendrait pour eux un exercice amusant, une espèce de jeu dans lequel se développerait leur émula-tion naissante, au sein d’une gaieté qui défendrait au triste orgueil d’approcher de ces âmes encore pures et naïves.
Histoires destinées à réveiller les premiers sentiments moraux.
Une seconde partie renfermerait de courtes histoires morales, pro-pres à fixer leur attention sur les premiers sentiments que, suivant l’or-dre de la nature, ils doivent éprouver. On aurait soin d’en écarter toute maxime, toute réflexion, parce qu’il ne s’agit point encore de leur don-ner des principes de conduite ou de leur enseigner des vérités, mais de les disposer à réfléchir sur leurs sentiments, et de les préparer aux idées morales qui doivent naître un jour de ces réflexions.
Les premiers sentiments auxquels il faut exercer l’âme des enfants, et sur lesquels il est utile de l’arrêter, sont la pitié pour l’homme et pour les animaux, une affection habituelle pour ceux qui nous ont fait du bien, et dont les actions nous en montrent le désir ; affection qui produit la tendresse filiale et l’amitié. Ces sentiments sont de tous les âges ; ils sont fondés sur des motifs simples et voisins de nos sensa-tions immédiates de plaisir ou de peine ; ils existent dans notre âme aussitôt que nous pouvons avoir l’idée distincte d’un individu, et nous n’avons besoin que d’en être avertis pour apprendre à les apercevoir, à les reconnaître, à les distinguer.
La pitié pour les animaux a le même principe que la pitié pour les hommes. L’une et l’autre naissent de cette douleur irréfléchie et pres-que organique, produite en nous par la vue ou par le souvenir des souffrances d’un autre être sensible. Si on habitue un enfant à voir souffrir des animaux avec indifférence ou même avec plaisir, on af-faiblit, on détruit en lui, même à l’égard des hommes, le germe de la sensibilité naturelle, premier principe actif de toute moralité comme (p. 59) de toute vertu, et sans lequel elle n’est plus qu’un calcul d’intérêt, qu’une froide combinaison de la raison. Gardons-nous donc d’étouffer ce sentiment dans sa naissance ; conservons-le comme une plante fai-ble encore, qu’un instant peut flétrir et dessécher pour jamais. N’ou-blions pas surtout que dans l’homme occupé de travaux grossiers qui émoussent sa sensibilité, et le ramènent aux sentiments personnels, l’habitude de la dureté produit cette disposition à la férocité qui est le plus grand ennemi des vertus et de la liberté du peuple, la seule excuse des tyrans, le seul prétexte spécieux de toutes les lois inégales. Ren-dons le peuple sensible et doux pour qu’on ne s’effraye plus de voir la puissance résider entre ses mains ; et pour qu’on ne se repente pas de l’avoir rétabli dans tous ses droits, donnons-lui cette humanité qui peut seule lui apprendre à les exercer avec une généreuse modération. L’homme compatissant n’a pas besoin d’être éclairé pour être bon, et la plus simple raison lui suffit pour être vertueux. Dans l’homme insen-sible, au contraire, une faible bonté suppose de grandes lumières, et il ne peut devenir vertueux sans l’appui d’une philosophie profonde, ou de cet enthousiasme qu’inspirent certains préjugés ; enthousiasme tou-jours dangereux, parce qu’il érige en vertu tout crime utile aux intérêts des fourbes dont ces préjugés ont fondé la puissance.

Description d’objets physiques

On placerait à la suite de ces histoires morales, ou bien l’on entre-mêlerait avec elles de courtes descriptions d’animaux et de végétaux, choisis dans le nombre de ceux que les élèves peuvent observer, et sur lesquels on leur montrerait la justesse des descriptions qu’on leur ferait lire. Ils y trouveraient le plaisir de se rappeler des choses qu’ils ont vues sans les remarquer. Ils sentiraient déjà cette utilité qu’ont les li-vres, de nous faire retrouver des idées acquises qui nous échapperaient sans leur secours. Ils apprendraient à mieux voir les objets que le ha-sard leur présente ; enfin, ils commenceraient à prendre l’habitude des notions précises, à savoir les distinguer des idées qui se forment au hasard ; et cette première leçon de logique, reçue longtemps avant qu’ils puissent en comprendre le nom, ne serait pas la moins utile.

Exposition du système de numération

Ce premier livre serait terminé par l’exposition du système de la numération décimale, c’est-à-dire qu’on y apprendrait à connaître les signes qui désignent les nombres, et la méthode de les représenter tous avec ces dix signes, d’écrire en chiffres un nombre exprimé par des mots, et d’exprimer par des mots un nombre écrit en chiffres.

Nécessité d’un livre pour les maîtres

Il y aurait en même temps un livre correspondant, composé pour l’instruction du maître. Les livres de cette espèce doivent accompagner ceux qui sont destinés aux enfants, tant que l’enseignement se borne à des connaissances élémentaires. Ils doivent renfermer : 1° des remar-ques sur la méthode d’enseigner ; 2° les éclaircissements nécessaires pour que les maîtres soient en état de répondre aux difficultés que les enfants peuvent proposer, aux questions qu’ils peuvent faire ; 3° des définitions, ou plutôt des analyses de quelques mots employés dans les livres mis entre les mains des enfants, et dont il est important de leur donner des idées précises. En effet, ces définitions, ces dévelop-pements allongeraient les livres des enfants, en rendraient la lecture difficile et ennuyeuse. Si d’ailleurs on les insérait dans ces livres, on serait obligé de supprimer toute réflexion sur les motifs qui ont fait préférer une définition à une autre, et chercher tantôt à exciter, tantôt à éteindre la curiosité. L’ouvrage qui, destiné aux maîtres, accompagne-rait le premier livre de lecture, devrait surtout contenir une explication des mots isolés qui font partie de ce livre. Il ne peut y avoir de bonne méthode d’enseigner des éléments sans un livre mis à la portée des enfants, et auquel ils puissent toujours recourir ; mais il ne peut y en avoir non plus sans un autre livre qui apprenne aux maîtres les moyens de suppléer à ce que le premier ne peut contenir. Ces livres ne sont pas moins nécessaires aux parents pour suivre l’éducation de leurs enfants, dans le temps où il faut qu’ils travaillent hors des yeux du maître, et où il est nécessaire de combiner l’instruction d’après leurs dispositions particulières.
Ces mêmes livres, enfin, auraient une double utilité relativement aux maîtres : ils suppléeraient à l’esprit philosophique qui peut manquer (p. 61) à quelques-uns ; ils mettraient plus d’égalité entre l’enseignement d’une école et celui d’une autre. Enfin, un maître qui ne se bornerait pas à la simple explication d’un ouvrage, et qui paraîtrait aux enfants savoir quelque chose au-delà du livre qu’ils étudient, leur inspirerait plus de confiance ; or, cette confiance est nécessaire au succès de toute éducation, et les enfants ont besoin d’estimer la science d’un maître pour profiter de ses leçons.
Comment on doit entendre le précepte de n’employer avec les enfants que des mots qu’ils puissent comprendre
On sent que les livres destinés à donner aux enfants la première habitude de lire, ne doivent renfermer que des phrases d’une construc-tion simple et facile à saisir. L’habitude de ces formes de phrases leur en fera découvrir la syntaxe par une sorte de routine ; il faut aussi qu’ils puissent en entendre tous les mots au moins à l’aide d’une simple explication ; mais cette dernière condition exige ici quelques dévelop-pements.
Il n’y a peut-être pas un seul mot de la langue qu’un enfant com-prenne, si on veut entendre par là qu’il y attachera le même sens qu’un homme dont l’expérience a étendu les idées et leur a donné de la pré-cision et de la justesse. Sans entrer ici dans une discussion métaphysi-que sur la différence qui peut exister entre les idées que différents hommes attachent à un mot, même quand, paraissant convenir entre eux du sens qu’il présente, ils adoptent également les propositions où ce mot est employé, je me bornerai à observer que les mots expriment évidemment des idées différentes suivant les divers degrés de science que les hommes ont acquis. Par exemple, le mot or ne réveille pas la même idée pour un homme ignorant et pour un homme instruit, pour celui-ci et pour un physicien, ou même pour un physicien et pour un chimiste : il renferme pour ce dernier un beaucoup plus grand nombre d’idées, et peut-être d’autres idées. Le mot bélier, le mot avoine, ne réveillent pas les mêmes idées dans la tête d’un homme de la campa-gne et dans celle d’un naturaliste : non seulement le nombre de ces idées est plus grand pour ce dernier, mais les caractères par lesquels chacun d’eux distingue le bélier d’un autre animal, l’avoine d’une autre plante, et qu’on peut appeler la définition du mot ou de l’objet, ne sont pas les mêmes. Il ne peut y avoir d’exception que pour les mots qui (p. 62) expriment des idées abstraites très simples, et dans un autre sens pour ceux qui sont susceptibles de véritables définitions, tels que les mots des sciences mathématiques. Par exemple, si on appelle cercle la courbe dont tous les points sont également éloignés d’un point déter-miné qu’on nomme centre, cette définition est la même pour l’enfant qui ne connaît que cette propriété du cercle, et pour le géomètre à qui toutes celles qui ont été découvertes peuvent être présentes. Toutes, en effet, dépendent de cette propriété première. Cependant, on ne peut pas dire, dans un sens rigoureux, que l’idée réveillée par le mot de cer-cle soit essentiellement la même ; car l’esprit de celui qui le prononce peut s’arrêter sur sa simple définition, ou envisager en même temps d’autres propriétés ; il peut même s’attacher exclusivement à une de celles-ci. De plus, comme il serait possible de donner une autre défini-tion du cercle, c’est-à-dire, de le désigner par une autre propriété de laquelle toutes les autres dériveraient également, on ne pourrait pas dire que deux hommes qui auraient reçu ces définitions différentes, eussent la même idée en prononçant le mot de cercle. Ils s’enten-draient cependant comme ceux qui, prononçant les mots d’or, de bé-lier, d’avoine et d’autres substances physiques, s’entendraient aussi, quoique leurs idées différassent entre elles. Quelle en est donc la rai-son ? C’est que les propositions formées de ces idées différentes et exprimées par les mêmes mots sont également vraies. Par exemple, une même proposition sur le cercle est vraie pour celui qui le définit la courbe dont tous les points sont également éloignés du centre, et pour celui qui l’aurait défini une courbe telle que les produits de deux lignes terminées par elle, et qui se coupent dans son intérieur, soient toujours égaux entre eux : et la même chose aura lieu pour toutes les proposi-tions vraies qu’on peut former sur le cercle. Celui qui désigne par le mot or une substance malléable, ductile, de couleur jaune et très pe-sante, s’entendra avec un chimiste dans tout ce qu’ils diront de l’or, quoique ce chimiste ait ajouté à cette idée d’autres propriétés, pourvu que les propositions dans lesquelles ils emploient le mot or soient éga-lement vraies pour ces deux idées différentes : mais ils cesseraient de s’entendre dans toutes les propositions qui seraient vraies pour une substance ayant toutes les propriétés que le premier connaît dans ce qu’il appelle or, et qui ne le seraient pas pour une substance ayant tou-tes celles que le chimiste reconnaît dans l’or. Telle est la différence entre les mots qui expriment des idées mathématiques et ceux qui dé-signent des objets réels. Si maintenant on applique les mêmes observations (p. 63) aux mots du langage ordinaire, à ceux qui expriment des idées morales, et dont le sens n’est déterminé, ni par une analyse rigoureuse, ni par les qualités naturelles d’un objet réel, on verra comment, avec des idées différentes, on peut s’entendre encore, mais pourquoi il est plus facile de cesser de le pouvoir. Ces principes exposés, on aperçoit d’abord combien il serait chimérique d’exiger que les enfants ne trou-vassent dans leurs livres que des mots dont ils eussent des idées bien exactement identiques avec celles d’un philosophe habitué à les analy-ser. Par exemple, comme la plupart même des hommes faits, ils n’au-ront qu’une idée très vague et très peu précise des mots grammaticaux, et même des relations grammaticales que ces mots expriment. Mais il n’y a aucun inconvénient à ce qu’un enfant lise j’ai fait et je fis, sans savoir que le présent du verbe avoir mis avant le participe du verbe faire exprime un prétérit de ce verbe, pendant qu’un autre se forme par un changement particulier dans la terminaison du verbe même. Il en résultera seulement que pour lui la langue française n’aura aucun avantage sur celle où il n’existerait aucun moyen de distinguer, ni ces deux prétérits, ni la nuance d’idée qui en caractérise la différence. On trouvera de même que si on fait connaître à un enfant, par une descrip-tion, l’animal, la plante, la substance désignée par un nom, si on la lui montre, si on lui en fait observer quelques-unes des propriétés, il est inutile que la description de cet objet s’étende à toutes les propriétés qui le distinguent des autres objets connus. Pour que l’enfant emploie ce mot avec justesse, il suffit qu’il ait retenu quelques-unes des pro-priétés qui distinguent cet objet de tous ceux qu’il connaît lui-même. Ce serait détruire absolument l’intelligence humaine que de vouloir l’assujettir à ne marcher que d’idées précises en idées précises, à n’ap-prendre des mots qu’après avoir rigoureusement analysé les idées qu’ils expriment ; elle doit commencer par des idées vagues et incom-plètes, pour acquérir ensuite, par l’expérience et par l’analyse, des idées toujours de plus en plus précises et complètes, sans pouvoir ja-mais atteindre les limites de cette précision et de cette connaissance entière des objets.
Ainsi, par des mots que les enfants puissent comprendre, on doit entendre ceux qui expriment pour eux une idée à leur portée ; de ma-nière que cette idée, sans être la même que celle qu’aurait un homme fait, ne renferme rien de contradictoire à celle-ci. Les enfants seraient à peu près comme ceux qui n’entendent de deux mots synonymes que (p. 64) ce qu’ils ont de commun et à qui leur différence échappe. Avec cette précaution, les élèves acquerront une véritable instruction, et on ne leur donnera pas d’idées fausses, mais seulement des idées incomplè-tes et indéterminées, parce qu’ils ne peuvent en avoir d’autres. Autre-ment, il serait impossible de se servir avec eux de la langue des hom-mes ; et comme on forme un langage particulier au premier âge, et proportionné àla faiblesse de l’organe de la parole, il faudrait instituer une langue à part proportionnée à leur intelligence. On peut donc em-ployer, dans les livres destinés aux enfants, des mots qui expriment des nuances, des degrés de sentiment qu’ils ne peuvent connaître, pourvu qu’ils aient une idée de ce sentiment en lui-même ; et dès que l’idée principale exprimée par un mot est à leur portée, il est inutile qu’il réveille en eux toutes les idées accessoires que le langage ordi-naire y attache. Les langues ne sont pas l’ouvrage des philosophes ; on n’a pas tu soin d’y exprimer, par un mot distinct, l’idée commune et simple, dont un grand nombre d’autres mots expriment les modifica-tions diverses ; jamais même on ne peut espérer qu’elles atteignent à cette perfection, puisque les mots ne se formant qu’après les idées et par la nécessité de les exprimer, les progrès de l’esprit précèdent né-cessairement ceux du langage. Il y a plus : si l’on doit donner aux en-fants une analyse exacte, quoique incomplète encore, du sens des mots qui désignent ou les objets physiques qu’on veut leur faire connaître, ou les idées morales sur lesquelles on veut fixer leur attention, et de ceux qui doivent servir pour ces développements, il est impossible d’analyser avec le même scrupule les mots d’un usage vulgaire qu’on est obligé d’employer pour s’entendre avec eux.
Il y aura donc pour eux, comme pour nous, deux manières de com-prendre les mots : l’une plus vague pour les mots communs, l’autre plus précise pour ceux qui doivent être l’expression d’idées plus réflé-chies. À mesure que l’esprit humain se perfectionne, on emploiera moins de mots de la première manière, mais jamais ils ne disparaîtront entièrement du langage ; et, semblablement, il faut, dans l’éducation, chercher à en diminuer le nombre, mais n’avoir pas la prétention de pouvoir s’en passer (p. 65).

On ne doit pas craindre d’employer les mots techniques

J’observerai de plus que l’on doit préférer d’employer, dans les li-vres des enfants, ceux des mots techniques qui, soit pour les objets physiques, soit pour les autres, sont adoptés généralement. Cette lan-gue scientifique est toujours mieux faite que la langue vulgaire. Les changements s’y font plus sensiblement et par une convention moins tacite. Ces mots expriment en général des idées plus précises, dési-gnent des objets plus réellement distincts, et répondent à des idées mieux faites et d’une analyse plus facile, puisque souvent ces noms sont même postérieurs à cette analyse. Si le goût les bannit des ouvra-ges purement littéraires, c’est parce que l’affectation de science blesse-rait ou la délicatesse ou l’orgueil des lecteurs ; c’est qu’ils y répan-draient plus d’obscurité qu’ils n’y mettraient de précision.

Instruction de la seconde année

Dans une seconde année, le livre de lecture renfermerait des histoi-res morales ; mais les sentiments naturels sur lesquels on chercherait à fixer J’attention seraient déjà plus réfléchis. Ainsi, aux premiers mou-vements de la pitié, on substituerait ceux de la bienfaisance et les dou-ceurs qui accompagnent les soins de l’humanité ; au sentiment de la reconnaissance le plaisir d’en donner des marques, le zèle attentif de l’amitié à ses douces émotions. À cette époque, les histoires auraient aussi pour objet de faire naître les idées morales, de manière que les enfants, avertis de faire attention à leurs sentiments, à leurs propres aperçus, pussent former eux-mêmes ces idées. Le livre destiné au maî-tre lui indiquerait les moyens de les développer ; elles seraient ensuite fixées dans l’esprit des élèves par de courtes analyses faites par le maî-tre, et c’est alors que le nom leur en serait révélé.

Réflexions sur la langue des sciences morales

On doit attribuer en grande partie l’imperfection des sciences mora-les à l’espèce de nécessité où l’on se trouve d’y employer des mots qui ont, dans le langage vulgaire, un sens différent de leur sens philoso-phique. Il est possible de séparer ces deux sens l’un de l’autre d’une manière assez absolue pour que ce qui reste de vague dans le premier (p. 66) ne nuise pas à la précision des idées, même quand le mot doit être employé dans le second. D’ailleurs, la plupart de ces mots étaient connus de ceux qui les prononcent, et ils s’en servaient, dans le sens vulgaire, longtemps avant l’époque où ils ont pu apprendre à les em-ployer dans un autre ; et dans les ouvrages scientifiques, au lieu de chercher à perfectionner en quelque sorte ce sens vulgaire à l’aide d’une analyse rigoureuse, et de lui donner, par ce moyen, la précision qu’exige le langage philosophique, on a presque toujours employé la méthode des définitions abstraites. Dans l’instruction, on doit suivre une marche contraire, et faire en sorte que ces mots, même lorsqu’ils sont employés dans l’usage commun, aient pour les élèves la rigueur et la précision du sens philosophique. Il faut que l’homme et le philoso-phe ne soient pas en quelque sorte deux êtres séparés, ayant une lan-gue, des idées, et même des opinions différentes. Sans cela, comment la philosophie, qui n’est que la raison rendue méthodique et précise, deviendrait-elle jamais usuelle et vulgaire ? Ainsi, dans toute l’étude des sciences morales, on aura soin de substituer l’analyse aux défini-tions, et de ne nommer une idée qu’après l’avoir fixée dans l’esprit des élèves en les obligeant à l’acquérir, à l’analyser, à la circonscrire eux-mêmes. C’est alors que la justesse, qui dépend uniquement de la préci-sion dans les idées, pourra devenir vraiment générale, et ne restera plus le partage exclusif des hommes qui ont cultivé leur esprit ; c’est alors que la raison, devenue populaire, sera vraiment le patrimoine commun des nations entières ; c’est alors que cette justesse s’étendant sur les idées morales, on verra disparaître cette contradiction, hon-teuse pour l’esprit humain, d’une sagacité qui pénètre les secrets de la nature ou va chercher les vérités cachées dans les cieux, et d’une igno-rance grossière de nous-mêmes et de nos plus chers intérêts.

Suite des objets qui doivent faire partie de l’instruction

On répéterait les descriptions des objets physiques qu’on aurait dé-jà fait connaître la première année, en y ajoutant des détails sur d’au-tres qualités moins frappantes de ces mêmes objets, sur leur histoire, sur leurs usages les plus généraux ou les plus utiles. On en décrirait de nouveaux, en choisissant toujours ceux qu’il est possible de mettre sous les yeux des élèves ; et toutes ces descriptions seraient combi-nées de manière à former une partie de l’histoire naturelle du pays qu’ils habitent (p. 67).
Les règles de l’arithmétique y seraient enseignées en se bornant aux quatre règles simples, qui d’ailleurs suffiront pour tous les calculs, si l’on a la sagesse d’employer exclusivement l’échelle numérale dans toutes les espèces de divisions.

La méthode d’enseigner les sciences doit changer d’après le but que l’on se propose en les enseignant

Nous observerons ici que la méthode d’enseigner une science doit varier suivant l’objet qu’on se propose. En effet, si l’on a pour but d’embrasser la science entière, ou du moins de mettre en état de l’ap-profondir soi-même, alors il devient inutile de s’arrêter dès les pre-miers pas pour exercer longtemps les élèves sur les opérations qu’on leur enseigne. En effet, l’habitude des idées qui s’y rapportent, la promptitude dans l’exécution de ces mêmes opérations, l’impossibilité d’en oublier les principes pour n’en conserver que la routine, la facilité de les appliquer à des questions nouvelles, sont la suite naturelle et nécessaire du long temps employé à cultiver cette science. Alors, pourvu qu’on ne prenne pas une course trop rapide, pourvu que l’on n’excède pas la force de tête ou les bornes de la mémoire, il faut, au contraire, hâter la marche de l’instruction, aller en avant, craindre de refroidir l’ardeur naissante des élèves, en les traînant trop lentement sur les mêmes vérités, en appesantissant leur réflexion sur des idées qui n’ont plus le charme de la nouveauté. Mais si l’on enseigne une science dans la vue de l’utilité que l’on peut en retirer dans quelques circonstances de la vie, on ne saurait trop chercher, au contraire, à fa-miliariser l’esprit des élèves avec les idées qui y sont relatives, avec les opérations qu’ils peuvent avoir besoin d’exécuter. Sans cela, ils ou-blieraient bientôt et les principes et la pratique elle-même. Si enfin on enseigne une science comme étant la base d’une profession, il est inu-tile d’arrêter les élèves sur la partie pratique de cette science, parce que l’exercice de la profession à laquelle on les destine conservera, augmentera même l’habitude nécessaire à cette pratique ; mais si on ne veut pas qu’elle. devienne une routine, il faudra dans l’éducation insis-ter beaucoup sur les principes de théorie, que, sans cela, ils seraient exposés à oublier bientôt. Quiconque a observé les hommes dans la société, et les a comparés avec leur éducation, a dû être frappé d’en voir quelques-uns ne conserver presque aucune idée, ou n’avoir qu’un (p. 68) souvenir vague, et à peine quelques connaissances élémentaires des sciences qui avaient occupé une grande partie de leur jeunesse, et dont l’étude, portée même assez loin, leur avait mérité les succès brillants qu’on peut avoir à cet âge ; tandis que d’autres, livrés à des professions essentiellement fondées sur certaines sciences, en ont oublié les prin-cipes, sont devenus incapables d’en suivre les progrès, quoiqu’ils aient retenu les conséquences pratiques de ces principes, et que ces progrès fussent utiles, peut-être même nécessaires au succès de leur profes-sion. Cependant, ces mêmes sciences avaient été la base de leur ins-truction, avaient consumé dans une étude pénible une grande portion de leur existence.
Or, ici l’objet de l’éducation est de donner aux élèves les connais-sances dont ils pourront avoir besoin dans la vie commune. Il est donc nécessaire, en apprenant l’arithmétique aux enfants, d’insister beaucoup sur les raisons de toutes les opérations qu’elle exige, et de leur faire multiplier ces opérations, afin de les rendre ha-bituelles ; surtout comme il est important que cette facilité ne se sé-pare jamais de l’intelligence des principes, il faut leur en faire acquérir l’habitude en les exerçant sur des nombres assez petits, parce que, sans cela, leur attention ne pourrait suffire pour suivre l’opération, et pour observer en même temps les principes dont elle n’est que l’application. On terminerait enfin l’instruction de cette seconde année par l’exposi-tion des premières notions de la géométrie.

Instruction de la troisième année

Dans la troisième année, nous trouvons les enfants ayant déjà des idées morales qu’ils se sont eux-mêmes formées en quelque sorte. Les histoires qui leur seront alors destinées, et où l’on peut faire entrer les mots auxquels l’analyse a déjà attaché des idées justes, doivent avoir pour but de donner à ces idées plus d’étendue et de précision, et d’en augmenter le nombre ; enfin de conduire les élèves à comprendre les préceptes de la morale, ou plutôt à les inventer eux-mêmes. On ne peut, dans aucun genre, enseigner ou prouver une vérité, si celui à qui on veut l’apprendre ou la démontrer n’est pas d’avance amené au point où il ne lui faudrait qu’un peu d’attention et de force de tête pour la trouver lui-même. L’enseignement ne consiste qu’à présenter le fil qui (p. 69) a conduit les inventeurs, à montrer la route qu’ils ont parcourue, et l’élève fait nécessairement ou les raisonnements qu’ils ont faits, ou ceux qu’ils auraient pu faire avec un égal succès. Ainsi, les premiers préceptes de la morale, renfermés dans les histoires qu’on fera lire aux enfants, mais sans y être exprimés, leur seraient ensuite développés par le maître, qui les y conduirait insensiblement, comme à un résultat qu’eux-mêmes ont découvert, et qu’il n’a fait que rédiger ou perfec-tionner. Cette méthode, qui ne serait peut-être dans les sciences ma-thématiques qu’une exagération du principe de se conformer dans l’en-seignement à la marche naturelle de l’esprit, et qui n’y servirait qu’à retarder les progrès des élèves est nécessaire dans l’enseignement de la morale, parce que les idées ne s’y forment ni par la vue d’objets sensi-bles, ni par des combinaisons précises d’idées abstraites, mais (du moins pour ces notions premières) par la réflexion de chaque individu sur son sentiment intérieur.
On continuera de donner des connaissances d’histoire naturelle, di-rigées vers le même but, et on tâchera d’en épuiser la partie purement descriptive. On exercera les élèves dans l’arithmétique, non plus seu-lement en leur faisant appliquer les règles à des exemples donnés, mais en leur proposant de petites questions qu’ils puissent résoudre eux-mêmes, et qui soient susceptibles de se réduire, d’abord à l’appli-cation d’une seule des règles, puis à celle de plusieurs à la fois.
Des notions de géométrie, on s’élèvera aux éléments de l’arpentage, qu’on développera suffisamment pour mettre en état d’arpenter un ter-rain, non par la méthode la plus commode et avec les simplifications usitées dans la pratique, mais par une méthode générale dont on puisse difficilement oublier les principes ; en sorte que le défaut d’usage n’empêche pas de pouvoir l’employer lorsqu’on en aura besoin. Les enfants seraient exerces a pratiquer sur le terrain ; ils le seraient éga-lement à faire les figures, soit avec la règle et le compas, soit à la main. Cette habitude leur donnerait un usage de l’art du dessin suffi-sant pour la généralité des individus, qui n’ont besoin que de savoir faire des plans, et rendre les objets avec une exactitude grossière.

Instruction de la quatrième année

La quatrième année doit être consacrée d’abord à l’explication des principes moraux, qu’il est temps de leur présenter directement, et d’un petit code de morale suffisant pour toute la conduite de la vie, si on en excepte les développements qui se rapportent a certaines relations, dont les enfants ne peuvent avoir qu’une idée vague, comme celle du mari à la femme, du père aux enfants, du fonctionnaire public aux par-ticuliers. On sent bien que je ne mets pas au nombre de ces dévelop-pements, réservés à un autre âge, la connaissance des droits primitifs de l’homme, et des devoirs simples et généraux que l’ordre social im-pose à tous les citoyens. Les premier principes de ces droits et de ces devoirs sont plus qu’on ne croit à la portée de tous les âges. On doit soigneusement séparer cette morale de tout rapport avec les opinions religieuses d’une secte particulière ; car autrement il faudrait donner à ces opinions une préférence contraire à la liberté. Les parents seuls peuvent avoir le droit de faire enseigner ces opinions, ou plutôt la so-ciété n’a pas celui de les en empêcher. En exerçant ce pouvoir, peut-être manquent-ils aux règles d’une morale sévère, peut-être leur bonne foi dans leur croyance n’excuse-t-elle pas la témérité de la donner à un autre, avant qu’il soit en état de la juger ; mais ce n’est pas là une de ces violations directes du droit naturel, commun à tout être sensible, contre lesquelles les lois de la société doivent protéger l’enfance, en la défendant de l’autorité paternelle.
Il ne faut pas même lier l’instruction de la morale aux idées généra-les de religion. Quel homme éclairé oserait dire aujourd’hui, ou que les principes qui règlent nos devoirs n’ont pas une vérité indépendante de ces idées, ou que l’homme ne trouve pas dans son coeur des motifs de les remplir, et soutenir en même temps qu’il existe une seule opi-nion religieuse contre laquelle un esprit juste ne puisse trouver des objections insolubles pour lui ? Pourquoi appuyer sur des croyances incertaines des devoirs qui reposent sur des vérités éternelles et in-contestées ? Et qu’on ne dise pas qu’une telle opinion est irréligieuse ! jamais, au contraire, la religion ne deviendrait plus respectable qu’au moment où elle se bornerait à dire : Vous connaissez ces devoirs que vous impose la raison, auxquels la nature vous appelle, que vous conseille l’intérêt de votre bonheur, que votre coeur même chérit dans (p. 71) le silence de ses passions : eh bien, je viens vous proposer de nou-veaux motifs de les remplir ; je viens ajouter un bonheur plus pur au bonheur qu’ils vous promettent, un dédommagement aux sacrifices qu’ils exigent quelquefois ; je ne vous donne pas un joug nouveau ; je veux rendre plus léger celui que la nature vous imposait ; je ne com-mande point, j’encourage et je console.
Les élèves qui doivent être bornés au premier degré d’instruction, et qui, dès l’âge où elle finit, se dévouent à des occupations domesti-ques, ne peuvent ni donner assez de temps à l’étude, ni la prolonger assez pour qu’on puisse présumer de comprendre, dans leur institution, la connaissance détaillée de leurs droits naturels et politiques, celle des devoirs publics, celle de la constitution établie et des lois positi-ves. On doit se borner, pour eux, à l’exposition d’une déclaration des droits la plus simple, la plus à la portée des élèves qu’il est possible de la faire : on en déduirait celle de leurs devoirs, qui consistent à respec-ter dans autrui les mêmes droits qu’ils sentent leur appartenir à eux-mêmes. On y joindrait les notions les plus simples de l’organisation des sociétés et de la nature des pouvoirs, qui sont nécessaires à leur conservation. Mais le reste de l’instruction politique doit se confondre, pour eux, avec celle qui est destinée aux hommes ; ce qu’il est d’autant plus simple d’établir, qu’il serait encore utile de leur rappeler ces connaissances, de les y fortifier par des lectures et des explications habituelles, quand même elles auraient fait partie de leur instruction première. Dans cette dernière année, on donnerait un précis de l’his-toire naturelle du pays, précis dont une grande partie aurait déjà été développée dans les années précédentes ; on y joindrait l’application de ces connaissances à l’agriculture et aux arts les plus communs. On perfectionnerait les élèves dans l’arpentage, on y ajouterait le toisé ; et cette étude offrirait assez d’occasions de les fortifier dans l’habitude de l’arithmétique ; enfin, le cours serait terminé par des notions de méca-nique, par l’explication des effets des machines les plus simples, par une exposition élémentaire de quelques principes de physique, par un tableau très abrégé du système général du monde (p. 72).

L’instruction doit avoir aussi pour objet de prémunir contre l’erreur

Cette dernière partie aurait moins pour objet de donner de vérita-bles lumières que de préserver de l’erreur. Un des avantages les plus grands de l’instruction est, en effet, de garantir les hommes des fausses opinions où leur propre imagination et l’enthousiasme, pour les charla-tans peuvent les plonger. Parmi ces grands préjugés, qui ont séduit des nations, et quelquefois l’humanité presque entière, à peine en pourrait-on citer un seul qui n’ait été appuyé sur quelques erreurs grossières en physique. C’est souvent même en profitant avec adresse de ces erreurs grossières que quelques hommes sont parvenus à faire adopter leurs absurdes systèmes. Les écarts d’une imagination ardente ne conduisent guère soit à des projets dangereux, soit à de vaines espérances, que les hommes en qui elle se trouve réunie avec l’ignorance. Cette imagina-tion passive, qui réalise des illusions étrangères, si différente de l’ima-gination active qui combine et qui invente, a pour cause première le vide d’idées justes et l’abondance trop grande d’idées vagues et confu-ses.

Réflexions sur la méthode d’enseigner

On n’exercera pas les enfants à apprendre beaucoup de mémoire, mais on leur fera rendre compte de l’histoire, de. la description qu’ils viennent de lire, du sens d’un mot qu’ils viennent d’écrire, et par là ils apprendront à retenir les idées, ce qui vaut mieux que de répéter les mots. Ils apprendront en même temps à distinguer celles des expres-sions qui ne peuvent être changées sans dénaturer le sens, et qu’il faut conserver rigoureusement dans la mémoire. Enfin, on y trouvera, de plus, cet avantage, que les élèves dont la mémoire est ingrate ne se fatigueront pas inutilement, tandis que ceux qui possèdent cette fa-culté à un plus haut degré, mais qui ont une intelligence plus faible, apprendront à retenir avec exactitude, supplément utile àce que la na-ture leur a refusé d’esprit.
En examinant ce tableau d’une première instruction, nous espérons qu’on y verra le triple avantage de renfermer les connaissances les plus nécessaires, de former l’intelligence en donnant des idées justes, (p. 73) en exerçant la mémoire et le raisonnement ; enfin, de mettre en état de suivre une instruction plus étendue et plus complète. En remplissant le premier but de l’éducation, qui doit être de développer, de fortifier, de perfectionner les facultés naturelles, on aura choisi, pour les exercer, des objets qui deviendront, dans le reste de la vie, d’une utilité journa-lière. En formant le plan de ces études, comme si elles devaient être les seules, et pour qu’elles suffisent à la généralité des citoyens, on les a cependant combinées de manière qu’elles puissent servir de base à des études plus prolongées, et que rien du temps employé à les suivre ne soit perdu pour le reste de l’instruction.
En unissant, comme on l’a proposé, la lecture à l’écriture, en pré-sentant les premières idées morales dans des histoires qui peuvent n’être pas sans intérêt, en mêlant à l’étude de la géométrie l’amusement de faire tantôt des figures, tantôt des opérations sur le terrain, en ne parlant, dans les éléments d’histoire naturelle, que d’objets qu’on peut observer, et dont l’examen est un plaisir, on rendra l’instruction facile ; elle perdra ce qu’elle peut avoir de rebutant, et la curiosité naturelle à l’enfance sera un aiguillon suffisant pour déterminer à l’étude. On sent combien il serait absurde de s’imposer la loi de faire entendre aux en-fants à quoi chaque connaissance qu’on leur donne peut être bonne ; car s’il est quelquefois rebutant d’apprendre ce dont on ne peut connaî-tre l’utilité, il est le plus souvent impossible de connaître, autrement que sur parole, l’utilité de ce qu’on ne sait pas encore. Mais la curiosité n’est pas un de ces sentiments factices qu’il faille éloigner de l’âme neuve et faible encore des enfants. Elle est, bien plus que la gloire, le motif de grands efforts et des grandes découvertes. Ainsi, bien loin de s’étudier à l’éteindre, comme l’a quelquefois conseillé, non seulement cette morale superstitieuse, enseignée par des fourbes jaloux d’éterni-ser la sottise humaine, mais même cette fausse philosophie qui plaçait le bonheur dans J’apathie, et la vertu dans les privations, il faut, au contraire, chercher avec d’autant plus de soin à exciter ce sentiment dans les élèves, destinés, pour la plupart, à ne point aller au-delà de ces premières études, que les hommes qui ont peu de connaissances, dont les besoins sont bornés, dont l’horizon étroit n’offre qu’un cercle uniforme, tomberaient dans une stupide léthargie, s’ils étaient privés de ce ressort. La nature, d’ailleurs, a attaché du plaisir à l’instruction, pourvu qu’elle soit bien dirigée. En effet, elle n’est alors que le déve-loppement de nos facultés intellectuelles, et ce développement augmentant (p. 74) notre pouvoir, et par conséquent nos moyens de bonheur, il en résulte un plaisir réfléchi, auquel s’unit encore celui d’être débarras-sé de cette inquiétude pénible, qui accompagne la conscience de notre ignorance, et que produit la crainte vague d’être moins en état de se défendre des maux qui nous menacent.
Mais c’est dans la maison paternelle que les enfants doivent rece-voir le plus d’encouragement à l’étude ; ils seront ce que leurs parents voudront qu’ils soient. Le désir d’être approuvés par eux, d’en être ai-més, est la première de leurs passions ; et ce serait outrager la nature, que d’aller chercher d’autres encouragements au travail, d’autre charme contre les dégoûts passagers qu’il inspire à ceux pour qui une heureuse facilité n’en a pas fait un plaisir.

Second degré d’instruction

On ne peut former d’établissements pour le second degré d’instruc-tion, que dans les chefs-lieux d’une certaine division du territoire, de chaque district par exemple.

Division de l’enseignement en deux parties

L’enseignement doit y être nécessairement séparé en deux parties. Dans la première, un cours suivi d’instruction générale continuera celle qui a déjà été reçue : il durera l’espace de quatre ans ; ce qui oblige a établir deux ou quatre maîtres, afin que l’enseignement de l’un d’eux puisse répondre, chaque année, à l’une des quatre divisions de ce cours, et que chacun en fasse parcourir, successivement, la totalité à la même classe d’élèves. La seconde partie sera destinée à enseigner, avec plus de détail et d’étendue, les sciences particulières dont l’utilité est la plus étendue ; et alors, soit que les cours particuliers de ces sciences durent un an, soit qu’ils en durent deux, on les distribuera de manière que chaque élève puisse, ou les suivre tous dans l’espace des quatre années, ou n’en suivre qu’un seul et le répéter plusieurs fois (p. 75).

Utilité de cette division pour faciliter les moyens de proportionner l’instruction aux facultés des élèves

Ainsi, tous les élèves recevront d’abord une instruction commune suffisante pour chacun, et à la portée de ceux qui n’ont que l’intelli-gence la plus ordinaire ; tandis que les jeunes gens dont les disposi-tions sont plus heureuses trouveront dans les cours particuliers une instruction proportionnée à leurs facultés et appropriée à leurs goûts. En effet, ces dispositions presque exclusives pour une science, cette inaptitude pour quelques autres, n’empêchent pas d’en apprendre les premiers éléments jusqu’au point où on peut les regarder comme des connaissances nécessaires, et il arrivera souvent, d’un autre côté, que des enfants dont l’esprit annonçait une lenteur voisine de la stupidité, réveillés par l’étude dont les objets ont avec leur âme une sorte de sympathie, développeront des facultés qui, sans cette facilité de choi-sir, seraient toujours restées dans l’engourdissement. Si l’on doit diri-ger l’instruction vers les connaissances qu’il est utile d’acquérir, il n’est pas moins important de choisir, pour exercer les facultés de chaque individu, les objets vers lesquels il est porté par un instinct naturel ; et une institution qui ne réunirait pas ces deux avantages serait impar-faite.

Objets de l’instruction commune

Les objets de l’instruction commune doivent être ici d’abord un cours très élémentaire de mathématiques, d’histoire naturelle et de physique, absolument dirigé vers les parties de ces sciences qui peu-vent être utiles dans la vie commune. On y joindra les principes des sciences politiques : on y développera ceux de la constitution natio-nale ; on y expliquera les principales dispositions des lois d’après les-quelles le pays est gouverné ; on y donnera les notions fondamentales de la grammaire et de la métaphysique, les premiers principes de la logique, quelques instructions sur l’art de rendre ses idées, et des élé-ments d’histoire et de géographie. On reviendra sur le code de morale pour en approfondir davantage les principes et pour le compléter, en ayant soin d’insister sur ceux des devoirs dont la connaissance détail-lée était au-dessus des facultés du premier âge, et aurait été inutile à leur développement. On suivra dans cette instruction une marche (p. 76) semblable à celle que nous avons développée ; mais on aura soin d’en combiner les diverses parties de manière qu’un homme qui joindrait à cette instruction de la probité, de l’application et les connaissances que donne l’expérience, fût en état d’exercer dignement toutes les fonc-tions auxquelles il voudrait se préparer. L’instruction, quelle qu’elle soit, ne mettra jamais un homme à portée de remplir au moment même l’emploi public qu’on voudra lui confier ; mais elle doit lui don-ner d’avance les connaissances générales sans lesquelles on est inca-pable de toutes les places, et la facilité d’acquérir celles qu’exige cha-que genre d’emploi.

Enseignement des diverses parties des sciences

Quant aux parties des sciences qui doivent être enseignées séparé-ment, on pourrait se contenter ici de quatre maîtres, en adoptant la dis-tribution suivante : les sciences morales et politiques, les sciences physiques fondées sur l’observation et l’expérience, les mathématiques et les parties des sciences physiques fondées sur le calcul ; enfin l’his-toire et la géographie politique, qu’on pourrait confier à un maître qui en même temps enseignerait la grammaire et l’art d’exprimer ses idées. je n’entrerai point ici dans le détail de ce que renfermeront ces diver-ses parties de l’instruction. Nous avons déjà observé qu’elles doivent avoir pour objet les connaissances qu’il est bon d’acquérir, soit pour son propre bonheur, soit pour remplir dignement toutes les fonctions de la société ; et d’après ces vues, il sera facile de tracer le plan de chacune.

Principes sur le choix des théories qui doivent être enseignées

C’est aux théories dont l’application est la plus commune qu’il faut donner la préférence. Ainsi, par exemple, dans l’enseignement des ma-thématiques, il faut mettre les élèves en état d’entendre et de suivre les calculs d’arithmétique politique et commerciale, et les éléments des théories sur lesquelles ces calculs sont appuyés. Il faudrait également s’attacher aux connaissances nécessaires pour n’être pas trompé par ceux qui offrent des machines, des projets de manufactures, des plans de canaux, et pour administrer les travaux publics sans être condamné à une confiance aveugle dans les gens de l’art. Une sorte de charlatanerie (p. 77) accompagne presque toujours ceux qui se livrent uniquement à la pratique : ils ont besoin d’artifice, soit pour cacher aux yeux des hommes éclairés que leur mérite se borne presque à la patience, à la facilité qui naît de l’habitude, aux connaissances de détail qu’elle seule peut donner ; soit pour placer la gloire de leurs petites inventions à côté de celle qui récompense les véritables découvertes, et dissimuler leur infériorité sous le masque d’une utilité qu’ils exagèrent. Les admi-nistrateurs ignorants deviennent aisément la dupe de cet artifice. La science d’un habile constructeur de ponts et celle de d’Alembert sont placées trop au-dessus d’eux pour qu’ils puissent en apprécier la diffé-rence, et celui qui exécute ce que les bornes étroites de leurs connais-sances ne leur permettent pas d’entendre est pour eux un grand homme. L’ignorance ne repose jamais avec plus de sécurité que dans le sein de la charlatanerie, et les bévues de ceux qui ont l’autorité de décider sans la faculté de juger offriraient à l’observateur philosophe un spectacle souvent comique, s’il était possible d’oublier les maux qui en sont la suite. Par la même raison l’on doit préférer les parties de la physique qui sont utiles dans l’économie domestique ou publique, et ensuite celles qui agrandissent l’esprit, qui détruisent les préjugés et dissipent les vaines terreurs ; qui, enfin dévoilant à nos yeux le majes-tueux ensemble du système des lois de la nature, éloignent de nous les pensées étroites et terrestres, élèvent l’âme à des idées immortelles, et sont une école de philosophie plus encore qu’une leçon de science.
Il est une partie de la mécanique qu’il serait nécessaire de joindre à cette instruction c’est celle qui apprendrait à résoudre ce problème l’ef-fet que l’on veut obtenir étant donné, trouver une machine qui le pro-duise. La mécanique des machines n’apprend en général qu’à en calcu-ler les forces et le produit ; celle-ci apprendrait à appliquer les moyens mêmes aux effets. Ainsi, par exemple, on montrerait comment, ayant une force qui agit dans une direction, on peut lui faire produire un ef-fet dans une autre, ou comment celle qui est toujours dirigée dans le même sens peut agir alternativement dans deux sens opposés ou don-ner un mouvement circulaire ; comment, avec une force d’une petite intensité, on peut vaincre une grande résistance, ou communiquer un mouvement rapide avec celle qui n’a qu’une action lente ; comment on peut obtenir un mouvement toujours uniforme, même quand il dépend d’une force irrégulière, et rendre constante l’action de celle qui tend à s’accélérer ou à se retarder. On pourrait aller même jusqu’à étendre (p. 78) cette méthode à des métiers très simples ; par exemple, après avoir fait observer en quoi consiste une toile, on chercherait la machine avec laquelle on peut la produire. Cette manière analytique de considérer les machines en rendrait l’étude plus piquante et surtout plus utile. On connaîtrait les motifs de la construction de celles qu’on emploie jour-nellement ; on apprendrait à trouver les moyens ou de les corriger ou d’en varier l’usage. Le génie de la mécanique, asservi dans cette ins-truction à une marche méthodique, excité par ces exemples, se déve-lopperait plus rapidement, et serait moins exposé à s’égarer.
La partie de la logique destinée à l’instruction générale doit être très simple, et se borner à quelques observations sur la forme et des divers degrés de certitude ou de probabilité dont elles sont suscepti-bles.

Manière d’enseigner la géographie et l’histoire

En parlant d’enseigner la géographie ou l’histoire, je n’ai point en-tendu qu’un maître fût chargé de lire ou la description d’un pays, ou l’abrégé plus ou moins détaillé des faits qui forment l’histoire d’un peuple. Ces connaissances s’acquièrent plus facilement sans maître et par la lecture. Mais j’ai entendu l’explication plus ou moins dévelop-pée d’un tableau qui, suivant l’ordre de temps, présenterait pour cha-que époque la distribution de l’espèce humaine sur le globe, son état dans chacune de ces divisions, le nom des hommes qui ont eu sur son bonheur une influence ou importante ou durable. En apprenant ainsi à ordonner, soit dans le temps, soit dans l’espace, les faits et les observa-tions de tout genre qui nous ont été transmis, on s’habituerait à en sai-sir les liaisons et les rapports, et on saurait se créer pour soi-même la philosophie de l’histoire à mesure que dans la suite on en étudierait les détails.
Ces tableaux peuvent être d’une très grande utilité toutes les fois qu’il s’agit non de suivre un petit nombre de raisonnements ou de combiner des idées acquises par la méditation, mais de saisir des rap-prochements entre un grand nombre de faits isolés ou de vérités par-tielles. Il est peu d’hommes dont la mémoire puisse alors se trouver au niveau de leur intelligence, et il est très difficile d’y suppléer par des livres, fussent-ils faits avec méthode et dans un ordre systématique (p. 79).
Les objets qu’il faut réunir, présentés dans un livre avec les détails ou les développements que nécessite un discours suivi, sont moins faciles à distinguer : placés sur des pages différentes, on ne peut les embras-ser d’un coup d’oeil, et on est forcé ou de s’en former le tableau dans sa pensée, ou de le composer soi-même. Mais cet avantage n’est pas le seul. Il est difficile de se rendre vraiment propres toutes les connais-sances que l’on a pu recevoir dans le cours de l’éducation. Une partie s’efface de la mémoire, et plus de facilité pour les acquérir par une nouvelle étude est presque le seul profit qu’on retire d’une première instruction. Cette observation est vraie, surtout des connaissances qu’un exercice journalier ne rappelle pas sans cesse, et qui sont étran-gères à nos idées habituelles. Or, des tableaux bien faits suppléeraient à ce défaut d’usage ou de mémoire. Ce moyen a été souvent employé : il existe de ces tableaux pour un grand nombre de sciences physiques, pour la chronologie, pour l’histoire, et même pour l’économie politi-que. Quelques-uns de ceux qui sont relatifs aux sciences physiques sont faits avec beaucoup de philosophie et toute l’étendue de connais-sances qu’exige ce genre de travail ; et le tableau de la science écono-mique combiné par M. Dupont peut être présenté aux philosophes ins-tituteurs comme un modèle digne d’être étudié et médité. Mais on est bien loin d’avoir tiré de ce moyen toute l’utilité dont il est susceptible, et j’en indiquerai de très importants lorsqu’il sera question de l’éduca-tion des hommes. Je me bornerai à dire ici qu’il sera utile d’en former pour chaque genre de science, afin que chaque élève puisse, par ce moyen, revoir d’un coup d’oeil et se rappeler ce qui lui a été successi-vement enseigné, embrasser ainsi le résultat de son instruction entière, et pouvoir se la rendre présente à tous les instants. J’ajouterai que c’est à l’explication de pareils tableaux, les uns chronologiques, les autres géographiques, que doit se borner l’enseignement de la géographie et de l’histoire. Il sera indispensable d’y joindre un ouvrage qui renferme les connaissances nécessaires aux maîtres pour expliquer les tableaux, et qui lui en montre la méthode.

Enseignement de l’art d’exprimer ses idées

J’ai parlé d’enseigner l’art d’exprimer et de développer ses idées. Les moyens d’un art doivent se conformer aux effets que l’on veut lui faire produire. Dans l’antiquité, où l’imprimerie était inconnue, où le pouvoir chez les nations civilisées avait toujours résidé dans une seule (p. 80) cité, où l’on avait la généralité du peuple à persuader ou à séduire, c’était par la parole que se décidaient les plus grandes affaires : l’im-possibilité d’avoir un grand nombre de copies de toute discussion étendue rendait peu important l’avantage que l’on aurait pu tirer de l’écriture. Lorsque la forme du gouvernement romain fut changée, le peu de tranquillité de celui qui remplaça la république ne permit pas de prendre de nouvelles habitudes. Les anciens ne se sont donc oc-cupés dans leurs écoles que des moyens d’apprendre à parler, et ils avaient poussé cet art à un point qui prouve de quelle importance il était à leurs yeux. Sans doute ils n’avaient pas la prétention de donner le talent ou le génie, de montrer le secret d’avoir de l’esprit ou de l’élo-quence, d’être ingénieux ou sublime, véhément ou pathétique ; mais ils enseignaient des méthodes à l’aide desquelles un homme médiocre pouvait ou prononcer sur-le-champ, ou préparer en très peu de temps un discours régulièrement disposé et fait avec ordre. Ils indiquaient les défauts qui nuisaient soit à l’harmonie du style, soit à l’impression du discours ; ils apprenaient les moyens de produire des effets tantôt par quelques artifices d’harmonie, tantôt par des formes oratoires, piquan-tes ou passionnées, et l’art de dissimuler par là le vide des idées ou l’absence du sentiment. Ils montraient comment, en insérant dans un discours des morceaux brillants, préparés d’avance, on suppléait au défaut de temps, on donnait à ses discours impromptus un caractère imposant, on ajoutait à l’influence qu’ils pouvaient avoir sur les juges ou sur le peuple, en faisant admirer le talent ou les lumières de l’ora-teur, qui paraissait devoir à l’inspiration du moment, et avoir tiré du fonds de son sujet ces fragments riches d’idées ou séduisants par l’ex-pression. Enfin, au sortir de ces écoles, un homme ordinaire devenait un orateur passable, en état de défendre son opinion dans une assem-blée, de soutenir la cause de son client ou la sienne ; de se montrer, sans être humilié, à côté des maîtres de l’art, et de ne point perdre par une élocution triviale et faible le poids que des talents d’un autre genre avaient pu lui donner.
Depuis l’invention de l’imprimerie, au contraire, si on excepte un petit nombre de cas très rares, c’est par l’écriture dans les affaires par-ticulières, et par l’impression dans les affaires publiques, que se déci-dent la plupart des questions, quand bien même le pouvoir résiderait dans une assemblée nombreuse, et dès lors populaire. En effet, comme cette assemblée n’est pas le peuple entier, mais seulement le corps de (p. 81) ses représentants, l’habitude qu’elle prendrait de céder à l’éloquence parlée lui ferait bientôt perdre son autorité, si les raisons écrites n’en-traînaient l’opinion publique dans le même sens, si les discours qui l’ont persuadée, livrés à la presse, n’agissaient avec une force égale sur la raison ou sur l’âme des lecteurs. Ainsi, plus les peuples s’éclaire-ront, et plus la facilité de répandre rapidement les idées par l’impres-sion s’augmentera, plus aussi le pouvoir de la parole diminuera, et plus il deviendra utile d’influer au contraire par des ouvrages imprimés. L’art de faire des discours écrits est donc la véritable rhétorique des modernes, et l’éloquence d’un discours est précisément celle d’un livre fait pour être entendu de tous les esprits dans une lecture rapide.
Maintenant, en quoi consiste cet art, je ne dis pas en lui-même, mais considéré comme faisant partie de l’enseignement établi au nom de la nation ? La puissance publique ne trahirait-elle pas la confiance du peuple, si elle faisait enseigner l’art de séduire la raison par l’élo-quence ? Ne serait-ce pas, au contraire, un de ses devoirs de chercher dans le système de l’instruction à fortifier la raison contre cette séduc-tion, à lui donner les moyens d’en dissiper les prestiges, d’en démêler les pièges ?
Dans l’éducation destinée pour tous, on doit donc se borner à en-seigner l’art d’écrire un mémoire ou un avis avec clarté, avec simplici-té, avec méthode d’y développer ses raisons avec ordre, avec précision d’y éviter, avec un soin égal, la négligence ou l’affectation, l’exagéra-tion ou le mauvais goût.
Le maître particulier pourra de plus enseigner l’art de présenter un ensemble, d’enchaîner ou de classer les idées, d’écrire avec élégance et avec noblesse, de préparer les effets, et surtout d’éviter les défauts que la nature a placés auprès de chacune des grandes qualités de l’esprit. Il enseignerait à ses élèves, en les exerçant sur des exemples, à démêler l’erreur au milieu des prestiges de l’imagination ou de l’ivresse des passions, à saisir la vérité, à ne pas l’exagérer, même en se passionnant pour elle. Ainsi, les hommes nés pour être éloquents ne le seraient que pour la vérité, et ceux à qui le talent aurait été refusé, pourraient en-core plaire par elle seule et faire aimer la raison en l’embellissant (p. 82).

Motifs de donner une liberté plus grande à l’enseignement des sciences particulières

Tandis que les ouvrages enseignés dans l’éducation suivie par tous les élèves seront faits par des hommes qu’une autorité publique en au-ra chargés, on suivra une marche opposée pour les livres enseignés par les maîtres attachés à une science particulière. Ces maîtres, soumis à une règle commune, quant à l’objet et à l’étendue de leur enseigne-ment, ne seraient astreints qu’à choisir eux-mêmes un livre propre à en être la base.
Les livres destinés à l’éducation générale ne contiennent que des éléments très simples, et par conséquent des principes dont la vérité doit être généralement reconnue ; il n’y a donc aucun inconvénient à ce que la puissance publique en dirige la composition ; c’est même un moyen de s’assurer qu’ils seront meilleurs, et d’empêcher que la su-perstition ou la négligence en dénaturent l’instruction. D’ailleurs, ces livres doivent rarement être changés. Les vérités qui, à chaque épo-que, peuvent être regardées comme formant les éléments d’une science, ne peuvent éprouver qu’à la longue l’influence des nouvelles découvertes ; il faut, pour avoir besoin de les réformer, que les progrès successifs de la science aient produit une sorte de révolution dans les esprits. Au contraire, en laissant aux maîtres la liberté de choisir les autres livres, on leur donne un nouveau motif d’émulation, on leur permet de faire profiter leurs élèves de ce que chaque progrès des sciences peut leur offrir de curieux ou d’utile, et en même temps on maintient la liberté de l’enseignement, on empêche la puissance publi-que de le diriger par des vues particulières, puisque nécessairement ces vues seraient alors contrariées par des maîtres plus éclairés, et ayant sur les esprits une autorité plus grande que celle même des dé-positaires du pouvoir. Cette séparation de l’instruction en deux parties, cette différence dans la manière de choisir les livres destinés à l’ensei-gnement, sont le seul moyen de concilier l’influence sur l’instruction, qui est à la fois, pour la puissance publique, un droit et un devoir, avec le devoir non moins réel de respecter l’indépendance des esprits ; c’est le seul moyen de lui conserver une activité utile, sans nuire à la liberté des opinions ; elle pourra servir les progrès de la raison sans risquer (p. 83) de l’égarer, et ne sera pas exposée à retarder la marche de l’esprit hu-main en ne voulant que la régler ou l’accélérer.

Utilité de faire élever un certain nombre d’enfants aux dépens du public

La puissance publique n’aurait pas rempli le devoir de maintenir l’égalité et de mettre à profit tous les talents naturels, si elle abandon-nait à eux-mêmes les enfants des familles pauvres qui en auraient montré le germe dans leurs premières études. Il faut donc, dans cha-cune des villes où se trouvent les établissements du second degré, une ou plutôt deux maisons d’éducation où l’on élève aux dépens de la na-tion un nombre déterminé de ces enfants. En effet, on doit établir une de ces maisons pour chaque sexe : c’est dans l’instruction seule et non dans l’éducation qu’il peut être utile de les réunir. Il serait bon que ces maisons pussent être ouvertes aux enfants entretenus par leurs pa-rents ; non seulement on diminuerait par là les frais de ces établisse-ments, mais c’est le seul moyen qu’ait la puissance publique d’influer sur l’éducation, sans attenter à l’indépendance des familles ; de présen-ter un modèle d’institution, sans lui donner une autre autorité que celle de ses principes et de ses succès ; de prévenir la charlatanerie, les idées exagérées ou bizarres qui pourront corrompre les maisons parti-culières d’institution, sans cependant y gêner la liberté. Mais comment confondre ces enfants sans s’exposer aux effets funestes d’une distinc-tion humiliante entre les élèves qui payent et ceux qui ne payent point ? Si autrefois on est parvenu à s’en garantir dans les maisons où l’on exigeait des preuves, c’est que l’orgueil de la richesse était sacrifié à celui de la naissance, et que ce sacrifice était même une des maxi-mes de la vanité de la noblesse : mais il ne faut pas croire qu’il puisse en être de même de l’orgueil qu’on attacherait au respect pour l’égalité naturelle. Ce sentiment qu’affectent aujourd’hui jusqu’au dégoût les hommes les moins faits pour l’avoir dans le coeur, ne sera de long-temps à la portée des âmes vulgaires. Quand il ne peut être encore l’ouvrage de l’éducation et de l’habitude d’obéir à des lois égales, il n’appartient qu’à cette conscience profonde de la vérité, l’une des plus douces récompenses de ceux qui se dévouent à la chercher, à ce sen-timent d’une grandeur personnelle qui accompagne le génie et surtout la vertu. Mais il est un autre moyen d’éviter l’inconvénient de ce mé-lange de l’enfant du riche avec celui du pauvre. Le but principal de la (p. 84) dépense que s’impose alors une nation est de développer les talents dont on prévoit l’utilité. Ce n’est point une famille qu’on veut secourir ou récompenser, c’est un individu que l’on veut former pour la patrie. On peut donc y appeler également tous les enfants, et confondre par là un honneur avec un secours ; alors cette institution d’enfants élevés aux dépens de l’État devient un moyen d’émulation, et d’une émulation qui ne peut être nuisible.
En effet, on ne doit pas préférer seulement ceux qui ont montré de la facilité, mais ceux qui ont paru y joindre de l’application, un carac-tère heureux et les bonnes qualités de leur âge. Or, il n’est pas dange-reux d’inspirer aux enfants le désir d’être préférés par la réunion de tous ces avantages. Un prix qu’un enfant hautain, vicieux, inappliqué, peut remporter par quelques efforts, n’est qu’un encouragement cor-rupteur qui apprend à préférer l’esprit à la vertu, les applaudissements à l’estime, le bruit des succès à l’orgueil de les mériter. Il n’en serait pas de même de celui qui ne récompenserait d’autres qualités involon-taires qu’un degré un peu supérieur de facilité et d’intelligence, et qui apprendrait à sentir de bonne heure combien il importe de mériter la bienveillance et l’estime. je voudrais donc que les enfants des familles riches fassent aussi, lorsqu’ils le mériteraient, élevés aux dépens du public, que les parents ne vissent dans ce choix qu’une distinction ho-norable. jamais les avantages pécuniaires ne peuvent être regardés comme humiliants en eux-mêmes, sinon par une vanité d’autant plus ridicule que, si on y réfléchit bien, on verra qu’elle est celle de la ri-chesse. Un homme que sa fortune met au-dessus du besoin et même du désir d’augmenter son aisance n’a jamais dépensé son revenu pour lui seul. S’il est généreux, s’il ne se borne pas aux jouissances person-nelles, une partie de sa richesse est nécessairement employée à ces dépenses utiles qu’inspirent l’esprit public ou la bienfaisance ; et ce qu’il recevrait de la nation ne ferait qu’étendre cet emploi respectable de sa fortune. À la vérité, en ne se bornant point à choisir dans les fa-milles pauvres, on encouragera un moindre nombre des talents que le hasard exposait à être négligés ; mais la préférence, à un mérite égal, sera toujours pour le pauvre ; et d’ailleurs, le nombre de ceux à qui on donnera ces secours et qui pourraient s’en passer, sera dans une pro-portion trop faible pour qu’on doive sacrifier à l’avantage d’instruire quelques enfants de plus, celui de maintenir dans l’instruction une éga-lité plus entière.

Troisième degré d’instruction

Je passe maintenant au troisième degré d’instruction : celle qui se-rait générale serait donnée dans le chef-lieu de chaque département, par quatre maîtres qui suivraient chacun un cours de quatre années, et elle consisterait à enseigner les mêmes connaissances, en leur donnant plus de développement et d’étendue. On fixerait, comme dans le se-cond degré d’instruction, les limites de chaque étude, d’après le double principe de s’arrêter à ce qui est d’une utilité immédiate pour les ci-toyens qui ne veulent que se préparer dignement à toutes les fonctions publiques, et d’atteindre, sans les excéder, les bornes de ce qu’une in-telligence médiocre peut entendre, retenir et conserver.
Distribution des sciences entre les maîtres.
Quant aux sciences qui doivent être enseignées séparément, elles seraient les mêmes que dans le second degré, mais on les partagerait entre un plus grand nombre de maîtres.
Un d’eux serait chargé de la métaphysique, de la morale et des principes généraux des constitutions politiques ; un autre, de la légi-slation et de l’économie politique ; le troisième enseignerait les ma-thématiques et leurs applications aux sciences physiques ; un qua-trième, leurs applications aux sciences morales et politiques. La phy-sique, la chimie, la minéralogie, leurs applications aux arts, seraient l’objet des leçons du cinquième. L’anatomie et les autres parties de l’histoire naturelle, leurs usages pour l’économie rurale, occuperaient le sixième. Le septième enseignerait la géographie et l’histoire ; le hui-tième, la grammaire et l’art d’écrire. On n’a pas cru devoir chercher ici une division philosophique des sciences, mais on a suivi celle qui a pu s’accorder le plus avec les liaisons actuelles de leurs différentes par-ties, la nature des méthodes qu’elles emploient ou des qualités qu’elles exigent des écoliers et des maîtres, et ce qui en est une suite néces-saire, avec la facilité de trouver un nombre suffisant d’hommes capa-bles de les enseigner (p. 86).

De l’enseignement des langues anciennes

Si on voulait y joindre l’enseignement de quelques langues ancien-nes, du latin et du grec, par exemple, un seul professeur suffirait pour ces deux langues, dont le cours serait de deux ans. Dans une instruc-tion destinée par la puissance publique à la généralité des citoyens, on doit se contenter de mettre les élèves en état d’entendre les ouvrages les plus faciles écrits dans ces langues, afin qu’ils puissent ensuite s’y perfectionner eux-mêmes, s’ils veulent en faire l’objet particulier de leurs études. Cependant, si les esprits ont renoncé au joug de l’autorité, si désormais on doit croire ce qui est prouvé, et non ce qu’ont pensé autrefois les docteurs d’un autre pays ; si l’on doit se conduire d’après la raison, et non d’après les préceptes ou l’exemple des anciens peu-ples ; si les lois, devenant l’expression de la volonté générale, qui, elle-même, doit être le résultat de lumières communes, ne sont plus les conséquences de lois établies jadis pour des hommes qui avaient d’autres idées ou d’autres besoins, comment l’enseignement des lan-gues anciennes serait-il une partie essentielle de l’instruction géné-rale ? Elles sont utiles, dira-t-on, aux savants, à ceux qui se destinent à certaines professions ; c’est donc à cette partie de l’instruction qu’elles doivent être renvoyées. Le goût, ajoutera-t-on, se forme par l’étude des grands modèles ; mais le goût, porté à ce degré où l’on a besoin de comparer les productions des différents siècles et des langues diver-ses, ne peut être un objet important pour une nation entière. Je deman-derai ensuite si la raison des jeunes élèves sera formée assez pour dis-tinguer, dans ces grands modèles, les erreurs qui s’y trouvent mêlées à un petit nombre de vérités, pour séparer ce qui appartient à leurs pré-jugés et à leurs habitudes, pour les juger eux-mêmes au lieu d’adopter leurs jugements. je demanderai si le danger de s’égarer à leur suite, de prendre auprès d’eux des sentiments qui ne conviennent ni à nos lu-mières, ni à nos institutions, ni à nos moeurs, ne doit pas l’emporter sur l’inconvénient de ne pas connaître leurs beautés. D’ailleurs, l’instruc-tion publique que l’on propose ici n’est pas exclusive ; loin d’empêcher que d’autres maîtres ne s’établissent pour enseigner ce qu’elle ne ren-ferme pas, soit dans l’intérieur des maisons d’institution, soit dans des classes publiques, on doit au contraire applaudir à ces enseignements libres. Ils sont, d’ailleurs, le moyen de corriger les vices de l’instruc-tion établie, de suppléer à son imperfection, de soutenir le zèle des (p. 87) maîtres par la concurrence, de soumettre la puissance publique à la censure de la raison des hommes éclairés. Ainsi, n’excluant rien de ce que les parents veulent faire apprendre, elle doit borner aux connais-sances les plus directement, les plus généralement utiles, l’enseigne-ment qu’elle a revêtu en quelque sorte d’une sanction nationale.

Nécessité d’insister sur l’étude de l’arithmétique politique

je n’entrerai ici dans aucun détail sur l’enseignement des diverses sciences qui font partie de l’instruction : il suffit d’avoir indiqué le but qu’on se propose en les enseignant, pour que ceux qui les ont appro-fondies voient aisément ce qu’il convient d’y comprendre. je n’insiste-rai que sur une seule science, l’arithmétique politique, à laquelle il faudrait donner ici une grande étendue. En effet, cette instruction, que nous appelons générale, est cependant aussi l’instruction particulière qui convient à ceux qui se destinent aux fonctions publiques : elle n’est vraiment l’instruction commune que parce que tous les citoyens doivent être appelés à ces fonctions, doivent être rendus capables de les remplir. (Voy. le, Mémoire.) Ainsi tout le monde concevra aisé-ment l’importance de l’enseignement des sciences politiques propre-ment dites ; mais on connaît moins l’utilité, j’ai presque dit la nécessité de celle-ci, parce qu’elle est encore trop peu répandue, et qu’elle exige la combinaison de deux espèces de connaissances qui ont rarement été réunies. La manière de réduire en tables les faits dont il est utile de connaître l’ensemble et la méthode d’en tirer les résultats, la science des combinaisons, les principes et les nombreuses applications du cal-cul des probabilités qui embrassent également et la partie morale et la partie économique de la politique ; enfin, la théorie de l’intérêt des capitaux, et toutes les questions où se mêle cet intérêt, forment les branches principales de cette science. Sans cesse, dans les discussions relatives à l’administration, et même à la législation, on en sent le be-soin ; et ce qui est pis encore, on l’ignore lorsqu’il est le plus réel. Peut-être croirait-on qu’il est inutile à celui qui exerce une fonction publique d’avoir immédiatement ces connaissances ; que, conduit à ces questions, il peut en demander la solution à des hommes qui ont fait une étude particulière de la science du calcul. Mais on se trompe-rait : l’ignorance des principes de ces calculs et de la nature des résul-tats auxquels ils conduisent, empêcherait d’entendre la solution des questions auxquelles on les appliquerait, et d’en profiter. Si on (p. 88) consulte l’expérience, si on suit avec attention l’histoire des opérations politiques, on verra combien de fautes ont été commises par la seule ignorance de ces principes ; par quels pièges grossiers on a trompé des nations où ces connaissances étaient étrangères ; combien ceux qui passaient pour habiles dans la pratique de ce genre de calcul étaient loin d’en avoir même l’idée. Si on observe les questions qu’amène la suite des événements, on verra que pour prouver la vérité d’un prin-cipe, même purement politique en apparence, l’utilité et la possibilité d’une opération d’économie publique, on a besoin d’avoir une idée de ces méthodes, tandis que l’ignorance d’une proposition très simple, ou le peu d’habitude d’employer le calcul, ont souvent arrêté dans leur marche des hommes d’ailleurs très éclairés. Alors on sentira toute l’uti-lité de faire entrer cette science dans l’instruction commune.
D’ailleurs, en supposant que l’on puisse séparer les principes politi-ques de ceux du calcul, et que les hommes qui exercent les fonctions publiques trouvent moyen d’y suppléer par des secours étrangers, il n’en résultera pas moins qu’alors même une grande partie des vérités et des opérations qui influent le plus sur le bonheur des hommes, se-ront pour eux une espèce de mystère, et qu’ils seront forcés de choisir entre la défiance stupide de l’ignorance et une confiance aveugle. Ils resteront toujours exposés à être trompés, soit qu’ils s’abandonnent à suivre une route qu’ils ne connaissent pas, soit qu’ils refusent de s’y engager. On ne prétend point ici que tous doivent être en état de faire eux-mêmes toutes ces opérations, ou même de connaître les méthodes mathématiques qui y servent de guide : mais il faut que du moins ils entendent les principes sur lesquels ces méthodes sont fondées ; qu’ils sachent pourquoi elles ne trompent point ; à quel degré de précision elles conduisent, et quelle est la probabilité des résultats réels et prati-ques auxquels on est amené par elles.
Enfin, c’est l’ignorance trop générale de l’arithmétique politique qui fait du commerce, de la banque, des finances, du mouvement des ef-fets publics, autant de sciences occultes, et pour les intrigants qui les pratiquent, autant de moyens d’acquérir une influence perfide sur les lois qu’ils corrompent, sur les finances où ils répandent l’obscurité et le désordre (p. 89).

Motifs de l’importance attachée ici aux sciences physiques

On trouvera peut-être que l’on accorde trop dans cette éducation commune à l’étude des sciences physiques ; mais cette étude, étendue à la généralité des citoyens, est le seul moyen de répandre une lumière pure sur toutes les parties de l’économie domestique et rurale, et de les porter rapidement au degré de perfection qu’elles peuvent atteindre, et dont elles sont encore si éloignées. D’ailleurs, indépendamment de l’utilité directe de ces sciences, il est une observation importante que nous ne devons pas laisser échapper. Ces actions -nuisibles, qui ne peuvent être du ressort des lois, dont chacune ne fait à la société qu’un mal insensible, mais dont l’habitude lui est funeste ; tous ces vices cor-rupteurs qui infectent la masse des grandes nations, ont pour premier principe cet ennui habituel né du défaut d’une occupation dont l’intérêt empêche de sentir le poids du temps et le vide d’une âme fatiguée ou épuisée. Il est impossible que de grandes passions ou des intérêts puis-sants remplissent habituellement la vie de ceux qui, ayant une fortune indépendante, ne sont pas obligés de s’occuper des moyens de subsis-ter ou d’augmenter leur aisance. Si les connaissances acquises dans leur éducation ne leur offrent pas une occupation facile et agréable qui leur promette quelque estime, il faut nécessairement qu’ils cherchent des ressources contre l’ennui dans l’intrigue, dans le jeu, dans la pour-suite de la fortune ou des plaisirs. Or, une éducation qui leur aurait fait parcourir les éléments d’un grand nombre de sciences, qui les aurait rendus capables de les cultiver, deviendrait pour eux une ressource inépuisable. Les sciences offrent un intérêt toujours renaissant, parce que toujours elles font des progrès, parce que leurs applications se va-rient à l’infini, se prêtent à toutes les circonstances, à tous les genres d’esprit, à toutes les variétés de caractère, comme à tous les degrés d’intelligence et de mémoire. Toutes ont l’avantage de donner aux es-prits plus de justesse et de finesse à la fois, de faire contracter l’habi-tude de penser, et le goût de la vérité. C’est dans la culture des scien-ces, dans la contemplation des grands objets qu’elles présentent, que l’homme vertueux apprendra sans peine à se consoler de l’injustice du peuple et des succès de la perversité : qu’il prendra l’habitude d’une philosophie à la fois indulgente et courageuse ; qu’il pourra pardonner aux hommes sans avoir besoin de les mépriser, et les oublier sans ces-ser de les aimer et de les servir. C’est donc autant l’utilité morale et (p. 90) indirecte que l’utilité physique et directe de ces sciences qui doit déci-der du plus ou du moins d’importance qu’il convient de leur donner ; et c’est autant comme moyen de bonheur pour les individus que comme des ressources utiles à la société qu’il faut les envisager. En même temps cette occupation, quoique bornée même au simple amusement, ne serait pas cependant une occupation frivole, parce que dans plu-sieurs de ces sciences, et peut-être dans toutes, une partie de leurs progrès dépend aussi du nombre de ceux qui les cultivent. Que cent hommes médiocres fassent des vers, cultivent la littérature et les lan-gues, il n’en résulte rien pour personne ; mais que vingt s’amusent d’expériences et d’observations, ils ajouteront du moins quelque chose à la masse des connaissances, et le mérite d’une utilité réelle honorera leurs sages plaisirs.

III. Des maîtres
Leur état doit être permanent

La fonction d’enseigner suppose l’habitude et le goût d’une vie sé-dentaire et réglée ; elle exige dans le caractère de la douceur et de la fermeté, de la patience et du zèle, de la bonhomie et une sorte de di-gnité ; elle demande dans l’esprit de la justesse et de la finesse, de la souplesse et de la méthode. On sait pour soi tout ce qu’on peut se rap-peler avec un peu d’étude et de réflexion ; il faut avoir toujours présent à l’esprit ce qu’on est obligé de savoir pour les autres. Je n’ai besoin pour moi-même que d’avoir résolu les difficultés qui se sont élevées dans mon esprit ; il faut qu’un maître sache résoudre, et qu’il ait prévu d’avance celles qui peuvent s’élever dans les esprits très dissemblables de ses disciples. Enfin, l’art d’instruire ne s’acquiert que par l’usage, ne se perfectionne que par l’expérience, et les premières années d’un en-seignement sont toujours inférieures à celles qui les suivent. C’est donc une de ces professions qui demandent qu’un homme y dévoue sa vie entière ou une grande portion de sa vie : l’état de maître doit être (p. 91) regardé comme une fonction habituelle, et c’est sous ce point de vue qu’il faut le considérer dans ses rapports avec l’ordre social.

Ils ne doivent pas former de corps

Les maîtres, exerçant des fonctions isolées, ne doivent pas former de corps. Ainsi, non seulement il ne faut ni charger de l’enseignement une corporation déjà formée, ni même en admettre les membres ac-tuels dans aucune partie de l’instruction, parce qu’animés de l’esprit de corps, ils chercheraient à envahir ce qu’on leur permettrait de partager. Cette précaution nécessaire ne suffit pas, il faut que ni les maîtres d’une division du territoire, ni même ceux d’un seul établissement, ne forment une association ; il faut qu’ils ne puissent ni rien gouverner en commun, ni influer sur la nomination aux places qui vaquent parmi eux. Chacun doit exister à part, et c’est le seul moyen d’entretenir entre eux une émulation qui ne dégénère ni en ambition, ni en intrigue ; de préserver l’enseignement d’un esprit de routine ; enfin,, d’empêcher que l’instruction, qui est instituée pour les élèves, ne soit réglée d’après ce qui convient aux intérêts des maîtres.

Leurs fonctions sont incompatibles avec toute autre fonction habituelle

Les maîtres, comme citoyens, doivent être éligibles à toutes les fonctions publiques ; mais celle qui leur est confiée, étant permanente de sa nature, doit être incompatible avec toutes celles qui exigent un exercice continu, et le maître qui en accepterait de telles devrait être obligé d’opter sans pouvoir se faire remplacer.
J’en excepterais cependant les places de la législature. En effet, l’intérêt puissant de les voir confiées aux hommes les plus éclairés semble exiger qu’on n’en écarte point ceux qui ont des fonctions per-manentes, en les obligeant de quitter, pour un honneur de deux an-nées, l’état auquel le sort de leur vie est attaché ; et d’ailleurs cette ex-ception est nécessaire, pour que la non-compatibilité avec d’autres places honorables n’avilisse point les fonctions qui y sont soumises.
Deux ans de remplacement dans un petit nombre de places d’ins-truction ne sont pas un inconvénient qui puisse balancer l’avantage (p. 92) d’ôter à ces fonctions cette apparence d’infériorité, cet air subalterne que l’orgueil, l’ignorance et un mauvais système d’éducation ont dû leur donner.
C’est surtout entre les fonctions ecclésiastiques et celles de l’ins-truction qu’il est nécessaire d’établir une incompatibilité absolue dans les pays où la puissance publique reconnaît ou soudoie un établisse-ment religieux. je dis les fonctions ecclésiastiques, car je ne suppose pas qu’il existe une caste séparée dévouée au sacerdoce même sans en exercer les fonctions. je suppose, ou qu’il n’y a pas de prêtres sans em-ploi, ou qu’ils ne sont distingués en rien du reste des citoyens ; car s’ils étaient séparés des autres individus, si la loi les soumettait à quelque obligation particulière, reconnaissait en eux quelque prérogative, il faudrait que la non-éligibilité remplaçât la simple incompatibilité et s’étendît jusqu’à eux ; autrement, l’instruction tomberait bientôt tout entière entre des mains sacerdotales. C’en serait fait de la liberté comme de la raison ; nous reprendrions les fers sous lesquels les In-diens et les habitants de l’Égypte ont gémi si longtemps. Les peuples qui ont leurs prêtres pour instituteurs ne peuvent rester libres ; ils doi-vent insensiblement tomber sous le despotisme d’un seul, qui, suivant les circonstances, sera ou le chef ou le général du clergé. Ce serait une idée bien fausse que de compter sur l’établissement d’une doctrine re-ligieuse pure, exempte de superstition, tolérante, se confondant pres-que avec la raison, pouvant perfectionner l’espèce humaine sans ris-quer de la corrompre ou de l’égarer. Toute religion dominante, soit par la loi, soit par un privilège exclusif à des salaires publics, soit par le crédit que lui donnent des fonctions étrangères confiées à ses minis-tres, loin de s’épurer, se corrompt nécessairement, et porte sa corrup-tion dans toutes les parties de l’ordre social. Sans nous arrêter aux exemples voisins de nous, qui frappent tous les yeux, mais qu’on ne peut citer sans blesser les esprits faibles et les âmes timides, il suffit d’observer que les superstitions absurdes de l’Inde et de l’Égypte n’en souillaient point la religion primitive ; que, comme toutes les religions des grands peuples agriculteurs et sédentaires, elle avait commencé par un pur déisme mêlé à quelques idées métaphysiques, prises de la philosophie grossière et exprimées dans le style allégorique de ces premiers temps, et que l’ambition des prêtres, devenus les précepteurs de ces nations, a seule converti ces croyances en un vil ramas de su-perstitions absurdes, calculées pour l’intérêt du sacerdoce. Il ne faut (p. 93) donc pas se laisser séduire par des vues d’une économie apparente. Il faut encore moins se livrer à l’espérance d’une perfection mystique, et l’on doit se contenter de former des hommes sans prétendre à créer des anges.

Durée des fonctions des maîtres

L’utilité publique exige que des fonctions qui demandent une lon-gue préparation aient une sorte de perpétuité. On pourrait fixer la du-rée de celle des maîtres à quinze ans pour certaines places, à vingt pour d’autres ; mais, après ce temps, ils pourraient être continués. Cet espace est une grande portion dans la vie d’un homme. Parmi les pro-jets, les plans de travaux qu’un individu peut former, il en est peu qui ne soient terminés dans ce temps, ou assez avancés pour que la crainte d’être obligé de les abandonner ne décourage pas celui qui les entre-prendra. En même temps, cette durée n’excède pas celle pendant la-quelle un homme qui n’est ni trop âgé, ni trop jeune, peut espérer de conserver la même force, la même capacité et les mêmes goûts. Enfin, on peut, sans s’exposer à de trop grandes dépenses, assurer au bout de cet espace, à ceux qui seraient dévoués à une profession et livrés aux études préliminaires qu’elle exige, une récompense suffisante pour les dédommager du sacrifice qu’ils auraient fait de tout autre moyen de fortune. Telle est la seule perpétuité qui convienne à des êtres mortels, faibles et changeants. Une circulation rapide dans toutes les places, une perfection qui dégénère en hérédité, sont également des moyens sûrs qu’elles soient mal remplies, et presque toujours réellement exer-cées par un héritier ou par un subalterne.

Moyens de récompenser les maîtres

La récompense destinée aux maîtres ne doit pas se borner à l’indi-vidu, elle doit s’étendre sur sa famille ; ainsi, on établirait, par exem-ple, qu’une somme égale au tiers des appointements serait censée mise en réserve pour former la retraite des maîtres, et accumulée au taux d’intérêt de quatre pour cent. La moitié de cette somme servirait à leur donner une pension viagère ; la seconde, à former un fonds d’accumu-lation. Si le maître mourait en fonction, ce fonds appartiendrait à ses enfants, à sa femme, et même à son père ou à sa mère, s’ils vivaient encore. Si le maître se retirait, soit après avoir rempli son temps, soit (p. 94) par démission, il jouirait d’abord de l’intérêt du fonds d’accumulation, qui, à sa mort, appartiendrait à sa famille en ligne directe, et ensuite d’une rente viagère telle que le fonds destiné à la produire le donnerait pour une tête de son âge, sans que cependant cette retraite excédât ja-mais les appointements de la place. S’il ne laissait pas d’héritiers en ligne directe, il ne pourrait disposer, après sa mort, que du quart du fonds d’accumulation, fonds qui s’arrêterait lorsqu’il produirait une rente perpétuelle égale aux appointements *.
Nomination des maîtres. Il faut, avant de choisir, pouvoir limiter le choix entre ceux qui ont la capacité nécessaire, et qui conviennent aux places. La fonction de nommer peut être séparée de ces deux jugements ; elle peut l’être aussi de la continuation et de la destitution.
En général, pour remplir une place, on doit chercher à réunir trois conditions : la première, que celui qui est élu ait la capacité suffi-sante ; la seconde, qu’il convienne à la place par des circonstances personnelles et locales ; la troisième, qu’il soit le meilleur de ceux qui


* Supposons une place ayant 600 livres d’appointements, et que par conséquent on accumule un fonds de 100 livres, et aussi 100 livres pour former une rente viagère. Au bout de quinze ans, le maître aurait une retraite de 80 livres de rente foncière, remboursable de 2 000 livres à sa mort, et 174 livres de rente viagère (en supposant qu’il commence sa carrière a vingt-cinq ans) : total 254 livres. Après vingt ans, dans la même hypothèse, il aurait 116 livres de rente foncière, remboursable de 2 900 livres à sa mort, et 275 livres en rente via-gère ; en tout, 391 livres à sa mort, et 275 livres de rente viagère ; en tout, 391 livres. Après vingt-six ans, il aurait 600 livres de retraite, dont 176 livres de rente perpétuelle, remboursable de 4 400 livres, et alors ses avantages n’aug-menteraient plus que pour sa famille. D’où l’on voit, 1° que cette forme de ré-compense ne donne pas un intérêt trop pressant de se perpétuer dans sa place, et en donne cependant un très suffisant à ceux qui sont attachés à leurs famil-les, c’est-à-dire, aux hommes les plus honnêtes, qu’on doit surtout désirer de conserver, 2° qu’elle offre un encouragement non moins suffisant pour une carrière pénible, mais tranquille et sédentaire ; 3° que le trésor public n’ayant rien à payer sur l’accumulation destinée à former une rente viagère, tous ceux qui mourront dans leurs fonctions, profitant d’un excédent sur tous ceux qui y resteraient plus de vingt-six ans, et épargnant encore sur l’accumulation du fonds les trois quarts de ce qui revient à ceux qui ne laissent que des collaté-raux, il s’en faut beaucoup que la dépense réelle soit équivalente au tiers des traitements, et qu’un quart ou même un cinquième serait plus suffisant (p. 95)


réunissent cette capacité et cette convenance. Les deux premières conditions sont plutôt l’objet d’un jugement que d’un choix. Quand même on bornerait le nombre de ceux qui seront déclarés convenir à une place, ou capables de la remplir, si on ne pose cette limite que pour s’opposer à une trop grande facilité d’allonger ces listes, ce juge-ment devrait d’autant moins être regardé comme un véritable choix, que la limite doit être fixée de manière à n’exclure, dans les cas ordi-naires, aucun de ceux qui réunissent les deux conditions exigées.
Il faut que ces jugements et ce choix soient confiés à des hommes en état de juger et de choisir, excepté les cas où la capacité de choisir peut être, jusqu’à un certain point, sacrifiée à un intérêt assez impor-tant pour donner un véritable droit. je dis jusqu’à un certain point. En effet, si le plus habile ou le plus savant doit être préféré ; si les autres qualités ne peuvent, après les jugements qui ont assuré la capacité et la convenance, devenir un motif prépondérant, on ne peut faire nom-mer arbitrairement par des hommes hors d’état de juger, à moins qu’ils ne choisissent rigoureusement pour eux-mêmes et pour eux seuls.
Il n’est pas nécessaire que ces jugements et le choix soient confiés aux mêmes personnes ; il est, au contraire, avantageux de les séparer. On y trouvera plus de facilité pour s’assurer qu’ils seront faits avec plus de lumières ; on peut aussi se flatter de plus d’impartialité dans les premiers jugements, précisément parce qu’ils ne sont pas décisifs, qu’ils ne renferment pas une préférence personnelle. Enfin, il est tou-jours plus difficile d’agir par l’intrigue sur trois jugements séparés, s’ils ne sont pas rendus par les mêmes personnes.
Quant à la continuation dans une même place, après l’expiration de la durée assignée, ce droit appartient uniquement à ceux qui ont intérêt que la place soit bien remplie ; et, non seulement il peut être séparé de la fonction d’élire, mais il doit l’être toutes les fois que, pour leur pro-pre utilité, cette fonction a été remise en d’autres mains. La destitution, enfin, est un véritable jugement pénal, et doit être soumise aux mêmes principes que ces jugements, parce qu’il y a la même nécessité d’assu-rer l’impartialité personnelle. Avant d’appliquer ces règles générales aux choix des maîtres, il est nécessaire de se former le tableau de leurs différentes classes, et des établissements nécessaires pour assurer la bonté de l’instruction (p. 96).

De ceux qui doivent composer l’établissement d’instruction. Nécessité d’un inspecteur d’étude. Ses fonctions

Nous trouvons d’abord les maîtres attachés aux trois degrés divers d’instruction générale ; ensuite ceux qui sont chargés d’un enseigne-ment particulier dans les deux degrés supérieurs de cette instruction. Il faut y ajouter un chef et un économe des maisons d’institution qui doi-vent recevoir les, enfants élevés aux dépens de la nation. Enfin, je crois nécessaire que dans chaque chef-lieu de district et de départe-ment, il y ait un inspecteur d’études à qui l’on confierait en même temps la direction des bibliothèques et des cabinets d’histoire naturelle ou de physique qui doivent y être attachés. Ces derniers établisse-ments sont également nécessaires à l’instruction des enfants et à celle des hommes, à l’instruction commune et à celle qui a pour objet les professions ou l’étude des sciences. Il est bon de les réunir tous sous une même main, afin que, devenant ainsi plus importants en eux-mêmes, le soin de les surveiller mérite d’occuper un homme éclairé, et puisse paraître à ses yeux un moyen de gloire ou un devoir digne de lui. C’est par cette même raison que je propose de joindre cette fonc-tion à celles d’inspecteur des études, parce qu’autrement celles-ci se-raient trop bornées. En effet, elles doivent se réduire à remplacer mo-mentanément les maîtres absents ou malades, à veiller sur l’exécution des règlements donnés aux écoles, à voir si les salles destinées aux études ne menacent ni la vie ni la santé des élèves, à faire les arran-gements nécessaires pour que les réparations de ces salles, les divers accidents qui peuvent survenir, n’interrompent pas le cours des études. En général, l’on remplit également mal et les fonctions qui exigent une assiduité trop fatigante, et celles qui ne s’exercent que de loin en loin. On néglige les premières ; et quant aux secondes, si on ne les néglige pas, on cherche à les étendre au-delà de leurs bornes, et on emploie à se donner de l’importance le temps et les soins qu’on ne peut employer à se rendre utile.

Nécessité d’établir des compagnies savantes

Il est essentiel, enfin, pour le progrès des lumières, et même pour l’établissement d’un système bien combiné d’instruction, qu’il existe (p. 97) une société savante dans chaque première division d’un grand État ; par exemple, en France, dans chaque département. Une seule de ces sociétés suffirait dans chacun pour embrasser l’universalité des connaissances humaines ; on l’affaiblirait en la divisant ; et au lieu d’une société où l’honneur d’être admis serait une distinction, où l’on pourrait espérer de ne voir appeler que des hommes d’un mérite réel, on n’aurait bientôt que de petites sociétés dévouées à la médiocrité. J’ajouterai qu’il est inutile d’exiger de leurs membres la résidence dans le chef-lieu ; leur réunion personnelle n’est nécessaire ni pour qu’il s’établisse entre eux une communication suffisante, ni pour les élec-tions qu’ils peuvent être chargés de faire. Il s’est formé en Italie une société ainsi dispersée, et elle y subsiste avec succès depuis plusieurs années. Par ce moyen, on n’est pas obligé de se borner à ceux qui ha-bitent le chef-lieu, ou qu’on peut y fixer par des places ; les connais-sances plus uniformément répandues sont plus généralement utiles, et l’on profite à la fois des avantages de la réunion et de ceux de la dis-persion des lumières.
Ce n’est pas encore ici le lieu de développer la constitution qui convient à ces sociétés, de montrer combien elles sont nécessaires à l’instruction, non des enfants, mais des hommes, à l’accroissement, et peut-être même à la conservation des lumières ; combien nous som-mes éloignés du moment où elles deviendraient inutiles ; combien il est absurde de les croire sans force pour l’encouragement du génie, et vide de sens de prétendre qu’elles lui ôtent sa liberté. Mais, avant de parler de l’influence que je crois utile de leur donner sur le choix des maîtres, il est nécessaire d’entrer dans quelques détails sur leur nature et sur l’esprit qui les anime.
L’honneur que j’ai d’être attaché depuis longtemps à une des socié-tés savantes les plus célèbres m’impose ici le devoir d’une austère franchise.
Les compagnies savantes doivent se renouveler par leur propre choix.
Il est de la nature des compagnies savantes de choisir elles seules leurs membres ; en effet, puisque leur objet essentiel est d’augmenter les lumières, d’ajouter à la masse des vérités connues, il est clair qu’elles (p. 98) doivent être composées des hommes de qui on peut attendre ces progrès. Eh ! qui donc décidera si un individu doit être placé dans cette classe, sinon ceux qui sont censés eux-mêmes en faire partie ? Toute autre méthode serait absurde.

Examen des reproches qu’on leur fait

On leur a reproché également et que leurs choix appelaient dans leur sein un grand nombre de savants ou de littérateurs médiocres, et qu’elles se faisaient un jeu d’exclure les hommes d’un mérite distingué, qui, par l’indépendance de leur caractère et de leurs opinions, avaient blessé la vanité ou la morgue de ces auteurs à brevet et de ces savants privilégiés. Le premier reproche peut être fondé à quelques égards : le nombre des places étant nécessairement fixé (car un nombre illimité exposerait bien plus à de mauvais choix, et ne serait propre qu’à en-courager la médiocrité), il a dû naturellement arriver qu’au défaut d’un mérite reconnu, la faveur ait influé sur le choix, devenu alors presque arbitraire ; il a dû arriver aussi que les considérations personnelles aient écarté un grand talent pour une, pour deux élections ; mais ja-mais cette exclusion n’a été durable : l’amitié ou la haine ont pu quel-quefois retarder son admission, mais non l’empêcher.
On ne pourrait citer, dans toutes les compagnies savantes de l’Eu-rope, l’exemple d’un seul homme rejeté par ces sociétés, et dont le ta-lent ait été reconnu par le jugement de la postérité ou par celui des nations étrangères. Sans doute, les académies qui s’occupent des sciences physiques ont repoussé courageusement ces charlatans qui, ayant usurpé une réputation éphémère par de hautes prétentions et de magnifiques promesses, n’ont pu séduire les savants aussi aisément que la multitude. Elles n’ont point accueilli l’ignorant présomptueux qui leur annonçait, comme de brillantes découvertes, des vérités de-puis longtemps vulgaires, ou des erreurs déjà oubliées. Elles ont été sévères, même pour ces hommes qui sans véritable science comme sans génie, ont cru y suppléer par des systèmes, par des phrases ingé-nieuses où ils déployaient la séduisante philosophie de l’ignorance. Mais, bien loin que ce soit un tort, c’est, au contraire, la plus forte preuve de l’utilité de ces institutions. Les autres académies, qui ne pouvaient avoir une échelle aussi sûre pour mesurer le talent, ne sont pas moins à l’abri du reproche d’avoir éloigné d’elles les hommes de (p. 99) génie. Celle qui en a essuyé de plus violents, l’Académie française, n’a pas, sans doute, sur sa liste, tous les noms qui ont honoré notre littéra-ture ; mais qu’on examine ceux qui y manquent, et on verra que tous, sans exception, en ont été écartés par la superstition, qui tenait dans un honteux avilissement les dépositaires du pouvoir, lâches ou corrom-pus, et leur dictait avec une hypocrite arrogance les noms qu’elle vou-lait illustrer et proscrire. je demanderai donc comment on peut crain-dre la partialité des académies, si, dans un siècle, dix de ces corps ne peuvent en offrir un seul exemple.
On leur reproche encore un attachement opiniâtre à certaines doc-trines, qui peut, dit-on, les conduire à de mauvais choix, et contribuer à prolonger les erreurs. Celui de l’Académie des sciences de Paris, pour le cartésianisme, en est l’exemple le plus frappant que l’on puisse citer, et par son importance et par sa durée ; cependant son cartésia-nisme ne l’a point empêchée d’admettre, d’appeler des géomètres new-toniens. Ce sont des membres de cette même académie qui, les pre-miers, dans le continent de l’Europe, ont professé hautement le newto-nianisme. Les Cartésiens se bornaient à regarder comme une philoso-phie dangereuse pour la vérité celle qui, ne se croyant pas obligée de remonter à un principe de mouvement purement mécanique, s’arrêtait tranquillement à une loi vérifiée par l’expérience ; et, malgré cette dis-pute de métaphysique, les Cartésiens ne refusaient ni de croire les faits nouveaux qu’ils perdaient leur temps à expliquer par je ne sais quelles combinaisons de tourbillons, ni d’admirer les découvertes de calcul qu’ils gémissaient de voir si mal employées.
On a objecté à ces mêmes compagnies leur répugnance à reconnaî-tre les découvertes, les nouveautés utiles quand elles n’ont pas pour auteurs ou des académiciens, ou des hommes liés avec eux de société ou d’opinion. On peut encore ici en appeler à l’expérience. Depuis que ces sociétés existent (et quelques-unes datent de plus d’un siècle), on ne citerait pas l’exemple d’une seule invention réelle qui ait été rejetée par elles. Sans doute elles n’ont pas voulu les approuver sans preuves ; elles ont distingué soigneusement entre ce qu’on admet d’après une première impression, comme une chose probable qu’on se réserve d’examiner lorsqu’on voudra ou la faire servir de base à une théorie, ou l’employer dans la pratique, et ce qu’on déclare solennellement re-connaître pour une vérité ; mais cette lenteur, cette rigueur scrupuleuse (p. 100) n’est-elle pas le meilleur garant de la sûreté de leurs décisions ? Et des philosophes qui savent que les vérités prouvées ne diffèrent des simples aperçus de l’instinct que par un degré plus grand de probabili-té, pourraient-ils avoir une autre conduite, professer d’autres princi-pes ? Qu’ensuite on examine ces découvertes repoussées avec tant de cruauté ; qu’on écoute sur elles le jugement infaillible que le temps en a porté, on verra qu’elles se réduisent à des demi-vérités anciennement connues ou à de pures chimères ; qu’elles ont été bientôt oubliées, et souvent après avoir expié, par quelques mois de ridicule, leur célébrité usurpée.
La raison se joint ici au témoignage de l’expérience : une société savante s’avilirait elle-même, et la considération de ses membres s’anéantirait par leur refus obstiné d’un homme d’un grand talent. Cette considération n’est fondée que sur la bonté, presque générale, des choix. La gloire de quelques-uns se répand sur les autres ; les grands noms qui décorent une liste académique jettent une sorte d’éclat sur les noms moins célèbres qu’on lit auprès d’eux ; et cette confraternité repousse l’idée d’une infériorité trop prononcée.
Le but de ces sociétés est de découvrir des vérités, de perfectionner des théories, de multiplier les observations, d’étendre les méthodes. Serait-il rempli, si elles ne choisissaient que des hommes incapables d’y concourir ? Et l’habitude des mauvais choix ne les aurait-elle pas bientôt détruites ? Il y a donc une cause toujours subsistante qui, agis-sant dans toutes leurs élections en faveur de la justice, fait qu’au mi-lieu des passions qui se balancent, l’avantage doit être pour elle. Cette force ne pourrait être vaincue que par l’envie, qui s’élèverait contre un homme vraiment supérieur. je ne nierai point l’existence de ce senti-ment, ni sa honteuse influence ; mais admettre un savant dans une académie, ce n’est pas reconnaître en lui une supériorité humiliante pour ceux qui déjà partagent cet honneur. L’homme le plus jaloux du génie de Newton n’aurait pas eu le délire de prétendre qu’il ne méritait pas une place dans une société savante, et le fanatisme, réuni à l’hypo-crisie, a eu besoin d’appeler à son secours d’autres préjugés, pour oser dire que le nom de l’auteur d’Alzire déparerait la liste de l’Académie française. L’envie voulait bien qu’il fût inférieur a Crébillon, mais elle ne le plaçait pas au-dessous de Marivaux ou de Danchet. Enfin, s’il n’y (p. 101) avait que ces grandes injustices à craindre, la force de l’opinion publi-que suffirait pour les empêcher d’être durables.
Il en est de même des jugements des sociétés savantes sur des dé-couvertes, sur des projets. Ne confondons pas ces jugements avec ceux qui sont portés dans les affaires ordinaires de la société. Ici l’ob-jet à juger est constant, il subsiste toujours ; on peut à tous les instants prouver l’erreur d’une décision ; et le juge, placé entre le reproche ou de partialité ou d’ignorance, ne peut échapper à tous les deux. Quelque crédit qu’un académicien ait dans son corps, quelle que soit l’autorité du corps lui-même sur l’opinion, la voix des savants de toutes les na-tions aurait bientôt étouffé la sienne. Ce tribunal, qu’on ne peut ni sé-duire, ni corrompre, garantit l’impartialité de tous les autres ; c’est lui qui distribue la honte ou la gloire. Le savant qui déclare son opinion sur une théorie, sur une invention, juge moins cette théorie, cette in-vention, qu’il ne se soumet lui-même au jugement libre de ses pairs. Ainsi l’amour-propre, la crainte de se déshonorer, répond ici de l’inté-grité des juges, et l’intérêt qu’ils pourraient avoir à mai juger ne peut contrebalancer celui de leur existence scientifique. Une seule erreur suffirait pour la détruire ; plus la découverte rejetée serait grande, bril-lante, utile, plus leur honte serait durable : aussi mériteraient-ils bien plutôt le reproche de trop d’indulgence. On trouve dans ces sociétés plus de talent que d’érudition dans les sciences ; et les inventions ou-bliées y passent souvent pour des inventions nouvelles. La paresse est indulgente, et elle est naturelle à des hommes livrés à la méditation, quand on les arrache à leurs idées pour les forcer à se traîner sur celles d’autrui. Enfin, la présence des hommes supérieurs empêche la médio-crité d’être difficile, et eux-mêmes sont d’autant plus disposés à traiter favorablement les petites choses, que la gloire qui en est le fruit res-semble moins à la leur. Voilà pourquoi l’on peut laisser les compa-gnies savantes se renouveler elles-mêmes, sans craindre qu’elles ces-sent jamais d’être, à chaque époque, la réunion des hommes les plus éclairés, les plus célèbres par leurs talents. Voilà pourquoi on peut se fier à leurs jugements, sans craindre ni les préjugés, ni les systèmes de quelques-uns de leurs membres.
Ces reproches tant répétés de s’emparer de l’opinion, d’arrêter les progrès des découvertes, d’exercer en quelque sorte un monopole sur la vérité comme sur la gloire, sont donc absolument chimériques, et il (p. 102) n’est pas difficile d’assigner la cause de ces vaines accusations. Elle est dans la réunion trop commune d’une grande présomption à beau-coup d’ignorance ; d’une mauvaise tête à des connaissances étendues, mais mai dirigées ; d’une imagination désordonnée au talent de l’in-vention dans les petites choses. Tous ceux en qui on peut observer cette réunion sont les ennemis naturels des sociétés savantes, devant qui ni leurs prétentions, ni leurs erreurs, n’ont pu trouver grâce. L’opi-niâtreté attachée à ces défauts de l’esprit ne leur permet pas de com-prendre qu’on puisse de bonne foi refuser d’adopter leurs opinions, d’admirer leurs prétendues inventions, de reconnaître la supériorité de leurs talents ; ils ne voient que l’envie qui puisse expliquer un phéno-mène si extraordinaire. On me dispensera de prouver cette observation par des exemples. Tout homme qui connaît les détails de ce qui se passe journellement dans les sciences en trouvera sans peine ; mais j’observerai que, parmi les nombreux détracteurs des académies, pris dans le nombre de ceux qui se donnent pour savants, il n’en est pas un seul dont il ne soit facile d’expliquer par ce moyen la mauvaise hu-meur et la haine de ce qu’ils appellent si ridiculement l’aristocratie lit-téraire ; il n’en est pas un seul pour qui on ne puisse dire quelle est l’ignorance grossière, le système chimérique, la vaine prétention qui, repoussée par un jugement sévère, mais à peine juste, ou même par le silence, a été la cause secrète de sa colère.
Joignez-y une foule d’hommes qui, occupés des arts dont les scien-ces sont la base, voient dans les sociétés savantes des juges redouta-bles pour la charlatanerie, et dans leurs membres, des censeurs qui peuvent les apprécier et découvrir leur ignorance, quel que soit le masque dont ils essayent de la couvrir. Ils traînent à leur suite une foule non moins nombreuse de ces gens qui, ignorant même ce que peut être une science, s’irritent de la seule idée qu’un autre homme ait la prétention de connaître ce qu’ils ignorent ; haïssent dans les savants la supériorité de lumières autant que la gloire, et ne pardonnant aux sciences, que ces applications faciles qui ne supposent aucune supé-riorité, favorisent ceux qui se vantent d’avoir fait des découvertes sans rien savoir, parce qu’ils les voient plus près d’eux, parce qu’ils sont les ennemis de leurs ennemis, parce que, enfin, ils recherchent leurs suf-frages que les vrais savants dédaignent (p. 103).
Les sociétés savantes n’ont pas eu besoin de la puissance publique pour se former ; elle les a reconnues et ne les a pas créées. L’Acadé-mie des sciences de Paris existait chez Carcavi ; la société de Londres, chez Oldenbourg ; elles étaient l’une et l’autre l’assemblée des hommes les plus célèbres de chaque nation, et elles le sont encore. Adoptées par les rois, elles ont continué d’être ce qu’elles avaient été, ce qu’elles seraient restées sans eux. Les règlements, souvent contraires à la liber-té, imposés à quelques-unes de ces sociétés, n’en ont pas changé l’es-prit, et il durera tant que leur mobile sera le même ; tant qu’il sera, non une telle vue d’utilité publique, non l’encouragement de tel art néces-saire, mais le besoin naturel aux hommes nés pour la vérité, de s’avan-cer sans relâche dans la route qui y conduit.
L’association des hommes les plus éclairés d’un pays étant une fois formée, qu’elle l’ait été par leur seule volonté, ou que l’autorité l’ait établie, elle subsistera aussi longtemps que les sciences, quand même la puissance publique égarée refuserait de l’adopter et de profiter de ses lumières. Il ne s’agit donc point de créer, de conserver à un corps le privilège exclusif de la science, mais de la reconnaître, de l’encou-rager dans le corps où elle existe, où elle doit exister toujours, quand une fois elle y a été réunie. Et elle doit y exister toujours, parce que l’amour-propre de ceux qui le composent les porte constamment à s’associer les hommes qui ont le plus de talents, et que l’amour-propre de ceux qui n’y sont pas encore admis, leur fait désirer de se trouver sur la liste où se lisent les noms les plus célèbres *.
Ce n’est donc point à leurs règlements, à l’esprit particulier de cel-les qui existent, aux lumières ou aux vertus de leurs membres, que les sociétés savantes doivent cet avantage ; c’est à la nature même de leurs travaux. Si elles ont une bonne constitution, c’est-à-dire, une constitu-tion qui les rappelle sans cesse à leur objet, elles conserveront leur esprit plus longtemps, plus complètement. On ne doit pas s’effrayer de l’exemple des anciennes corporations, investies d’une profession ex-clusive, chargées du maintien d’une doctrine consacrée par la loi ou par la religion. Tout devait naturellement y tendre à fortifier l’esprit du (p. 104)


* L’académie dispersée, qui vient de se former en Italie, est une preuve de cette vérité.


corps, comme dans les sociétés savantes tout, au contraire, tend à le détruire.

Nécessité de ne pas transformer les sociétés savantes en corps enseignants

Le talent d’instruire n’est pas le même que celui qui contribue au progrès des sciences : le premier exige surtout de la netteté et de la méthode ; le second, de la force et de la sagacité. Un bon maître doit avoir parcouru d’une manière à peu près égale les différentes branches de la science qu’il veut enseigner ; le savant peut avoir de grands suc-cès, pourvu qu’il en ait approfondi une seule. L’un est obligé à un tra-vail long et soutenu, mais facile ; l’autre, à de grands efforts, mais qui permettent de longs intervalles de repos. Les habitudes que ces deux genres d’occupation font contracter ne sont pas moins différentes : dans l’un, on prend celle d’éclairer ce qui est autour de soi ; dans l’au-tre, celle de se porter toujours en avant ; dans l’un, celle d’analyser, de développer des principes ; dans l’autre, celle de les combiner ou d’en inventer de nouveaux ; dans l’un, de simplifier les méthodes ; dans l’autre, de les généraliser et de les étendre. Il ne faut donc pas que les compagnies savantes s’identifient avec l’enseignement, et fassent, en quelque sorte, un corps enseignant : alors, l’esprit qui doit les animer s’affaiblirait ; on commencerait à y croire qu’il peut exister pour des hommes voués aux sciences, une gloire égale à celle d’inventer, de perfectionner les découvertes ; l’adroite médiocrité profiterait de cette opinion pour usurper les honneurs du génie, et ces sociétés perdant tous leurs avantages, contracteraient les vices des corps voués à l’ins-truction. Mais il faut qu’elles influent sur l’enseignement par leurs lu-mières, par leurs travaux, par la confiance que méritent leurs juge-ments.
Après cette digression nécessaire, je reviens à mon sujet.

Élection, confirmation et destitution des maîtres

Nous trouvons d’abord des maîtres destinés à l’enseignement géné-ral dans les trois degrés d’instruction. Ces places ne doivent être don-nées qu’à des hommes jugés dignes de les remplir par la société savante (p. 105) établie dans le chef-lieu, et placés par elle sur une liste qui sera formée séparément pour chaque degré. Pour les deux premiers, l’ins-pecteur des études du district, et pour le troisième, celui des études du département, choisiraient sept personnes parmi celles qui sont sur la liste, et qui leur paraîtraient les plus propres à remplir la place va-cante. Il s’agit ici de ces convenances personnelles, qui ne sont jamais mieux appréciées que par un homme seul, intéressé à s’honorer par des choix de la bonté desquels la nature de ses fonctions rend sa propre réputation responsable. Enfin, pour les places du premier degré, les chefs de famille établis dans l’arrondissement choisiraient entre les personnes présentées. Pour le second, ce choix appartiendrait au conseil du district ; pour les autres, àcelui du département.
Viennent ensuite les places de professeurs de sciences particulières attachés aux deux derniers degrés d’instruction. La liste de ceux-ci serait également formée par la société savante du département. Les inspecteurs d’études du district ou du département en présenteraient cinq pris sur cette liste, et le choix entre ces cinq serait fait par un cer-tain nombre de commissaires que la société savante choisirait parmi ceux de ses membres qui ont cultivé la science pour laquelle on de-mande un maître. Si on se rappelle que cette partie de l’instruction n’est pas destinée à tous les élèves, qu’ils pourront indépendamment d’elle acquérir toutes les connaissances nécessaires, et pour eux-mêmes et pour le service public, on verra que l’intérêt commun, qui résulte de l’intérêt particulier de chaque citoyen, doit céder ici à l’avantage général de la société. Cet intérêt immédiat est trop faible pour donner le droit de choisir entre des talents qu’on ne peut appré-cier.
Enfin, comme il ne s’agit pas des qualités propres à l’enseignement dont un homme instruit peut juger jusqu’à un certain point, sans s’être appliqué à la science particulière qui en est l’objet, mais d’un choix de préférence qui exige l’étude de cette science, ce n’est pas à la société savante entière, mais à une commission formée par elle, qu’il faut confier cette fonction. Un autre motif doit déterminer encore à ne pas remettre à des corps administratifs déjà chargés des fonctions publi-ques, un choix qui évidemment ne peut être fait par la généralité des citoyens ; c’est la nécessité de conserver à une partie de l’instruction une indépendance absolue de tout pouvoir social. Cette indépendance (p. 106) est le remède le plus sûr que l’on puisse opposer aux coalitions qui se formeraient entre ces pouvoirs, et introduiraient dans une constitution en apparence bien combinée un corps de gouverneurs séparé de celui des gouvernés. C’est le seul moyen de s’assurer que l’instruction se réglera sur le progrès successif des lumières, et non sur l’intérêt des classes puissantes de la société, et de leur Ôter l’espérance d’obtenir du préjugé ce que la loi leur refuse. C’est le moyen de se préserver sûre-ment de la perpétuité de doctrine si chère aux hommes accrédités, qui, sûrs alors de la durée de certaines opinions, arrangent d’après elles le plan de leurs usurpations secrètes.
L’instituteur et l’institutrice mis à la tête des établissements destinés à l’éducation des élèves entretenus par la nation, seraient d’abord choi-sis sur une liste des personnes déclarées capables par la société sa-vante, et on exigerait au moins des hommes quelques années d’exer-cice de la profession de maître. L’inspecteur des études choisirait sur cette liste cinq personnes, parmi lesquelles les électeurs du district ou du département feraient un choix. Ici, comme il ne s’agit point d’une instruction donnée dans une école publique, mais d’une institution par-ticulière qui a sur les moeurs et sur le caractère une influence plus di-recte, comme c’est un ministère de confiance, et que la capacité une fois assurée, tous les citoyens sont juges des qualités morales qui doi-vent mériter la préférence, le choix ne peut être confié avec justice qu’aux représentants immédiats des chefs de famille, puisque ceux-ci ne peuvent le faire eux-mêmes. L’économe de la maison doit être ab-solument distinct de l’instituteur ; le mélange de ces fonctions inspire naturellement aux enfants une sorte de mépris pour un chef qu’ils s’ac-coutument à regarder comme l’entrepreneur de leur nourriture. Cet économe serait choisi par le directoire des districts ou des départe-ments.
L’inspecteur des études de chaque district serait choisi parmi les membres de la société savante. L’inspecteur du département désigne-rait cinq sujets pour chaque place, et le conseil du district choisirait entre eux. L’inspecteur du département serait pris, ou parmi les mem-bres de cette société, ou parmi ceux des compagnies savantes de la capitale. Un bureau général d’éducation, qui y serait placé, désignerait sur cette liste cinq sujets entre lesquels le conseil du département choisirait ensuite. Lorsque les affaires ont une sorte de généralité, que (p. 107) les détails journaliers n’en forment pas la plus grande partie, ou sont de nature à pouvoir être partagés sans confusion, un bureau très peu nombreux est préférable à un seul homme, même pour les fonctions où l’unité des vues et la promptitude des décisions semblent exiger un agent unique. C’est pour cela qu’on propose ici un inspecteur dans chaque département, et dans la capitale un bureau dont chaque mem-bre serait chargé en particulier des détails relatifs à chacune des cinq, ou plutôt même des trois grandes divisions, entre lesquelles on parta-gerait toutes les connaissances humaines théoriques ou pratiques.
Les élections, ayant toujours lieu entre un nombre de sujets déter-miné, se feraient de la manière suivante. Pour sept éligibles, chaque votant écrirait quatre noms sur un billet, suivant l’ordre de préférence qu’il leur accorderait, et trois, s’il n’y avait que cinq éligibles ; on pré-férerait celui qui aurait la pluralité absolue d’abord des premières voix, ensuite des premières réunies aux secondes, et ainsi de suite. Si plu-sieurs avaient la pluralité absolue, ce qui est possible, dès qu’on passe au-delà des premières voix, on préférerait celui qui aurait le plus de suffrages. En cas d’égalité, on préférerait d’abord celui qui a le plus de voix en ayant égard aux troisièmes, si on s’était arrêté aux secondes ; celui qui a le plus de voix en ayant égard aux quatrièmes, si on s’était arrêté aux troisièmes, ou qu’elles n’eussent pas décidé la chose. Si l’égalité subsistait encore, alors on remonterait aux voix qui n’auraient pas suffi pour donner une pluralité absolue. Par exemple, si elle n’avait été acquise qu’aux troisièmes voix, on préférerait celui qui au-rait eu le plus de suffrages dans les deux premières, et enfin celui qui en aurait eu le plus dans les premières ; et l’âge ne déciderait que dans les cas d’une égalité rigoureuse ; combinaison qui ne se présenterait presque jamais.
Lorsque les inspecteurs d’études, les instituteurs, les maîtres au-raient rempli leurs fonctions Pendant l’espace de temps qui aurait été déterminé, ils pourraient être confirmés de nouveau. Pour les places des premiers établissements, cette confirmation serait faite par les chefs de famille, et pour les autres par les électeurs de district ou de département.
Quant à la destitution des maîtres et des instituteurs, elle ne doit avoir lieu que pour des causes graves et déterminées par la loi. Il paraît (p. 108) que l’on doit réserver à l’inspecteur des études et au procureur-syndic le droit de la demander ; elle doit être prononcée par un jury, où le président du département ferait les fonctions de directeur du ju-gement, et dont les membres seraient pris parmi ceux de la compagnie savante et les maîtres des différents ordres. Quant aux inspecteurs d’études, on suivrait les mêmes principes, à la seule différence que la destitution ne pourrait être demandée que par le procureur-syndic du district ou celui du département.

Choix des enfants élevés aux dépens du trésor public

Pour choisir les enfants destinés à être élevés aux dépens de la na-tion, dans les institutions de district et ensuite dans celles de départe-ment, on peut prendre la méthode suivante. Pour les premiers, on éta-blirait d’abord que le choix se ferait toujours entre un nombre d’en-fants huit fois plus grand, par exemple, que celui des places ; que si on a six places d’hommes à donner, on présentera quarante-huit enfants ; vingt-quatre, si on en a trois de filles. Le nombre des places à nommer ne peut être fixé d’une manière invariable, parce qu’il en peut vaquer par la mort, par la retraite, par l’expulsion des enfants, et que d’ail-leurs, quoique le cours soit de quatre ans, il faut se réserver la possibi-lité de le prolonger dans certaines circonstances, et même de l’abréger dans quelques autres. La nécessité de se proportionner à l’intelligence des enfants en fait une loi. Pour déterminer cette présentation, l’ins-pecteur des études du district en partagerait le territoire en huit parties renfermant à peu près chacune un même nombre d’élèves. Cette divi-sion, présentée au conseil du département et acceptée par lui, ne serait renouvelée que tous les dix ans, et dans le cas d’une inégalité devenue sensible. Dans chacun de ces arrondissements, chaque maître choisi-rait deux de ses élèves ; mais les parents dont les élèves n’auraient pas été choisis auraient le droit de les présenter au concours. Ce choix du maître, ce droit des parents, ne s’étendrait que sur ceux qui, par le voeu séparé de leurs condisciples et celui des pères de famille, auraient été jugés mériter par leur conduite et leur caractère d’être mis au rang des enfants de la nation. Le maire de chaque communauté et les maîtres se rendraient chacun avec les enfants au lieu et au jour désignés par l’ins-pecteur des études ; là, les maires choisiraient parmi les maîtres cinq d’entre eux qui interrogeraient ces enfants, et ensuite désigneraient ceux qui annoncent le plus de capacité. Les enfants présentés seraient (p. 109) conduits au chef-lieu du district, où l’inspecteur des, études et quatre personnes choisies par le directoire du district, parmi les maîtres de l’établissement du chef-lieu, examineraient les candidats, et prononce-raient sur la préférence.
Quant à ceux qui, de l’institution du district doivent passer à celle du département, après un jugement de leurs condisciples et un des maîtres qui déciderait s’ils le méritent par leurs qualités morales, cha-que maître choisirait un certain nombre de ses élèves. L’instituteur, l’inspecteur d’études auraient le même droit, et par conséquent chaque enfant pouvant être désigné par ses différents maîtres, par l’instituteur, s’il a été élevé dans sa maison, et par l’inspecteur d’études, le choix ne dépendrait point de la partialité ou de la prévention d’un seul homme. Le conseil du district nommerait alors quatre maîtres qui, joints avec l’inspecteur d’études, examineraient les enfants, et en choisiraient un nombre égal à celui ou à deux fois celui des places vacantes, selon que le nombre des districts serait plus ou moins grand. Enfin, dans le chef-lieu du département, on déterminerait le choix suivant une forme semblable. Il serait facile de faire de ces élections autant de petites fêtes simples et touchantes, propres à exciter l’émulation entre les en-fants, et même entre les pères de famille.

Motifs de préférer une élection simple à un concours entre les maîtres

Dans cette constitution d’enseignement, on a préféré l’élection pour les maîtres à un concours, à une décision portée d’après un examen public. je regarde ces formes précisément du même oeil que les publi-cistes éclairés considèrent les preuves légales ; ils proscrivent celles-ci, non qu’il soit mauvais en soi de soumettre les preuves à des règles rigoureuses, mais parce que l’état actuel des lumières ne permet pas d’en établir de bonnes, et qu’ainsi le jugement des hommes sages et impartiaux doit être préféré à une règle incertaine qui, n’assurant pas la vérité, peut dès lors conduite à l’erreur. Il en est de même d’un concours ; rien ne peut répondre que les formes de ce concours assu-rent un bon choix, surtout lorsqu’il ne s’agit pas de décider du degré plus ou moins grand d’une seule qualité, mais d’un ensemble de quali-tés diverses et même indépendantes. Si le concours se fait en particu-lier devant des juges éclairés, alors il ne peut devenir qu’un moyen de (p. 110) jeter de l’incertitude sur ce jugement, et de lui ôter la confiance par une opposition nécessaire, entre le choix fait par les juges et ce que rapporteront du concours ceux des candidats qui n’ont pas été préférés. Si, au contraire, ce concours est public, il n’en est pas comme d’un ju-gement sur un fait où tous les spectateurs ayant des lumières suffisan-tes pour être juges, sont des censeurs utiles de la conduite de leurs égaux. Ici, au contraire, les spectateurs incapables de juger favorise-raient celui qui parlerait avec plus de facilité ou de hardiesse, et ne s’apercevraient pas des erreurs grossières où il pourrait tomber, s’il les niait ou les disculpait avec une adroite impudence. Leurs jugements seraient presque toujours contraires à celui des hommes éclairés, et les meilleurs maîtres seraient exposés à perdre d’avance la confiance pu-blique. L’adoption de ce moyen conduirait insensiblement à corrompre les études, à substituer le bavardage à la raison, les connaissances qui amusent à celles qui instruisent, les petites choses qui étonnent un moment à celles qui perfectionnent réellement la raison. En admettant l’examen public pour les élèves, on ne s’écarte pas de ces principes ; en effet, il est aisé de voir que la facilité est, à l’époque où on les Y Soumet, presque le seul signe de talent qu’ils puissent donner ; il est clair aussi que les témoins de l’examen, quelques prévenus qu’ils soient, ne les croiront pas plus habiles que des maîtres, et qu’ainsi leur hardiesse dans la dispute n’en imposera pas. On a proposé de faire concourir les élèves à la nomination des maîtres je crois ce moyen aussi dangereux que le concours d’ailleurs, il ne pourrait être admis que pour les enseignements dans lesquels les élèves, destinés à des professions qui exigent beaucoup de connaissances ou à l’étude des sciences, sont déjà des hommes instruits ; ainsi, ce moyen n’est pas applicable à la partie de l’instruction publique dont nous traitons ici.

Les maîtres doivent être payés sur le trésor public

Les maîtres auront des appointements sur le trésor public, et non des honoraires payés par leurs élèves. On a prétendu qu’il pourrait y avoir plus de justice dans cette dernière méthode de salarier les maî-tres. Mais 1° l’instruction publique n’est pas seulement utile aux famil-les des enfants qui en profitent, elle l’est à tous les citoyens ; ce second genre d’utilité générale et moins direct doit même être placé au pre-mier rang pour l’instruction qu’il n’est pas indispensable d’étendre à tous les enfants, et cependant voilà celle qu’on propose de faire payer (p. 111) car il paraît convenu que l’instruction nécessaire à tous doit être gra-tuite ; 2° le principe de faire contribuer aux charges publiques à pro-portion du revenu n’est pas seulement fondé sur ce que le plus riche a un intérêt plus grand au maintien de la société, mais aussi sur ce que des sommes égales ont réellement pour lui une moindre importance ; 3° l’intérêt public demande que l’on égalise les charges que le hasard peut rendre trop disproportionnées ; tous gagneraient à l’égale distri-bution d’une charge qui serait aujourd’hui pour une famille le tiers du revenu de son chef, et qui pour la génération suivante n’en serait que le trentième ; tandis que, pour une autre famille, elle suivrait une mar-che inverse. Il y a plus d’avantage pour la société si, sur cent familles qui ont des fortunes égales, chacune paye pour l’instruction de deux enfants, que si quelques-unes ne payaient rien, tandis que d’autres payeraient pour l’instruction de dix. En général, dans toutes les dépen-ses utiles à la généralité des citoyens, si les causes qui produisent une disproportion dans le besoin que chacun a de ces dépenses ne sont pas volontaires, la justice, le bien général demandent de les soustraire aux inégalités que le hasard peut produire. On parle de l’émulation que pourrait produire entre les maîtres le désir de multiplier leurs écoliers ; mais cette émulation, fondée sur un motif de profit, est-elle au nombre des sentiments qu’il est bon d’exciter en eux ? Vous voulez les relever dans l’opinion, ne commencez donc point par lier leur gloire à un inté-rêt pécuniaire, le plus avilissant de tous, par faire de leurs gains la me-sure de leur célébrité et de leurs succès. D’ailleurs, cette émulation supposerait un grand concours de disciples, ce qui n’aura pas lieu dans la plupart des établissements, ni pour la plupart des professeurs. Enfin, si cette préférence des disciples produit une véritable émulation pour les genres d’enseignement d’un ordre supérieur confiés à des maîtres vraiment célèbres, on ne peut en attendre, dans les enseignements élémentaires dont il s’agit ici, que l’inconvénient de favoriser ceux qui auraient le talent de la parole, au préjudice de ceux qui auraient la phi-losophie et le talent de l’instruction ; et vous n’encourageriez dans les maîtres que le charlatanisme facile, propre à séduire les parents qui doivent décider du choix.
D’ailleurs, il en résulterait une inégalité plus grande dans l’instruc-tion ; tel homme en état de payer pour son fils une nourriture simple dans une pension, ou dans la maison d’un ami, d’un parent, ne le pour-ra plus, s’il faut y ajouter l’honoraire de plusieurs maîtres. Les villes (p. 112) les plus opulentes, les pays riches auront exclusivement les meilleurs maîtres, et ajouteront cet avantage à tous les autres.
On a conservé dans ce plan l’indépendance nécessaire pour la liberté.
Il me reste à examiner maintenant si l’on respecte assez dans ce plan d’instruction cette espèce d’indépendance, cette possibilité d’une concurrence libre que doivent laisser les établissements nationaux, qui ne sont exclusifs ni par la nature de leur objet, ni par la force même des choses. On peut diviser les institutions publiques en trois classes : celles qui, essentielles à l’ordre social, ont besoin d’être immédiate-ment maintenues par la force publique, tels sont les tribunaux, les éta-blissements pour la police, pour l’administration. Il en est d’autres où l’on pourrait à la vérité laisser la concurrence, mais où elle ne peut exister dans le fait : tels sont certains établissements consacrés à l’uti-lité générale, comme l’éclairage d’une ville, le nettoyage de ses rues, la confection des travaux propres à la navigation, à la facilité des com-munications par terre. Supposons en effet (et la justice semble l’exi-ger) qu’on laisse à la volonté d’un certain nombre de propriétaires la liberté de former d’autres établissements du même genre, il est évident qu’il ne leur serait possible de l’exercer que dans des cas très rares. Enfin, il est des institutions où la concurrence doit être respectée, au point de ne pas mettre obstacle à la volonté de ceux qui ne jugeraient pas à propos de profiter des établissements publics ; ce sont celles qui ont un rapport plus direct soit avec la liberté, soit avec des intérêts plus personnels, dont chaque homme doit exclusivement rester juge. Ainsi, par exemple, la puissance publique peut et doit même, dans cer-tains cas, assurer aux citoyens d’une ville, d’un canton, les secours d’un médecin, d’une sage-femme : cependant, non seulement ce serait abuser du revenu public que d’en multiplier le nombre, mais si on le multipliait assez pour rendre la concurrence impossible, on gênerait la liberté que chacun doit avoir de choisir pour lui-même. Si alors l’utili-té commune ordonne à la puissance publique d’agir, le respect pour la liberté lui prescrit de régler son action de manière à n’offrir que des avantages volontaires, à ne pas se considérer comme dépositaire de l’autorité ou de la force nationale, mais à se conduire comme un parti-culier riche, à qui le sentiment d’une bienfaisance éclairée inspirerait (p. 113) de vastes plans d’institutions publiques, et qui n’a pas le droit de leur donner, même indirectement, une existence exclusive.
L’instruction doit être mise dans cette dernière classe d’établisse-ments, non seulement parce qu’il est nécessaire de conserver aux pa-rents une véritable liberté dans le choix de l’éducation qu’ils doivent à leurs enfants, mais aussi, comme je l’ai déjà observé, parce que l’in-fluence exclusive de tout pouvoir public sur l’instruction est dange-reuse pour la liberté et pour le progrès de l’ordre social. Il faut que la préférence donnée à l’instruction établie ne soit, autant qu’il est possi-ble, que l’effet de la confiance. Je dis autant qu’il est possible, parce qu’il n’est pas moins nécessaire que cet établissement suffise à tous les besoins de la société.
Maintenant, en examinant les détails du plan proposé, on voit d’abord que la gêne imposée aux pères de famille se borne, pour la première éducation, à choisir sur une liste des maîtres assujettis eux-mêmes à une forme d’enseignement ; que partout où la population est un peu nombreuse, rien n’empêche qu’il ne s’établisse d’autres maî-tres ; tandis que dans les autres cantons, si la nation n’en avait pas éta-bli, ces maîtres libres n’auraient même pu exister. On voit de plus en plus que les maisons d’institution restent absolument libres, excepté pour les enfants élevés aux dépens du public. On voit encore que l’ins-truction destinée à tous, dans les deux derniers degrés, peut être éga-lement donnée dans ces maisons d’institution libres, qui peuvent même ouvrir leurs écoles à des externes, sans que pour cela ces élèves soient exclus des autres leçons données par les professeurs pour les sciences particulières. Enfin, ceux-ci ne formant point corps, étant iso-lés les uns des autres, il devient également possible ou qu’il s’établisse un maître pour une de ces sciences, si celui de l’instruction publique n’attire pas la confiance, ou qu’il s’en forme pour les parties des scien-ces que l’opinion jugerait utiles, et qu’une erreur des administrateurs de l’enseignement national en aurait exclues. La dépense qui en résul-terait pour les pères ne peut ici être regardée comme un obstacle ; s’ils sont pauvres, la petite portion pour laquelle ils auront contribué ne peut être une charge pesante, quand même ils ne voudraient pas en profiter, et moins encore en serait-ce une pour les parents riches (p. 114).
Enfin, cet établissement d’un enseignement plus libre, placé auprès de celui qui dirige la puissance publique, et les différentes fonctions attribuées à des compagnies savantes sur lesquelles elle n’exerce au-cune autorité, sont autant de moyens de diminuer l’influence que ceux qui gouvernent auraient sur l’instruction, et d’y substituer celle de l’opinion indépendante des hommes éclairés. Nous avons montré comment, sans tomber dans l’idée absurde de donner un privilège ex-clusif de lumières et de sciences, on pouvait s’assurer de connaître cette opinion, puisque les hommes éclairés, si on les laisse libres dans leur choix, sauront se connaître et se réunir ; et que si la société re-connue par le pouvoir public était tentée de se corrompre, la crainte de voir une société libre se former auprès d’elle serait toujours capable de la contenir. Ainsi la liberté n’a point à craindre le danger d’une instruc-tion dirigée d’après les vues politiques des dépositaires du pouvoir ; ainsi les familles restent libres dans le choix d’une instruction ; ainsi la facilité d’opposer une autre instruction à l’instruction établie, d’y ajou-ter ce qui pourrait y manquer, est à la fois une ressource contre les er-reurs qui peuvent se glisser dans cet établissement, et une espèce de censure toujours subsistante.
Cette liberté d’instruction indépendante s’étendant sur tous les maî-tres, sur l’enseignement de toutes les sciences, sur les maisons d’insti-tution, sur les compagnies savantes, il ne peut rester la crainte la plus légère à ceux qui portent même jusqu’au scrupule l’amour d’une liberté la plus indéfinie ; mais en même temps cette concurrence n’est pas à craindre pour les établissements autorisés, tant que ceux-ci n’auront pas une infériorité marquée ; et la puissance publique aura rempli ses devoirs sans excéder ses droits. jusqu’ici elle a préparé des hommes ; mais elle voudra qu’ils conservent, qu’ils perfectionnent ce qu’elle leur a donné ; elle n’abandonnera pas au hasard le fruit de ses premières institutions, et aux secours donnés sous l’autorité de la tendresse pa-ternelle succéderont des secours offerts aux hommes et dignes qu’une raison indépendante s’empresse de les accepter.

Troisième mémoire

Sur l’instruction commune pour les hommes
Objet de cette instruction.

Je suppose qu’un homme ait reçu une éducation complète, et qu’il en ait profité : elle lui a donné le goût et l’habitude de l’application ; ses connaissances dans les diverses parties des sciences sont assez étendues pour qu’il puisse cultiver à son choix et sans maître celle qu’il veut appliquer à ses besoins, ou vers laquelle sa curiosité l’en-traîne. Qu’il s’occupe de l’éducation de sa famille, des détails d’une administration domestique ; qu’il se livre aux travaux nécessaires pour se rendre plus digne des fonctions auxquelles il peut être appelé, ou qu’il se contente d’examiner, de suivre, soit les projets proposés pour l’utilité commune, soit les opérations des divers pouvoirs établis par le peuple ; que son goût le porte à ne travailler qu’à perfectionner sa rai-son, a remplir par des plaisirs dignes d’un être pensant le vide de sa vie, je le vois s’entourer de livres, chercher à connaître les hommes éclairés, rassembler autour de lui les productions les plus curieuses et (p. 116) les plus utiles du pays qu’il habite, vouloir connaître quelles vérités ont répandu un jour plus égal et plus pur sur les ombres qui nous envi-ronnent encore, quelles nouvelles applications des sciences en ont agrandi l’utilité, quelles inventions ont ajouté à la perfection des arts, quel avantage local il peut en retirer, quel esprit influe sur la composi-tion des lois ou préside aux opérations du gouvernement, vers quel but marche la puissance publique, quels principes la guident, ou quels in-térêts menacent de la corrompre.
Or, ce que cet homme éclairé, actif, animé du désir de savoir ou du besoin de penser, ferait pour lui-même, l’instruction publique préparée aux hommes doit le faire pour tous. Elle doit offrir un guide et un ap-pui à celui qui manque de lumières ou de force pour avancer seul dans la carrière, rapprocher les moyens de s’instruire de celui que la néces-sité en retient éloigné, les faciliter pour celui dont l’activité languis-sante ou la faible raison se rebuterait des premières difficultés. Au mi-lieu du choc des passions et des intérêts, pendant que le génie déploie son activité, que l’industrie multiplie ses efforts, elle veillera sur cette égalité précieuse, premier bien de l’homme civilisé ; elle distribuera d’une main sage et équitable les dons que la nature a semés au hasard.
Réglée comme toute autre sur les besoins les plus généraux, elle aura principalement pour objet : 1° les connaissances politiques ; 2° la morale ; 3° l’économie domestique et rurale ; 4° les parties des scien-ces et des arts qui peuvent être d’une utilité commune ; 5° enfin, l’édu-cation physique et morale.
L’instruction politique ne doit pas se borner à la connaissance des lois faites, mais s’étendre à celle des principes et des motifs des lois proposées.
Il faut non seulement que chaque homme soit instruit des nouvelles lois qui sont proposées ou promulguées, des opérations qui s’exécutent ou se préparent dans les diverses branches de l’administration, qu’il soit toujours en quelque sorte au courant de la législation sous laquelle il doit vivre ; il faut de plus que si l’on agite de nouvelles questions politiques, si l’on cherche à fonder l’art social sur de nouveaux princi-pes, il soit averti de l’existence de ces questions, des combats d’opi-nions qui s’élèvent sur ces principes. Comment, en effet, sans cette (p. 117) instruction pourrait-il connaître et les hommes par qui sa patrie est gouvernée et ce qu’elle en doit attendre, savoir quels biens ou quels maux on lui prépare à lui-même ? Comment sans cela une nation ne resterait-elle pas divisée en deux classes, dont l’une, servant à l’autre de guide, soit pour l’égarer, soit pour la conduire, en exigerait une obéissance vraiment passive, puisqu’elle serait aveugle ? Et que de-viendrait alors le peuple ? sinon un amas d’instruments dociles que des mains adroites se disputeraient pour les rejeter, les briser, ou les em-ployer à leur gré.
je n’ai point la prétention de vouloir changer en publicistes les vingt-quatre millions de citoyens actifs qui, réunis sous une loi com-mune, veulent être libres de la même liberté ; mais, dans cette science comme dans toute autre, quelques heures d’attention suffisent souvent pour comprendre ce qui a coûté au génie des années de méditation. D’ailleurs, on aurait soin, dans cette instruction, de rapporter aux droits de l’homme toutes les dispositions des lois, toutes les opérations administratives, tous les moyens comme tous les principes ; la décla-ration des droits serait l’échelle commune à laquelle tout serait compa-ré, par laquelle tout serait mesuré. Dès lors on n’aurait plus besoin de ces connaissances étendues, de ces réflexions profondes, souvent né-cessaires pour reconnaître l’intérêt commun sous mille intérêts oppo-sés qui le déguisent. Ainsi, en ne parlant aux hommes que de ces droits communs à tous, dans l’exercice desquels toute violation de l’égalité est un crime, on ne leur parlera de leurs intérêts qu’en leur montrant leurs devoirs, et toute leçon de politique en sera une de jus-tice.

L’instruction morale doit avoir pour but de fortifier les habitudes vertueuses, et de prévenir ou de détruire les autres

La morale ne doit pas se borner uniquement à des préceptes ; il faut accoutumer les hommes à réfléchir sur leurs propres actions, à savoir les juger d’après ces préceptes. Il faut, sinon perfectionner, du moins conserver en eux le sens moral * qu’ils ont reçu de la nature, et
* J’entends ici par sens moral la faculté d’éprouver divers degrés de plaisir ou de peine, par le souvenir de nos actions passées, le projet de nos actions futures, le spectacle ou le récit de celles des autres. Cette faculté est une suite nécessaire de (p. 118) que l’instruction a développé. La plupart des hommes ne trouvent dans la vie commune que des devoirs simples, journaliers, faciles à rem-plir ; et leur sens moral s’affaiblirait si, en mettant sous leurs yeux les actions des autres hommes, on n’exerçait point, par les mouvements qu’ils excitent en eux, par les jugements qu’ils sont alors forcés de faire, ce sentiment intime si prompt, si délicat dans ceux qui l’ont cultivé, si lent, si grossier dans presque tous les autres. Ces exemples s’attachent à chaque précepte, le gravent dans la mémoire à côté d’eux, en deviennent en quelque sorte le développement et la preuve.
Combien, d’ailleurs, ne serait-il pas à craindre que des hommes simples ne prissent, même à leur insu, des habitudes vicieuses, parce que le peu d’importance de leurs actions monotones, et presque tou-jours irréfléchies, ne leur permettrait pas de sentir en quoi elles s’écar-tent des principes qu’ils ont reçus ? Ne serait-il pas plus dangereux encore qu’ils ne s’égarassent, si, quelques circonstances les entraînant au-delà du cercle étroit de leurs habitudes, ils se trouvaient obligés de se créer en quelque sorte une règle pour ces actions extraordinaires ? Comment alors se défendraient-ils contre la séduction ? comment ré-sisteraient-ils à ceux qui voudraient les conduire au crime au nom de Dieu ou de la patrie, les mener au brigandage au nom de la justice, à la tyrannie au nom de la liberté ou de l’égalité, à la barbarie au nom de l’humanité ?
Pour remédier au premier de ces dangers, rien ne serait plus utile que de faire contracter à ceux mêmes qui réfléchissent le moins, l’ha-bitude de juger de leurs propres actions, de travailler à les régler sur les principes de la morale, de chercher à se perfectionner eux-mêmes ; et, pour cela, il faudrait donner en quelque sorte à cette habitude une marche technique.
Quoique les principes de la morale monastique n’aient été ni purs, ni justes, ni élevés, cependant la longue attention qu’un grand nombre
saire de la sensibilité physique réunie à la mémoire ; et on en peut expliquer l’origine et les phénomènes sans recourir à l’hypothèse de l’existence d’un sens particulier, comme celui de la vue et de l’ouïe. Quand on prend ce sentiment et non le raisonnement pour guide d’une action réfléchie ou pour motif d’un ju-gement, il prend le nom de conscience (p. 119) d’hommes placés à la tête des monastères ont été obligés de faire suc-cessivement sur l’instruction morale des individus confiés à leurs soins et soumis à leur autorité, l’importance que ces mêmes hommes atta-chaient à dominer les opinions et les sentiments encore plus que les actions, ont dû àla longue leur faire naître des idées utiles à leurs pro-jets, et qu’on peut employer avec succès pour des vues plus grandes et plus désintéressées. Tel est l’usage d’un examen de conscience habi-tuel destiné à faciliter les progrès de la vertu, en montrant ou ceux que l’on a faits ou les obstacles qui les ont retardés.
Cette idée peut être applicable jusqu’à un certain point à la masse entière de la société. Il serait facile de former un tableau simple et rai-sonné des actions bonnes et mauvaises vers lesquelles on est porté par les circonstances communes de la vie, en plaçant à côté de chacune les motifs qui doivent déterminer à l’éviter ou à la faire, en indiquant le principe de morale auquel elle se rapporte, les suites qu’elle peut en-traîner. Ce tableau ne renfermerait pas les violations graves, réflé-chies, des règles de la morale, mais les petites atteintes qu’on s’accou-tume à y porter, les habitudes qui y conduisent, les imprudences qui y exposent. En se rappelant une telle action, on verrait quel principe la condamne, et en lisant ce principe, l’action par laquelle on l’a violé viendrait se replacer dans la mémoire et troubler la conscience ; car le tableau devrait être disposé de manière à pouvoir remplir ce double objet avec une égale facilité, et donner une réponse à ces deux ques-tions :
Parmi les actions que j’ai faites, n’en est-il aucune que je doive me reprocher, et quel reproche mérite-t-elle ?
Parmi ces principes de morale pratique, n’en est-il aucun que j’aie violé ?
Pour remédier au second inconvénient, pour offrir aux hommes peu éclairés un guide qui n’eût jamais intérêt de les gouverner ou de les tromper, on pourrait aussi former des principes de la morale un tableau analytique, tel qu’un homme qui chercherait à juger les actions qu’il lirait, qu’il entendrait raconter, ou dont il serait témoin, qui vou-drait connaître quelle doit être sa conduite dans une circonstance don-née, ou apprécier un conseil qu’il aurait reçu, y trouvât aisément la (p. 120) solution des difficultés que cette décision peut offrir. Ce tableau aurait de même un double objet : sous un point de vue, il renfermerait le sys-tème méthodique des règles de la morale ; sous un autre, celui des di-verses classes d’accueil auxquelles ces principes se rapportent. Au moyen de ces tableaux, un homme pourrait, sans une grande habitude de réflexion, et avec l’instruction la plus commune, faire des progrès dans la morale pratique, suppléer aux lumières qui lui manquent, et en acquérir de nouvelles machinalement et presque sans travail. Ces ta-bleaux différeraient entre eux en ce que l’un contiendrait surtout les principes essentiels de la morale ; l’autre, les règles de conduite qui en sont la conséquence ; l’un se rapporterait aux actions graves, impor-tantes ; l’autre, aux habitudes, aux détails de la vie commune ; l’un montrerait le rapport des actions avec la règle du droit ; l’autre, avec leurs conséquences pour la moralité de celui qui les fait ; l’un appren-drait à juger les actions, à prononcer entre deux conduites opposées ; l’autre, à reconnaître les effets d’une habitude pour les prévenir ou en profiter.

Utilité et difficulté de substituer dans l’économie rurale à une routine aveugle une pratique éclairée par l’observation

L’économie rurale n’est, en général, que l’application de ce que l’expérience a fait connaître de plus certain, de plus profitable, sur les procédés de l’agriculture et l’éducation des bestiaux. Cette expérience se réduit presque partout à d’anciens usages que l’on suit, non parce qu’ils sont les meilleurs, mais parce qu’ils conduisent d’une manière presque sûre à tirer de son exploitation le produit sur lequel on a fait ses arrangements antérieurs. On donne tant pour l’acquisition d’une terre, pour sa location, parce que l’on sait que cette terre exploitée avec un peu plus, un peu moins de soin, et en suivant la méthode usi-tée, coûtera tant de frais de culture, et produira une récolte donnée. Ainsi, ces combinaisons économiques n’ayant elles-mêmes été faites que d’après les usages établis, leur succès ne prouve pas la bonté de ces usages ; l’homme qui cultive bien est celui qui recueille cinq pour un, tandis que son voisin ne recueille que quatre et demi ; ou celui qui, donnant d’une terre égale autant qu’un autre fermier, en retire un profit plus grand ; mais cette supériorité ne prouve pas qu’avec une méthode moins imparfaite il n’eût pas recueilli huit pour un de cette terre, qu’il n’eût pas retiré un intérêt plus grand de ses avances (p. 121).
D’ailleurs, si une manufacture acquiert un degré de perfection de manière à pouvoir donner des choses d’un service égal à un plus bas prix, ou d’un service meilleur à un prix égal, elle détruit les autres ma-nufactures qui ne peuvent soutenir sa concurrence, parce qu’elle-même peut étendre son travail presque indéfiniment. Mais dans l’agri-culture, le terme qu’on peut atteindre est presque toujours, surtout dans les premiers moments, très près de celui dont on est parti ; les aug-mentations sont proportionnelles à l’étendue du territoire de ceux qui ont adopté les méthodes nouvelles ; et jusqu’au moment où elles commencent à devenir générales, ceux qui les ont dédaignées n’éprou-vent qu’une perte peu sensible, et n’ont qu’un faible intérêt à sortir de leur routine. Il y a donc peu d’arts qui aient autant besoin de se perfec-tionner, et qui demandent davantage que la pratique en soit fondée sur des observations suivies et sur des expériences bien faites.
Si, en général, on ne s’y conduit que par une routine aveugle ; si l’intérêt d’augmenter sa fortune l’emporte difficilement sur l’habitude ; si, comme il serait facile d’en citer des exemples, celui même de la conservation de la vie ne peut en triompher, c’est encore moins par préjugé ou par paresse que par l’incertitude de l’utilité des innovations. Un homme peu éclairé, incapable de distinguer une vérité prouvée par l’expérience d’une rêverie annoncée avec une audacieuse importance, doit regarder toute innovation comme un véritable jeu de hasard, dans lequel il ne veut risquer ni sa subsistance ni même une partie de sa fortune. Cette prudence n’est donc point de la stupidité ; car la grande probabilité du succès peut seule justifier des tentatives, quand ce n’est pas la curiosité qui y consacre une partie du superflu. Le défaut d’ins-truction est donc la véritable cause du peu de progrès de l’agriculture, et on ne se plaindra plus de cette haine trop commune pour les nou-veautés, lorsqu’on aura instruit les hommes à les apprécier ; mais ils aimeront à rester à leur place, tant qu’ils ne pourront marcher que dans les ténèbres.
S’il est utile de les instruire des nouvelles découvertes, il ne l’est pas moins de leur en exposer les détails, de manière qu’ils puissent juger eux-mêmes de l’étendue et de la certitude du succès ; de leur ap-prendre comment, par des épreuves en petit, ils s’assureront que des circonstances locales n’en rendent point l’application difficile ou douteuse (p. 122). La méthode d’exposer une découverte n’est pas la même pour le savant auquel on veut la faire connaître et pour le praticien qui doit l’employer. Ce dernier n’a besoin de connaître que les moyens et les résultats, l’autre veut surtout savoir comment ces moyens ont opéré, comment les résultats ont été produits. L’exactitude pour l’un s’arrête au point où elle cesse d’être utile ; pour l’autre elle s’étend jusqu’où les instruments ou les calculs peuvent atteindre ; et, tandis que les consi-dérations de la dépense, du temps, des difficultés à vaincre, disparais-sent pour le savant, elles sont tout pour le spéculateur. Cette diffé-rence sera plus grande encore, tant qu’une instruction plus générale n’aura pas rapproché la langue des savants et la langue vulgaire.
Il est important d’établir une communication rapide de lumières en-tre les hommes qui s’occupent de ce premier des arts. La nature de leurs travaux les attache au soi où ils l’exercent ; ils ne peuvent, sans des secours étrangers, éclairer leur pratique que par les observations faites autour d’eux. Les expériences qui dépendent de la marche des saisons, de l’ordre des productions naturelles, sont lentes et difficiles à multiplier ou à répéter.
Il faut, enfin, que les habitants d’une étendue de terrain, soumise, à peu près, au même climat, connaissent la différence des méthodes qui y sont en usage, des produits qu’on y cultive, des préparations qu’on leur donne, des usages auxquels on les emploie, des débouchés qui leur sont offerts, afin de pouvoir distinguer ce qui, dans ces différen-ces, appartient à la nature, et ce qui n’est que l’effet des habitudes, des opinions, des lois établies. C’est par la réunion de ces moyens que, sans dépense et sans contrainte, on parviendra, peu à peu, à faire por-ter par chaque terre tout ce qu’elle peut produire de plus utile, soit àce-lui qui la cultive, soit à ceux qui en consomment les productions ; car cet intérêt est le même ; et si l’on peut quelquefois les trouver dans une opposition apparente, ce mal a toujours pour cause quelque loi prohi-bitive, quelque atteinte portée à la liberté dans des lieux plus ou moins voisins, à une époque plus ou moins éloignée. Le mal que produisent de telles lois marche rapidement à la suite, tandis que le bien opéré par la liberté se fait avec lenteur ; l’un est l’effet instantané du décourage-ment qui cède à la force, et gémit en silence sous le bras oppresseur de la nécessité ; l’autre l’ouvrage toujours lent de l’industrie, et le fruit tardif de longues épargnes. On doit joindre à l’économie rurale cette (p. 123) partie de la médecine humaine ou vétérinaire qui veille à la conserva-tion des individus, éclaire sur le régime qu’ils doivent suivre, sur les dangers dont il faut les préserver ; celle qui enseigne à traiter les in-commodités légères, à panser les petites blessures ; celle, enfin, qui indique les premiers moyens qu’il faut opposer aux accidents impré-vus, connaissance nécessaire à ceux qui ne peuvent être assurés de trouver à l’instant même des secours éclairés. Ici la philosophie doit balancer les inconvénients de l’ignorance absolue, les erreurs d’une connaissance imparfaite, et les dangers plus grands encore des préju-gés qui en tiennent la place ; elle doit supprimer des conseils salutaires quand une application maladroite les rendrait funestes, mais les don-ner, s’ils peuvent servir à détruire des pratiques fondées sur l’igno-rance, et plus dangereuses en elles-mêmes que par les erreurs de l’ap-plication.

L’instruction commune doit comprendre les découvertes dans les sciences et les arts lorsqu’elles sont d’une utilité générale

Parmi les découvertes dans les sciences et dans les arts, il en est sans doute qui n’intéressent que les savants ou les artistes ; mais il en est d’autres dont l’influence plus immédiate s’étend sur la société en-tière. Il importe à tout homme de savoir que les produits des arts dont il fait un usage habituel ont acquis un nouveau degré, soit de solidité, soit de bonté, ou que, préparés par des moyens plus simples, ils doi-vent baisser de prix ; de connaître les produits nouveaux qu’il peut employer à ses besoins, d’être instruit des vérités qui peuvent l’éclairer sur sa conservation, sur ses véritables intérêts, ou lui offrir des moyens de bien-être.

Nécessité d’instruire les pères de famille sur l’éducation physique et morale

Enfin, il est nécessaire que les hommes reçoivent une instruction méthodique et suivie sur l’éducation physique et même morale des enfants. On peut placer l’ignorance des parents et leurs préjugés au nombre des causes qui dégradent l’espèce humaine, diminuent la durée de la vie, et surtout celle de l’âge pendant lequel l’homme, faisant plus que se suffire à lui-même, a du temps et des forces pour sa famille ou pour sa patrie. La durée moyenne de la vie humaine n’approche peut-être (p. 124), dans aucun pays, du terme auquel la nature lui permet d’atteindre, et on peut regarder cette durée moyenne comme une échelle propre à mesurer avec assez d’exactitude le degré de force des qualités physi-ques, intellectuelles ou morales. Dans un climat semblable, elle pour-rait encore servir à juger de la bonté des lois. Mais lorsqu’on voit que dans un pays, sur un nombre donné d’hommes nés dans un même jour, il en subsiste encore la moitié après quarante ans, tandis que dans un autre, avant la fin de la troisième, ou même de la seconde année, déjà plus de la moitié a cessé de vivre, et que dans le reste, le même point se trouve placé à des hauteurs inégales entre ces deux extrêmes ; lors-qu’il est évident que ces différences ne peuvent avoir pour cause uni-que ni celles du climat, ni celles du gouvernement ; lorsqu’on observe que c’est surtout à la moralité [sic] de l’enfance qu’il faut les attribuer, on ne peut s’empêcher de voir combien le perfectionnement de l’édu-cation physique peut avoir d’influence sur la durée de la vie, et que pour l’accroissement de la population, il importe moins de multiplier les hommes que de savoir les conserver. Ce changement, si important dans son effet général, ne le serait pas moins pour la prospérité parti-culière ; les enfants qui vivent sont une richesse pour les familles pau-vres ; ceux qui meurent après avoir langui quelques années en sont la ruine. Pour l’homme à qui son éducation a donné une constitution saine le travail est un patrimoine ; il n’est, pour l’individu languissant et maladif, qu’une fatigue, un moyen de prolonger une existence péni-ble. L’un peut être heureux et libre sans rien posséder, l’autre est condamné à une dépendance dont à peine les richesses peuvent l’af-franchir.
À ces éléments d’éducation physique, on joindra quelques princi-pes d’éducation morale, propres à donner aux chefs de famille des moyens de diriger vers le bonheur, la sagesse et la vertu, les habitudes que les enfants contractent à mesure qu’ils avancent dans la vie. Sou-mis, comme les hommes, à l’influence des impressions que font sur eux, et les objets que le hasard leur présente, et les discours qu’ils en-tendent, et les actions dont ils sont témoins, et les événements de leur vie, ils ne sont pas défendus par la force d’habitudes plus anciennes, ou par ces intérêts plus puissants que leurs rapports dans la société n’ont pu encore leur donner ; ils doivent donc céder plus aisément à ces impressions, être plus inévitablement modifiés par elles. Si on les abandonne absolument au hasard, quand même on pourrait se flatter (p. 125) qu’ils conserveraient ces grands traits de bonté et de justice originelle, résultat nécessaire des lois de la nature, ne devrait-on pas craindre que ces traits ne perdissent au moins leur pureté ou leur ensemble, comme on voit souvent la régularité que la nature avait donnée à ceux du vi-sage, s’altérer par l’effet des maladies de l’enfance, d’une nourriture plus ou moins saine, d’un travail forcé, et par l’influence de la tempé-rature ou l’insalubrité du climat ? On ne peut sans doute gouverner ici tous les événements, et soustraire absolument ces habitudes à l’empire du hasard ; mais on peut mettre à profit les événements, quels qu’ils puissent être.
Tout ce qui est vraiment indépendant de la volonté humaine peut être utilement employé par une raison éclairée : excepté les mauvais principes qui naissent de la communication avec des hommes corrom-pus, tout peut être plié aux vues d’une éducation bien dirigée. Les bienfaits de la fortune, comme ses revers, le calme et la santé, la tris-tesse ou l’excessive sensibilité qui accompagne les souffrances, les avantages ou les désavantages personnels, donnent également les moyens de former le caractère et le sens moral. Les actions, les senti-ments dont les enfants sont témoins, peuvent fournir des leçons utiles, soit qu’ils méritent d’être imités, soit qu’ils ne doivent inspirer que de l’indignation ou du mépris. Cette science d’employer ce qu’offre la suite des événements, quand on ne peut les diriger à son gré, doit, dans la pratique commune, se borner à un petit nombre de préceptes fondés sur l’observation et sur la connaissance de la nature ; et ces préceptes, développés par des exemples bien choisis, seront facile-ment mis à la portée des hommes les moins instruits. je n’insiste point sur ce qu’on appelle les moeurs. Veut-on en inspirer ? qu’on éloigne, au lieu de les fortifier, ces idées chimériques de pureté, ces sentiments d’une horreur machinale, qui ne sont l’ouvrage ni de la nature ni de la raison ; mais qu’on apprenne aux enfants que celui qui se fait un jeu des peines d’un autre, ou en sacrifie le bonheur a ses fantaisies, n’est qu’un homme dur et barbare, qui, en plaisantant avec légèreté sur son crime, l’aggrave et ne l’excuse pas, que la mode peut absoudre, mais que l’humanité condamne. Faites en sorte qu’un acte d’inhumanité ré-pugne, pour ainsi dire, à leur organisation ; ne les bornez pas à cette probité grossière qui ne respecte dans autrui que son argent : qu’ils sachent que le soin de conserver les forces nécessaires pour remplir l’étendue de leurs devoirs, en est un aussi réel, aussi sacré. Ralliez d’un (p. 126) côté les moeurs à l’intérêt personnel en les présentant comme un ré-gime nécessaire au bonheur ; attachez-les de l’autre aux grands princi-pes de la morale. Si vous éloignez ensuite les enfants de l’oisiveté ; si vous leur donnez le goût du travail ; si vous faites naître le besoin de la bienveillance, de l’estime d’autrui et de la leur, alors soyez sûrs qu’ils auront des moeurs, et s’ils en manquent, ne désespérez encore ni de leurs talents, ni même de leurs vertus.

Enseignement pour les hommes

L’enseignement de ces divers objets doit être établi d’après les connaissances acquises dans la première éducation. Ceux qui en ont parcouru les deux derniers degrés, et qui peuvent encore suivre, s’ils le veulent, les leçons des maîtres attachés aux diverses sciences particu-lières, seront en état de puiser leur instruction dans les livres. Il n’en est pas de même de ceux qui ont été bornés à l’instruction du premier âge. L’enseignement leur est encore nécessaire ; on pourrait donc éta-blir que le maître, chargé de cette première instruction, le serait en même temps de donner chaque dimanche une leçon où seraient admis les enfants sortis des écoles, les jeunes gens des deux sexes, les pères et les mères de famille ; car il faut encore ici bien se garder de séparer les hommes des femmes, de préparer à celles-ci une instruction plus bornée, et d’abuser du nom de la nature pour consacrer les préjugés de l’ignorance et la tyrannie de la force. Une nation ne peut avoir d’ins-truction publique, si les femmes ne peuvent y remplir les devoirs d’instituteurs domestiques ; et pourquoi exclurait-on de fonctions qui doivent employer un grand nombre d’individus, et qui exigent une vie sédentaire, précisément la moitié du genre humain, à qui sa constitu-tion physique en impose la nécessité et en donne le goût ?
Pour des hommes occupés, la plupart, de travaux corporels, le jour de repos peut être aussi un jour d’étude ; car le repos vraiment salu-taire ne consiste pas dans la nullité absolue, mais dans le changement d’action. L’homme qui a travaillé toute la semaine à un ouvrage péni-ble se délasse lorsqu’il exerce son esprit, comme le travail du corps reposerait le savant fatigué par de trop longues méditations.
D’ailleurs, si, par des motifs d’utilité qu’il serait superflu de détail-ler ici, les hommes, au lieu de choisir arbitrairement leurs moments de (p. 127) repos, sont convenus d’y consacrer le même jour, et de l’assujettir à une période régulière, ce jour sera rempli tout entier ou par des affai-res, ou par des divertissements. Le besoin, une activité peu commune, ou la nécessité de presser certains ouvrages, pourront à peine forcer quelques hommes à travailler pendant que les autres se reposent, et les retenir dans leurs ateliers, lorsqu’ils entendent autour d’eux les accents du plaisir et de la gaieté. Destinons donc une partie de ces jours à des occupations instructives ; car les affaires n’occuperont que le plus petit nombre un jour entier de divertissements finirait par l’ennui ; l’ennui conduit à des habitudes dangereuses pour l’économie, pour la santé ou pour la morale ; et c’est rendre à la société un véritable service, que d’offrir librement aux hommes sages un moyen d’employer, d’une ma-nière utile, le jour enlevé à leurs travaux ordinaires.
Dans ces leçons, on présenterait une exposition raisonnée des dis-positions principales de la constitution et des lois, pour en instruire ceux des enfants qui ne les connaissent pas encore, et les rappeler aux autres. On leur exposerait en même temps les nouvelles lois qui se-raient portées, les motifs donnés à ces lois. On leur développerait ce qui, dans les objets d’instruction dont on vient de tracer le plan, peut être mis à leur portée, ce que le temps leur permettrait d’apprendre. Comme enfin les enfants sont sortis des écoles dans un temps où on n’avait pu compléter pour eux l’enseignement de la morale, on achève-rait alors cette instruction, et ce serait un moyen de la rappeler et à la jeunesse et aux hommes faits.
Ne craignons pas l’ennui de ces leçons. Que l’instruction soit facile, et elle deviendra pour eux un plaisir. Ne jugeons pas ces hommes de la nature qui, au milieu de leurs occupations monotones, ne sentent pas le besoin d’être agités par des sentiments vifs, ou occupés d’idées nouvelles, d’après le tourment que nous fait éprouver une activité qui consume plus d’aliments qu’elle n’en peut rassembler. N’en jugeons point d’après notre dédain pour tout ce qui n’est que modestement utile, croyons qu’ils peuvent trouver à apprendre des choses commu-nes un plaisir qu’un retour de vanité ne corrompt point, que l’habitude d’impressions plus fortes n’a point émoussé. Heureux par les seuls sen-timents de la nature, satisfaits d’une nourriture grossière, leur corps, leur âme, leur esprit sont à l’unisson ; et, en tout genre, des aliments simples suffisent à leurs désirs (p.128).

La connaissance des moyens de s’instruire par les livres doit faire partie de l’enseignement

Il faudrait surtout leur apprendre à s’instruire par les livres. Dans quelques genres de sciences, la lecture, indépendamment de tout autre secours, suffit pour tout connaître. Telles sont les sciences mathémati-ques. Les maîtres peuvent faciliter le travail ; la conversation des sa-vants célèbres peut quelquefois faire naître des idées, éclairer sur la marche du génie, sur quelques difficultés qui appartiennent au dernier terme de la science ; mais cette utilité est presque insensible. Il n’en est pas de même des sciences physiques. Eût-on réuni dans les livres toutes les ressources que l’art du dessin ou même la peinture peut leur prêter, ceux qui n’auraient que ce moyen d’instruction n’y puiseraient que des connaissances très imparfaites, toujours vagues et souvent fausses. En général, les livres rendent rigoureusement toutes les idées abstraites, mais ils ne présentent les objets réels que d’une manière incomplète et pénible. Entre ces objets et la peinture que la parole peut en tracer, il reste toujours une différence que la seule habitude d’étudier tour à tour les choses et les livres peut faire disparaître. La description d’une machine ou d’une plante, le récit d’une expérience chimique ne suppléent à la vue ni de la machine, ni de la plante, ni de l’expérience, que pour ceux qui ont déjà des connaissances réelles dans la mécanique, dans l’histoire naturelle, dans la chimie. C’est donc pour eux seuls que le plan ou la description d’une machine est la ma-chine même, que le récit de l’expérience, s’il est bien fait, en met sous les yeux les procédés et les résultats ; qu’enfin, l’idée de l’objet qu’ils n’ont pas vu peut être la même que celle qui, après l’avoir observé, leur serait restée dans la mémoire. Il faut, dans ces différents genres, qu’une instruction prise sur les objets mêmes ait précédé celle que les livres peuvent donner.
Dans d’autres genres, il faut de plus apprendre à les lire. Quelque bien fait que soit un livre, il n’aura jamais qu’une demi-utilité, si celui qui le lit ne sait pas comment trouver, dans un autre, un éclaircisse-ment dont il a besoin, chercher un mot dans un dictionnaire, un objet dans une table, un lieu sur une carte, une époque sur un tableau chro-nologique, ou suivre une description sur une planche. Ce n’est pas tout (p. 129) encore : peut-on répondre qu’un homme ne lira jamais que des ouvra-ges élémentaires qui ne renferment que des vérités ? Il faut donc lui apprendre à entendre aussi les autres livres, à en appliquer les raison-nements et les maximes aux principes sur lesquels il a déjà arrêté son opinion, à ne prendre littéralement ni les figures de style ni les exagé-rations d’idées. Dans tout ce qui n’est ni métaphysique intellectuelle ou morale, ni calcul, ni faits naturels, on aurait peine à trouver des phra-ses qui n’eussent qu’un seul sens. Presque toujours elles ont le double but d’exposer une proposition, et de soutenir l’attention de l’homme à qui on l’expose, en excitant un sentiment, en présentant des images, en choisissant des expressions qui réveillent d’autres idées.
Accoutumés à lire, habitués à des styles divers, ces accessoires nous amusent ou nous intéressent, nous rebutent ou nous ennuient, mais ne nous empêchent pas de saisir, sous l’enveloppe qui la couvre, la proposition qu’on veut nous faire entendre. Il n’en est pas de même de ceux qui n’ont pas cette habitude. Il ne serait pas difficile de faire un récit purement allégorique où, changeant les noms, dénaturant les événements, faisant agir des êtres imaginaires, supposant des faits chimériques, on aurait cependant écrit une histoire réelle très claire pour un certain nombre de personnes, mais absolument inintelligible pour tous les autres, ou plutôt leur présentant, soit un conte, soit (pourvu que le merveilleux y ait été ménagé) une histoire absolument disparate. Or, ce double sens, si sensible dans cet exemple, n’est pas moins réel dans la plupart des livres. Il existe entre les hommes dont l’esprit est exercé et les autres, la même différence qu’entre ceux qui ont ou qui n’ont pas la clef de l’allégorie. Comment donc s’instruire dans les livres, si on n’a pas appris à les bien entendre ?
Les éléments très simples de ce qu’on appelle critique ne sont pas moins nécessaires ; il faut distinguer les caractères et les degrés de l’autorité que donne aux faits ou le genre des livres qui les renferment, ou le nom des auteurs, ou le style et le ton de l’ouvrage, ou, enfin, la nature même de ces faits ; il faut savoir se décider entre les témoigna-ges opposés, et pouvoir reconnaître quand l’accord de ces témoignages devient un signe de vérité.
Le premier mouvement des hommes est de prendre littéralement et de croire tout ce qu’ils lisent comme tout ce qu’ils entendent. Plus celui (p. 130) lui qui n’a pas appris à se défendre de ce mouvement lira de livres, plus il deviendra ignorant ; car on ne sait que des vérités, et toute er-reur est ignorance. La lecture n’apprendrait rien à un homme armé d’une défiance aveugle ; celui, au contraire, qui, résistant à cette im-pression, n’admet que ce qui est prouvé, et demeure dans le doute sur tout le reste, ne trouvera dans les livres que des vérités.

Des livres nécessaires à cette instruction

1° Livres élémentaires qui doivent être la base de l’enseignement des élèves

Voyons maintenant quels livres il est bon de préparer et pour l’ins-truction directe et pour celle qu’on abandonne absolument à la volon-té.
Il est nécessaire d’avoir d’abord des livres élémentaires qui aient pour objet les diverses parties d’enseignement que nous venons d’ex-poser. Ces livres doivent surtout être composés pour les hommes qui ont été bornés au premier degré d’instruction, puisque les livres élé-mentaires destinés aux autres degrés en tiendront lieu pour ceux qui les ont parcourus. Cependant, comme ces nouveaux éléments doivent présenter les objets sous un point de vue plus rapproché des usages communs, ils peuvent encore être utiles, même aux hommes les plus éclairés ; car celui dont la mémoire est la plus sûre, dont la tête est la plus forte, et l’attention la plus libre, est encore bien loin d’avoir à sa disposition tout ce qu’il a su, et même tout ce qu’il a fait.

2° Ouvrages historiques

À ces ouvrages élémentaires, il faut joindre des recueils d’histoires, d’abord par traits détachés, puis renfermant la vie entière de quelques hommes célèbres. On trouverait un modèle en ce genre dans Plutarque pour les vies des guerriers, des hommes d’État : celles qu’il nous a laissées réunissent à une collection précieuse de faits propres à carac-tériser les hommes et à peindre les moeurs, un choix non moins heu-reux de mots ou fins, ou sublimes, ou touchants. Le naturel du style, les réflexions qui, dictées par un sens droit, respirent la bonhomie, la (p. 131) candeur et la simplicité, enfin, ce goût d’une vertu indulgente et mo-deste qui en consacre toutes les pages, ont fait de cet ouvrage une lec-ture délicieuse pour les esprits justes ou les âmes pures et sensibles. Le changement des opinions et des moeurs n’en a pu détruire le charme.
On pourrait employer une partie de cet ouvrage en se servant de la traduction d’Amyot, qu’il serait facile de purger des fautes de langage, sans lui rien ôter de sa naïveté, qui la fait préférer encore à des traduc-tions plus correctes, mais privées de mouvement et de vie ; car il ne faut pas croire que l’agrément du style d’Amyot, la grâce ou l’énergie de celui de Montaigne, tiennent à leur vieux langage. Sans doute l’usage qu’ils font de quelques mots expressifs qui ont vieilli, de quel-ques formes de phrases énergiques ou piquantes, aujourd’hui proscri-tes de la langue, contribuent au plaisir que donne la lecture de leurs ouvrages ; mais rien n’exige le sacrifice de ces mots et de ces phrases. La pureté du style ne consiste pas à n’employer que les mots ou les tours qui sont du langage habituel, mais à ne blesser ni l’analogie grammaticale, ni l’esprit de la langue, dans les mots non usités, dans les formes de phrase ou nouvelles ou rajeunies qu’on peut se permet-tre ; elle exige de ne choquer l’usage que pour s’exprimer avec plus de propriété, de précision, d’énergie et de grâce ; et cette règle est fondée sur la raison même. En effet, toute violation de l’usage produit une impression qui nécessairement occupe une partie de l’attention desti-née pour entendre ce qu’on lit ou ce qu’on écoute : il faut donc ‘un dé-dommagement à cette peine. Ainsi, en préparant pour l’instruction commune l’ouvrage d’un de nos vieux auteurs, rien n’empêche de conserver l’ancien mot, s’il est meilleur, mais rien ne doit non plus empêcher de le corriger, s’il n’a d’autre mérite que d’être en désuétude. Il serait plus nécessaire encore de retrancher des vies de Plutarque les prodiges, les contes, les faux jugements, les opinions absurdes qu’on y trouve si souvent. Ceux qui cherchent à connaître l’esprit du temps où il a vécu liront ses oeuvres telles qu’il les a laissées ; ceux qui ne veu-lent qu’une lecture agréable et utile ne perdront rien à ces retranche-ments.
On pourrait, en imitant Plutarque, donner aussi la vie des hommes illustres modernes, et l’on préférerait les compatriotes. Il ne serait pas difficile d’écrire philosophiquement la vie chevaleresque de Bayard ou (p. 132) de Du Guesclin. Les hommes devenus égaux sous l’empire de la rai-son, peuvent contempler avec plaisir comme avec fruit, au milieu de l’espèce humaine avilie, ces âmes vraiment nobles que les préjugés qui les asservissaient n’avaient pu dégrader, et qu’une fausse hauteur n’avait pas rabaissées. Ils verront avec intérêt les efforts que le cou-rage a faits pour la liberté rendus inutiles par l’ignorance, et partout l’inégalité ramenant la tyrannie. Ils admireront quelques hommes rares s’élevant au-dessus de leur siècle, et ne prenant de ses erreurs qu’assez pour ne pas rendre trop invraisemblable qu’ils aient pu lui appartenir.
Les éloges faits dans les académies donneraient des modèles pour la vie des savants, des philosophes, des littérateurs célèbres. Dans les siècles de préjugés, ceux qui ont éclairé les hommes ont diminué sou-vent le mal que leur faisaient ceux qui les gouvernaient, et dans un siècle de lumières toute vérité nouvelle devient un bienfait. L’histoire des pensées des philosophes n’est pas moins que celle des actions des hommes publics une partie de l’histoire du genre humain. D’ailleurs, les vertus simples d’hommes heureux par l’indépendance et par l’étude, sont d’une imitation plus facile, plus générale que les vertus publiques d’un général ou d’un chef de nation. Il serait utile que tout homme eût les vertus d’un sage, mais bien peu trouveraient à employer celles d’un héros ; et il n’est pas à désirer que beaucoup en aient ni le désir ni le besoin *.
Si des contes d’invention sont préférables pour les enfants, dont l’esprit naissant encore a besoin que les événements qui doivent lui servir de leçons se proportionnent à sa faiblesse, l’histoire convient mieux aux hommes. Sans être moins morale, dès qu’on est en état de l’entendre, elle est de plus une leçon d’expérience ; elle montre non seulement ce que l’on doit, mais aussi ce que l’on peut faire.
D’ailleurs, si les romans sont utiles, c’est surtout quand ils cachent l’intention de l’être. Ils ne sont donc pas du nombre des livres que la puissance publique doive destiner à l’instruction directe.


* On pourrait également se servir de ces éloges, mais avec des changements. Ce projet a été exécuté en partie par M. Manuel (p. 133)

3° Un dictionnaire, un journal, un almanach

À ces ouvrages pour l’instruction des hommes on doit joindre des dictionnaires, des almanachs, des journaux. Ainsi, il faudrait une pe-tite encyclopédie très courte, et précisément à la portée de ceux qui n’auraient reçu que le premier degré d’instruction : il faudrait qu’ils pussent y trouver l’explication des mots qu’ils n’entendraient pas dans les livres, les connaissances les plus usuelles, celles qui forment, en quelque sorte, le corps de chaque science ; enfin, l’indication des li-vres dans lesquels ils pourraient s’instruire davantage. On y ajouterait un journal qui renfermerait les nouvelles lois, les opérations adminis-tratives, les découvertes dans les sciences, les nouvelles pratiques dans les arts, les faits intéressants de l’économie rurale. Enfin, on ras-semblerait chaque année, dans un almanach, ce que ce journal renfer-merait de plus intéressant, de plus utile à conserver.
On pourrait y répéter quelques tables utiles d’éléments nécessaires à connaître, et qu’il est commode de pouvoir retrouver à volonté sans en charger sa mémoire, telles que les époques principales, quelques éléments du système général du monde, les poids et mesures, la tem-pérature moyenne, la population, les productions les plus générales, les plus utiles des divers pays ; le tableau de l’organisation politique de la nation. Cet almanach aurait une partie commune à toutes les divi-sions du pays, et une particulière pour chacune d’elles. On ferait en sorte que le même ouvrage, suivant que l’on en prendrait plus ou moins de parties, pût convenir à tous les degrés d’instruction et d’inté-rêt. Ces livres doivent être écrits d’un style simple, mais grave. Le bonhomme Richard peut multiplier les proverbes ; mais la puissance publique manquerait au respect qu’elle doit au peuple, si des ouvrages adoptés par elle avaient ce genre de familiarité qui annonce une supé-riorité dont on veut bien faire le sacrifice.

Ouvrages que l’on doit se borner à encourager

jusqu’ici il n’est question que des ouvrages dont la puissance publi-que doit ordonner et diriger l’exécution ; mais il en est d’autres qu’il faut se borner à encourager. Chaque chef-lieu d’instruction doit avoir une bibliothèque ; et en désignant des ouvrages pour être mis, les uns (p. 134) dans les bibliothèques des districts, les autres, en plus grand nombre, dans celles des départements, on aura un moyen d’accélérer la compo-sition, la publication des livres utiles, et, en quelque sorte même, d’après leur degré d’utilité, sans être obligé à une nouvelle dépense. Ce serait à la fois et un avantage réel et une marque d’honneur pour un écrivain, que de voir ses ouvrages placés dans cette liste ; mais il fau-drait avoir soin de n’employer de cette manière qu’une partie des fonds destinés à chaque bibliothèque, et laisser à celui qui en sera chargé l’emploi libre du reste. Par ce moyen, la puissance publique ne pourra affecter sur les opinions une domination toujours dangereuse, en quel-que main qu’elle soit confiée, et, ici comme ailleurs, on sera fidèle au principe de ne rien diriger qu’en respectant l’indépendance.
Je placerais au nombre des travaux qu’il est bon d’encourager, d’abord une édition abrégée des auteurs du seizième, du dix-septième, et même d’une partie du dix-huitième siècle qui ont une réputation méritée ; tels que Descartes, la Motte le Vayer, Arnaud, Bayle, Nicole, etc. ; car il peut être aussi utile, aussi intéressant de connaître la ma-nière de voir de ces hommes célèbres, qu’il est impossible de les lire, vu l’étendue de leurs ouvrages et ce qu’ils renferment de fastidieux, aujourd’hui que les hommes n’ont plus les mêmes opinions, ne sont plus occupés des mêmes intérêts. En effet, à mesure que les livres se multiplient, qu’il nous en reste d’un plus grand nombre d’époques, les progrès des lumières changent en absurdités ce qui passait pour des vérités éternelles, et font mépriser des questions qu’on croyait impor-tantes. Les petits détails excitaient chez les contemporains la curiosité et l’intérêt ; à peine la postérité veut-elle connaître les masses : on avait besoin de prouver longuement ce dont on ne doute plus aujour-d’hui ; souvent même la forme, la nature des preuves ne sont plus les mêmes : ce qui satisfaisait autrefois tous les esprits ne serait plus qu’un ramas inutile de lieux communs ou de vagues hypothèses. Ainsi les livres cessent de pouvoir être une lecture commune après une pé-riode de temps d’autant plus courte, que la marche de la raison a été plus rapide, ou il faut, en leur faisant subir des retranchements, les rendre intéressants pour tous les lecteurs ; tandis que les savants seuls liraient encore ces originaux, ces abrégés bien faits suffiraient même aux hommes éclairés (p. 135).
Mais il ne faudrait pas ici, comme nous l’avons proposé pour les vies des hommes illustres, destinées à l’éducation morale, retrancher ce qui ne tend pas directement à l’instruction, et on doit y laisser tout ce qui caractérise l’auteur ou le siècle. Ces livres doivent être des mé-moires pour l’histoire de l’esprit humain, de ses efforts, de ses chutes ou de ses succès dans les arts, dans les lettres, dans les sciences, dans la philosophie. Celui qui se borne à ne connaître que l’époque où il vit, eût-elle sur celle qui la précède une supériorité marquée, s’expose à en partager tous les préjugés ; car chaque génération a les siens, et le plus dangereux de tous serait de se croire assez près des dernières bornes de la raison pour ne plus en avoir à craindre. Une partie des ouvrages des mathématiciens, des astronomes, des physiciens, des chimistes devrait entrer dans cette collection. Quoique les progrès de ces scien-ces aient amené de nouvelles méthodes, il est bon de connaître celles qui les ont précédées, de pouvoir y observer la marche du génie, de le voir aux prises avec les difficultés dont nous nous jouons aujourd’hui.
Une autre entreprise non moins digne d’encouragement serait la traduction de tous les livres un peu importants qui paraissent dans les diverses langues de l’Europe sur les sciences, sur la politique, la mo-rale, la philosophie, les arts, l’histoire, les antiquités. Par ce moyen, chaque nation tout entière profiterait des progrès de tous les peuples : une communication de lumières presque instantanée s’établirait entre eux, et la France qui en serait le foyer en retirerait les principaux avantages. Ses grands écrivains ont rendu la langue française celle de tous les hommes éclairés de l’Europe ; déjà plusieurs nations ont adop-té les formes plus simples, plus méthodiques de nos phrases, en sorte que leurs langues ne diffèrent presque plus de la nôtre que parce qu’el-les emploient des mots différents et différemment modifiés. Or, si la connaissance du français ajoutait au plaisir de pouvoir lire nos bons ouvrages, l’utilité de trouver dans nos traductions tout ce qui dans les autres langues mériterait d’être connu presque au moment où ceux qui les entendent peuvent en profiter, elle obtiendrait bientôt l’honneur de devenir véritablement une langue universelle. Et de quelle utilité ne nous serait pas cet avantage ! Aujourd’hui aucune autre nation ne pourrait ni nous le disputer, ni nous empêcher de nous en saisir. Deux seulement pourraient lutter avec la nôtre par le nombre des hommes qui les parlent, par l’étendue des pays où elles sont d’un usage com-mun, par le mérite et la multiplicité des livres déjà publiés dans ces (p. 136) langues, ou que chaque année voit paraître ; enfin, par le rôle impo-sant que ces nations jouent dans l’Europe. C’est la langue allemande et la langue anglaise ; mais leur usage est moins répandu chez les nations étrangères que celui du français ; et cette seule raison, quand même elles imiteraient le projet que nous indiquons ici, suffirait pour faire irrévocablement pencher la balance en notre faveur.

Facilité de composer les divers ouvrages nécessaires à l’instruction

Dans ces mémoires, j’ai souvent parlé de livres élémentaires desti-nés aux enfants ou aux hommes, d’ouvrages faits pour servir de guide aux maîtres chargés d’enseigner ces premiers éléments, de tableaux composés d’après différentes vues d’instruction. Peut-être n’est-il pas inutile d’avertir ici que j’avais formé le projet de ces ouvrages et pré-paré les moyens nécessaires pour les exécuter ; qu’ainsi je n’ai proposé aucune idée sans m’être assuré qu’il était possible et même facile de la réaliser. L’espérance de contribuer à faciliter les progrès de la raison, à en répandre plus promptement, plus également les principes dans les générations qui doivent nous remplacer, de les préparer, en s’emparant de leurs premiers instants, à recevoir ou à découvrir les vérités que la nature leur a réservées, m’aurait inspiré le courage de me livrer à ce travail. Au milieu du spectacle affligeant des erreurs et des vices qu’el-les ont fait naître, il est consolant de pouvoir reporter ses jouissances vers l’avenir ; et c’est là que surtout elles existent pour ceux qui, à tou-tes les époques. comparant ce qui est avec ce qui pourrait être, ne peuvent jamais voir que dans l’éloignement le bien qu’ils conçoivent ; car telle est la loi de la nature, rarement sujette à des exceptions pas-sagères amenées par des événements extraordinaires, que la raison devance toujours le bonheur, et que le sort de chaque génération soit de profiter des lumières de celle qui l’a précédée, et d’en préparer de nouvelles, dont celle qui la suivra doit seule jouir. Les générations naissantes n’opposent ni des préjugés, ni des passions, ni de fausses combinaisons d’intérêt personnel au bonheur qu’on veut répandre sur elles ; on n’a pas besoin qu’elles y consentent. Le bien qu’on leur fait d’avance est pur et ne coûte pas même de larmes aux méchants. Pour-quoi le plaisir d’y concourir ne serait-il pas encore assez attrayant, quand aucune gloire n’y viendrait mêler sa séduction ? N’y a-t-il donc que la gloire qui puisse donner le courage de vaincre les difficultés ou (p. 137) les dégoûts du travail ? Et le plaisir de l’utilité qu’on prévoit dans un avenir éloigné ne peut-il pas suppléer à celui de poursuivre et de saisir des vérités cachées encore à tous les yeux ? Pourquoi ne jouirait-on pas du bien qui n’existe pas encore, et qui durera, comme on jouit du bien qu’on a fait, et qui peut-être n’existe déjà plus ? Mais ce n’était pas même l’idée d’une utilité générale qui m’avait porté à m’occuper de ces projets. Ne suffisait-il pas qu’ils ne fussent point inutiles à quel-ques individus ou à moi-même, car nos enfants sont trop près de nous, pour que leur bonheur ne soit pas un intérêt personnel et le premier de tous ?

De l’instruction que l’on peut trouver dans les cabinets de machines, d’histoire naturelle, etc.

À l’instruction puisée dans les livres s’unira celle que l’on peut trouver dans les cabinets d’histoire naturelle et de machines, ou dans les jardins de botanique, établis dans chaque chef-lieu. On aura soin de rassembler de préférence les objets qui se trouvent dans le pays même, et dont la connaissance a, pour ceux qui l’habitent, une utilité plus prochaine. On choisira les modèles des machines qui peuvent être employées dans les cultures qui y sont en usage, dans les arts qu’on y pratique, dans les manufactures qui y sont établies. On placera dans les jardins les plantes du pays qui sont employées dans la médecine ou dans les arts, celles dont on croirait utile d’y encourager la culture, cel-les, enfin, qu’il est bon de faire connaître pour apprendre à se préser-ver du mal qu’elles peuvent faire, soit à l’homme, soit aux animaux. Ces cabinets seraient ouverts aux citoyens à certains jours, et les di-manches, les professeurs chargés de l’enseignement particulier des sciences naturelles y feraient une leçon et répondraient aux questions qui leur seraient proposées.
Il est nécessaire d’enseigner les moyens de s’instruire soi-même par l’observation, et surtout la pratique des observations météorologiques.
Mais il ne suffit pas d’avoir multiplié les moyens de s’instruire par l’observation, si l’on n’y joint point des leçons sur l’art et les moyens d’observer. Bergmann en a donné un modèle pour la minéralogie : on en trouvera d’autres dans les ouvrages des botanistes pour la manière (p. 138) d’observer les plantes ; et il ne serait pas difficile de mettre les princi-pes vraiment essentiels de cet art à la portée de tous les esprits. On insisterait sur celui de faire les observations météorologiques. L’in-fluence des variations de l’atmosphère sur les productions de la terre, sur la santé des hommes, sur le succès même de plusieurs opérations des arts, rend ces observations très importantes. Il est vraisemblable que nous ne sommes pas éloignés du temps où il deviendra possible de prévoir ces variations, non pas avec l’exactitude et la précision des prédictions astronomiques, mais avec une probabilité assez grande pour qu’il soit beaucoup plus utile de prendre ces conjectures pour rè-gle, que de s’abandonner au hasard. Ces sortes de prédictions ne sau-raient être générales ; mais, suivant la nature des phénomènes, elles peuvent embrasser des espaces plus ou moins grands. Ainsi, on prédi-rait avec une égale justesse le temps qu’il doit faire dans une telle val-lée, et celui qu’il doit faire dans telle autre ; mais la prédiction ne se-rait pas la même pour toutes deux. Les phénomènes des marées, qui dépendent d’une cause générale plus simple, et dont l’effet est moins altéré par d’autres influences, ne suivent pas rigoureusement les mê-mes lois ni dans les diverses mers, ni sur des côtes différentes, ni même sur tous les points d’une même côte ; mais la théorie générale rend raison de toutes ces inégalités. Aussi serait-ce tout au plus à ce point que l’on pourrait porter la perfection des présages météorologi-ques.
Une autre considération oblige d’insister sur cet objet ; c’est que les hommes de la campagne se sont déjà fait un art de prédire qui, bien que dénué de toute vraie méthode, et souvent dirigé par des préjugés, n’est pas absolument chimérique. Il est impossible de les empêcher de s’y livrer ; et dès lors il devient nécessaire de leur apprendre à le per-fectionner. Les signes naturels qui servent de base à leurs présages peuvent éclairer sur les conséquences qui résultent des observations faites avec les instruments, comme l’usage de ces instruments peut leur apprendre à faire de ces mêmes présages un usage plus sûr. J’ai-merais à trouver dans chaque ferme un thermomètre, un baromètre, un hygromètre, et dans quelques-unes, un électromètre, enfin, un registre où le cultivateur aurait écrit ses remarques ; à le voir se servir de ses propres lumières, juger les traditions antiques comme les opinions modernes, et s’élever à la dignité d’homme par sa raison comme par ses moeurs (p. 139).

Les sociétés savantes servent à l’instruction en dirigeant les opinions

Parmi les moyens d’instruction pour les hommes, nous compterons encore les sociétés savantes. Il ne s’agit pas ici de leur influence sur le progrès des sciences et des arts, mais de celle qu’elles ont par leurs jugements et par leurs opinions. Il est impossible de supposer une ins-truction telle, que chaque homme soit en état de juger par lui-même de tout ce qui peut être utile, d’apprécier toutes les idées, toutes les inven-tions nouvelles ; car, de cela seul qu’elles sont nouvelles, il en résulte que, comme il a fallu du génie ou du travail pour les trouver, il faut, pour les juger au moment où elles paraissent, des connaissances qui se rapprochent de celles dont les inventeurs ont eu besoin dans leurs re-cherches. L’inégalité des esprits, celle du temps employé à s’instruire, la multiplicité des professions qui n’exercent point les facultés intel-lectuelles, ou qui les concentrent sur quelques objets, rend ce degré de perfection impossible. Il est donc utile qu’il existe des juges sur les lumières desquels la raison du commun des hommes puisse s’appuyer, et qui les dispensent, non de s’instruire, mais de choisir leur instruc-tion. Il leur est utile d’avoir un signe auquel ils puissent reconnaître l’opinion des hommes éclairés, qui, lorsqu’elle est unanime et définiti-vement formée, se trouve presque toujours d’accord avec la vérité ; et voilà ce qu’ils trouveront dans un système de sociétés qui embrasserait toutes les sciences et tous les arts.
Ces guides n’égareront que bien rarement tant que ces sociétés ren-fermeront l’élite des hommes éclairés ; et si elles cessaient de la ren-fermer, elles perdraient leur autorité avant qu’elle pût devenir dange-reuse. Quand bien même la puissance publique égarée voudrait la maintenir, ses efforts seraient inutiles. Dès l’instant où les querelles du jansénisme ont appris que la Sorbonne n’était plus l’élite des théolo-giens, ni la puissance royale, ni la protection du clergé n’ont pu lui conserver d’autorité parmi les amateurs en théologie. Les universités ont perdu la leur au moment où les académies ont offert au public un foyer de lumières plus brillant et plus pur (p. 140).
La ligue qui semble s’être formée contre elles est celle des hommes qui, aspirant à dominer l’opinion pour gouverner les hommes ou pour usurper la gloire, voudraient anéantir une barrière qui s’oppose à leurs projets : elles seront donc utiles jusqu’au moment, encore très éloigné, où il deviendra impossible d’égarer l’opinion, en même temps qu’elles contribueront à en accélérer l’époque. Ce n’est pas un instrument dont on propose ici à la puissance publique de s’emparer pour augmenter sa force, mais c’est plutôt une censure utile qu’il est de son devoir d’éta-blir contre elle-même.

Les spectacles, les fêtes doivent être des moyens indirects d’instruction

Nous n’avons parlé jusqu’ici que des moyens directs d’instruire ou d’influer sur l’instruction proprement dite : il existe aussi des moyens indirects d’instruction, ou plutôt d’institution qu’on ne doit point négli-ger, mais dont il ne faut pas abuser, dont il serait aussi peu philoso-phique de nier que d’exagérer l’importance ; dont enfin, puisque leur action existerait indépendamment de la puissance publique il est bon qu’elle puisse s’emparer pour les empêcher de contrarier ses vues : je veux parier des spectacles et des fêtes.
On peut user de ces moyens pour rappeler fortement des époques sur lesquelles il est utile de fixer l’attention des peuples, pour nourrir en eux, pour y exciter jusqu’à l’enthousiasme les sentiments généreux de la liberté, de l’indépendance, du dévouement à la patrie ; enfin, pour graver dans les esprits un petit nombre de ces principes qui for-ment la morale des nations et la politique des hommes libres. Ceux qui ont pu observer depuis un demi-siècle les progrès de l’opinion, ont vu quelle a été sur elle l’influence des tragédies de Voltaire ; combien cette foule de maximes philosophiques, répandues dans ses pièces, ou exprimées par des tableaux pathétiques et terribles, ont contribué à dégager l’esprit de la jeunesse des fers d’une éducation servile, à faire penser ceux que la mode dévouait à la frivolité ; combien elles ont donné d’idées philosophiques aux hommes les plus éloignés d’être phi-losophes. Ainsi, l’on a pu dire, pour la première fois, qu’une nation avait appris à penser, et les Français, longtemps endormis sous le joug d’un double despotisme, ont pu déployer à leur premier réveil une rai-son plus pure, plus étendue, plus forte que celle même des peuples (p. 141) libres. Que ceux qui voudraient nier ces effets se rappellent Brutus accoutumant un peuple esclave aux fiers accents de la liberté, et au bout de soixante ans, dans le siècle où l’esprit humain a fait les progrès les plus rapides, se trouvant encore au niveau de la révolution fran-çaise. Mais ces mêmes moyens peuvent corrompre l’esprit public comme ils peuvent le perfectionner ; il faut donc veiller sur eux, mais sans nuire aux droits de l’indépendance naturelle. Le théâtre doit être absolument libre. En a-t-on fait un moyen de porter atteinte aux droits des citoyens ? c’est un délit qu’il faut réprimer, et la possibilité d’abu-ser de la liberté ne donne pas le droit de la gêner. Adoptez le principe contraire, et il n’y restera rien de libre que par l’indulgence arbitraire du législateur ; car il n’y a rien qui, dans les mains d’un homme per-vers, ne puisse devenir un instrument de crime. Mais la puissance pu-blique, en honorant de ses regards les théâtres où l’on parle aux hom-mes un langage digne d’eux, en laissant les autres dans la foule des divertissements obscurs dont elle ne daigne pas remarquer l’existence, peut aisément les obliger à se conformer à ses vues.
L’on doit établir à des jours réglés des fêtes nationales, les attacher à des époques historiques. Il y en aurait de générales et de particuliè-res. Une ville, dont les citoyens se seraient distingués dans une occa-sion mémorable, en consacrerait l’anniversaire par une fête ; la nation célébrerait celles où elle a pu agir tout entière ; celles-ci ne pourraient dater que du moment de sa liberté ; il n’a pu exister avant elle d’évé-nements vraiment nationaux : mais il n’en serait pas de même des fê-tes particulières. Une ville pourrait célébrer la naissance d’un homme illustre qui a reçu la vie dans ses murs, ou les actions généreuses de ses citoyens. Il y a de grands hommes et de belles actions sous toutes les constitutions. Repousser l’ennemi des remparts de sa ville, se dé-vouer pour le salut de sa contrée, quand même on n’a pas de patrie, de telles actions peuvent être encore des modèles d’héroïsme. Ces fêtes seraient accompagnées de spectacles donnés aux citoyens. Malgré le peu de constance de notre climat, il n’est pas impossible même dans les plus grandes villes, d’avoir, non des spectacles gratis, espèce d’au-mône qu’on donne au peuple, et qui lui fait plutôt envier que partager les plaisirs du riche, mais des spectacles vraiment populaires. Sans doute, une tragédie compliquée, remplie des maximes ingénieuses, offrant les développements de toutes les nuances, de toutes les fines-ses du sentiment, exigeant une attention soutenue, une intelligence (p. 142) parfaite de tous les mots, et même la facilité de suppléer à ceux que l’oreille n’a entendu qu’à demi ; sans doute une tragédie de ce genre ne conviendrait pas à ces spectacles ; mais des pièces simples, où il y au-rait plus d’actions que de paroles, plus de tableaux que d’analyses ; où les pensées seraient fortes, où les passions seraient peintes à grands traits, pourraient y être entendues ; et de la réunion de la pantomime à l’art dramatique naîtrait un nouvel art destiné à ces nobles divertisse-ments. Il ne serait pas nécessaire que ces tragédies eussent un grand intérêt, pourvu qu’elles présentassent un fait historique imposant, et elles seraient préférables à la simple pantomime qui, exigeant de l’ha-bitude pour être comprise, ne peut convenir à des spectacles qui ne sont pas journaliers. Ces pièces seraient en vers, afin que l’on en retînt plus aisément les maximes, et qu’on pût, par une déclamation un peu mesurée, se faire entendre d’un plus grand nombre de spectateurs : elles offriraient à l’art de nouvelles difficultés à vaincre, mais aussi il en naîtrait de nouvelles beautés.
Des marches solennelles, des revues et évolutions militaires, des exercices gymnastiques rapprochés de nos moeurs, différents de ceux des anciens, mais propres comme les leurs à disposer aux emplois sé-rieux de nos forces, ou destinés à prévenir les effets des habitudes nui-sibles que certaines professions peuvent faire contracter ; des danses dont les figures et les mouvements rappelleraient les événements qu’on veut célébrer ; tous ces jeux seraient préparés dans des lieux dont les décorations, les inscriptions parleraient le même langage, ra-mèneraient aux mêmes idées, et ces exercices seraient à la fois un di-vertissement pour la jeunesse et l’enfance, un spectacle pour l’âge mûr et la vieillesse.
Les exercices des Grecs se rapportaient tous à l’art militaire ; mais bientôt, dans leur enthousiasme pour ces jeux, ils firent ce qui arrive si souvent aux hommes ; ils oublièrent le but, et se passionnèrent pour les moyens ; leurs gymnases créèrent des athlètes et cessèrent de for-mer des soldats. À Rome, on fut plus fidèle à l’objet de l’institution, et jusqu’aux derniers temps de la république, les plaisirs de la jeunesse furent l’école de la guerre. Chez nous, c’est à diminuer l’influence dan-gereuse des métiers sédentaires sur la force et la beauté de l’espèce humaine, à corriger l’effet de ceux qui courbent l’homme vers la terre, à maintenir entre les diverses parties du corps l’équilibre rompu dans (p. 143) la plupart de ces travaux, que doivent tendre surtout ces mêmes exer-cices. Chez les anciens, ces métiers qui rendent l’homme moins propre aux travaux guerriers, étaient réservés aux esclaves ; c’était à des ci-toyens oisifs, à des hommes occupés de cultures qui développent tous les membres, que les exercices du gymnase étaient destinés. Assez heureux pour que notre liberté ne soit pas souillée par le crime, ce sont des mains libres qui exercent tous les métiers, qui cultivent tous les arts, et ce sont surtout les hommes dont les corps ont été pliés aux ha-bitudes de ces métiers que notre gymnastique doit avoir en vue. Les jeunes gens se prépareraient à se distinguer dans ces fêtes, et on n’au-rait pas besoin de plus d’appareil pour introduire dans l’éducation l’usage des exercices utiles. Tout, dans ces fêtes, respirerait la liberté, le sentiment de l’humanité, l’amour de la patrie ; on aurait soin de ne pas trop en laisser multiplier le nombre, et on se rendrait difficile pour leur accorder le nom imposant de fêtes publiques. On jugerait avec solennité si tel homme, si telle action, tel événement est digne de cet honneur, et une fête accordée à une capitale deviendrait une récom-pense pour toute la province. On y proclamerait les honneurs publics accordés à la mémoire des hommes de génie, aux citoyens vertueux, aux bienfaiteurs de la patrie ; le récit de leurs actions, l’exposition de leurs travaux deviendrait un motif puissant d’émulation et une leçon de patriotisme ou de vertu. On y distribuerait des prix ou des couron-nes. Les prix doivent être réservés pour ceux qui auront le mieux rem-pli un objet utile, par un livre, une machine, un remède, etc. ; mais il ne doit pas y en avoir pour les actions. La gloire est sans doute une récompense digne de la vertu, mais la vanité ne doit pas en souiller les nobles jouissances. L’homme vertueux peut trouver une douce volupté dans les bénédictions publiques, dans le suffrage de ses égaux ; mais le plaisir de se croire supérieur n’est pas fait pour son coeur, et ce n’est pas à s’élever au-dessus d’un autre, c’est à se perfectionner lui-même qu’il emploie ses pensées et ses efforts.
D’ailleurs, pour porter un jugement de préférence, il faut avoir une échelle sûre, et elle manque pour le mérite des actions ; car ce mérite est surtout dans le sentiment qui les inspire, dans le mouvement qui les produit.
Les Romains l’avaient senti ; ils couronnaient celui qui avait rem-porté une victoire, pénétré le premier dans une ville, ou sauvé un citoyen (p. 144); c’était l’action et non l’homme qu’ils récompensaient, et ces honneurs ne pouvaient ni produire d’odieuses rivalités, ni faire prendre l’habitude de l’hypocrisie ni être distribués par la faveur ou la corrup-tion.
On peut compter encore parmi les moyens d’instruction, l’influence qu’un goût perfectionné a sur la morale des peuples. Les nations qui dans les arts, qui dans les lettres, ont un goût noble et pur, ont aussi dans les moeurs et dans leurs vertus plus de douceur et plus d’éléva-tion. Il est possible que tantôt les moeurs perfectionnent ou dépravent le goût, et que tantôt le goût les épure ou les corrompe ; mais peu im-porte que l’un des deux ait le premier agi sur l’autre, puisque bientôt cette action devient réciproque, et que ces habitudes de l’esprit ou de l’âme finissent nécessairement par être à l’unisson.
Je parlerai des arts lorsqu’il sera question de l’instruction relative aux professions diverses.
Je me bornerai à dire ici que l’exemple des monuments qui dépen-dent de la puissance publique suffit pour former le goût général, et l’emporter sur la bizarrerie des fantaisies particulières. Ces monu-ments sont vraiment les seules productions des arts qui existent habi-tuellement sous les yeux du peuple, entretiennent le goût et l’émula-tion des artistes. Quant aux goût dans les lettres, s’il est pur, s’il est sain dans les ouvrages composés par ordre de la puissance publique, il se conservera ou il se formera dans le peuple.
Les effets d’un nouveau système d’instruction ne peuvent être que graduels.
On se tromperait si l’on croyait pouvoir recueillir, dès les premières années, les fruits de l’instruction même la mieux combinée, ou de la porter, à l’instant de son établissement, à toute la perfection dont elle est susceptible. Tout est ici à former à la fois, les pères dignes d’être instituteurs, les mères capables de surveiller et de suivre l’éducation, les maîtres propres à une nouvelle forme d’enseignement, les livres qui doivent être dirigés vers un but commun, les bibliothèques, les cabinets, les jardins de plantes distribués dans tous les chefs-lieux d’instruction, et tout cela ne peut être que l’ouvrage du temps, d’une (p. 145) attention longtemps soutenue. Il est possible même que les fonds né-cessaires à cette dépense publique ne puissent s’obtenir ou se former que successivement. Mais dans les premiers instants, les enfants ap-prendront du moins ce qu’il leur importe de savoir : les hommes, quoique peu disposés à recevoir l’instruction, acquerront cependant quelques lumières, se déferont de quelques préjugés. Les livres des monastères peuvent servir, ou par eux-mêmes, ou par des échanges, à former les nouvelles bibliothèques. Des cabinets, où l’on a pour objet principal de rassembler les productions du pays, peuvent, en peu de temps, et sans beaucoup de frais, acquérir une consistance suffisante.
Pour les dépenses nécessaires à l’instruction, on peut ajouter aux fonds nationaux ceux de souscriptions particulières.
Aux fonds actuellement consacrés à l’éducation, on peut ajouter l’espérance de souscriptions que le zèle peut offrir. Sans s’écarter des principes qui s’opposent à l’éternité des fondations particulières, il est possible d’accorder aux souscripteurs la satisfaction de diriger et de déterminer jusqu’à un certain point l’emploi de ce qu’ils peuvent offrir. Cette liberté serait même alors un moyen de corriger les erreurs dans lesquelles les agents de la puissance publique pourraient tomber. Par exemple, en recevant les livres quels qu’ils fussent, ainsi que les objets destinés à être placés dans les cabinets, on pourrait suppléer à ce que les préjugés ou les systèmes de ces agents en auraient écarté. La puis-sance publique n’est ici que l’organe de la raison commune ; elle doit tout pouvoir contre l’opinion incertaine, partagée, chancelante ; mais il faut que l’opinion générale puisse agir indépendamment d’elle, et les moyens que nous avons proposés, faibles tant que cette opinion n’existe pas, deviendront suffisants si elle est une fois prononcée. Supposons, par exemple, que des bibliothèques semblables eussent existé il y a dix ans, et que les livres donnés par les particuliers n’eus-sent pu être rejetés, le gouvernement y aurait envoyé les discours sur l’histoire de France, les oeuvres de Bergier, les veillées du château ; mais les zélateurs de la vérité y auraient placé les ouvrages de Rous-seau et de Voltaire, et la puissance publique n’aurait pu retarder les progrès de la raison.
On peut de même, sans nuire à l’uniformité, à l’égalité de l’instruc-tion, permettre ou l’établissement d’enseignements particuliers, ou celui (p. 146) de quelques places de plus, destinées à l’instruction gratuite. Cette liberté n’aurait que des avantages, si la durée de ces destinations était limitée, si elle se bornait, suivant leur nature, à celle de la vie du dona-teur, ou à un espace de temps déterminé ; et qu’après ce temps tout fût remis à la disposition libre de la puissance publique. On pourrait éga-lement, et aux mêmes conditions, recevoir, au lieu de sommes d’ar-gent, des biens de toute espèce, mais toujours en fixant un terme au-delà duquel la nation pourrait librement en changer la forme. On n’écarterait par de telles limitations aucun des dons de la bienfaisance ou de la raison ; on diminuerait seulement ceux de la vanité : mais ne serait-ce pas aller précisément contre le but de toute instruction, le perfectionnement de l’espèce humaine, que de favoriser un des défauts qui la dégradent davantage ? Ne serait-il pas indigne de la majesté du peuple d’employer pour l’utilité publique les ressorts que les moines faisaient agir pour celle de leurs couvents, de profiter comme eux des préjugés ou des passions, de promettre à l’orgueil une gloire immor-telle pour le don de quelques arpents de terre, comme autrefois ils promettaient au même prix une place dans le ciel ?

Progrès des avantages d’une nouvelle instruction

Si les premiers effets d’une nouvelle instruction sont d’abord peu sensibles, on les verra peu à peu se développer et s’agrandir. Les jeu-nes gens, et après eux les enfants, formés dans les premiers temps, sauront mieux surveiller l’éducation de leur famille et donneront quel-ques maîtres dont l’esprit s’accordera mieux avec celui de l’institution. Dans une seconde génération, elle se perfectionnera encore. Enfin, dans une troisième, la révolution pourra s’achever ; mais dans l’inter-valle, on aura déjà joui d’avantages d’autant plus grands qu’on sera parti de plus loin ; et comme ici les générations se pressent, et qu’on peut les évaluer à douze ans, durée de l’éducation la plus longue, on voit que la postérité pour laquelle on aura travaillé n’est pas cependant assez éloignée de nous pour qu’il y ait de la philosophie à s’occuper d’elle.
Qu’il me soit permis de présenter à ceux qui refusent de croire à ces perfectionnements successifs de l’espèce humaine un exemple pris dans les sciences où la marche de la vérité est la plus sûre, où elle peut être mesurée avec plus de précision. Ces vérités élémentaires de géométrie (p.147) et d’astronomie qui avaient été dans l’Inde et dans l’Égypte une doctrine occulte, sur laquelle des prêtres ambitieux avaient fondé leur empire, étaient dans la Grèce, au temps d’Archimède ou d’Hipparque, des connaissances vulgaires enseignées dans les écoles communes. Dans le siècle dernier, il suffisait de quelques années d’étude pour sa-voir tout ce qu’Archimède et Hipparque avaient pu connaître ; et au-jourd’hui deux années de l’enseignement d’un professeur vont au-delà de ce que savaient Liebniz ou Newton. Qu’on médite cet exemple, qu’on saisisse cette chaîne qui s’étend d’un prêtre de Memphis à Euler, et remplit la distance immense qui les sépare ; qu’on observe à chaque époque le génie devançant le siècle présent, et la médiocrité atteignant à ce qu’il avait découvert dans celui qui précédait, on apprendra que la nature nous a donné les moyens d’épargner le temps et de ménager l’attention, et qu’il n’existe aucune raison de croire que ces moyens puissent avoir un terme. On verra qu’au moment où une multitude de solutions particulières de faits isolés commencent à épuiser l’attention, à fatiguer la mémoire, ces théories dispersées viennent se perdre dans une méthode générale, tous les faits se réunir dans un fait unique, et que ces généralisations, ces réunions répétées n’ont, comme les multi-plications successives d’un nombre par lui-même, d’autre limite qu’un infini auquel il est impossible d’atteindre.

L’union de la philosophie à la politique sera un des premiers avantages de la réforme dans l’instruction

Mais une des principales utilités d’une nouvelle forme d’instruc-tion, une de celles qui peuvent le plus tôt se faire sentir, c’est celle de porter la philosophie dans la politique, ou plutôt de les confondre.
Il n’existe, en effet, que deux espèces de politique, celle des philo-sophes, qui s’appuie sur le droit naturel et sur la raison, et celle des intrigants, qu’ils fondent sur leur intérêt, et que pour trouver des dupes ils colorent par des principes de convenance et des prétextes d’utilité.
Que dans les pays dévorés par le fléau de l’inégalité, un grand, pla-cé par sa naissance sur les marches du trône, un ministre nourri dans le tourbillon des grandes affaires, un homme décoré dès son enfance d’une place héréditaire ou vénale, se croient les maîtres des autres hommes, et regardent avec un insolent dédain le philosophe qui prétend (p. 148) régler par de vains raisonnements le monde qu’ils oppriment ou qu’ils dépouillent, leur folie ne mérite que le mépris et la pitié ; c’est l’effet involontaire et incurable de leur éducation, et on ne doit pas en être plus étonné que de voir un Siamois adorer Sammonocodom. Mais que l’on ose répéter ce langage dans un pays libre ; que des hommes qui par la protection de quelques commis sont parvenus à des places du second ordre ; que d’autres qui doivent à leurs livres toute leur ré-putation ; que des compilateurs de dictionnaires ou de gazettes ; que de jeunes gens portés par le hasard, au sortir des écoles, à une place importante, se permettent d’imiter ce superbe langage, alors on a droit de s’indigner d’une opinion qui ne peut être sincère.
L’idée de soumettre la politique à la philosophie a d’autres adver-saires encore. Ceux-ci croient que le simple bon sens doit suffire à tout, pourvu qu’il s’unisse à un grand zèle. Quelques-uns y ajoutent seulement le secours d’une illumination intérieure qui supplée aux lu-mières acquises, et avec laquelle on se passe de raison.
Quel est le motif secret de ceux qui professent ces opinions ? C’est d’abord le désir de s’écarter des hommes qui peuvent les apprécier, afin d’avoir plus de facilité pour tromper le reste ; c’est la crainte que la philosophie ne porte sur leur conduite une lumière sûre et terrible, qu’elle n’éclaire à la fois la nullité de leurs idées et la profondeur de leurs projets.
C’est ensuite la haine des principes qui, fondés sur la justice, sur la raison, opposent à toutes les conspirations de l’orgueil ou de l’avidité une inflexibilité désespérante. C’est, enfin, l’envie qui craint d’être obligée de reconnaître la supériorité des lumières et d’y céder. On hait dans les autres les talents auxquels on ne peut atteindre, et la gloire qui récompense le bien qu’ils font, et l’obstacle qu’ils mettent au mal qu’on voudrait faire.
Voulez-vous échapper aux pièges de ces imposteurs ? Voulez-vous que les places deviennent le prix des lumières, que des principes cer-tains dirigent toutes les opérations importantes ? Faites que dans l’ins-truction publique ouverte aux jeunes citoyens, la philosophie préside à l’enseignement de la politique ; que celle-ci ne soit qu’un système dont les maximes du droit naturel aient déterminé toutes les bases (p. 149).
Alors, les citoyens sauront à la fois échapper aux ruses des ambi-tieux, et sentir le besoin de confier leurs intérêts aux hommes éclairés. Une fausse instruction produit la présomption ; une instruction raison-nable apprend à se défier de ses propres connaissances. L’homme peu instruit, mais bien instruit, sait reconnaître la supériorité qu’un autre a sur lui, et en convenir sans peine. Ainsi une éducation qui accoutume à sentir le prix de la vérité, à estimer ceux qui la découvrent ou qui savent l’employer, est le seul moyen d’assurer la félicité et la liberté d’un peuple. Alors, il pourra ou se conduire lui-même, ou se choisir de bons guides, juger d’après sa raison, ou apprécier ceux qu’il doit appe-ler au secours de son ignorance (p. 150).

Quatrième mémoire

Sur l’instruction relative aux professions
Division des professions en deux classes.

Toute profession doit être utile à ceux qui l’exercent, comme elle l’est à ceux qui l’emploient.
Cependant elles forment deux classes bien distinctes. Les unes ont pour objet principal de satisfaire les besoins, d’augmenter le bien-être, de multiplier les jouissances des hommes isolés ; elles ne servent qu’à ceux qui veulent profiter de leurs travaux.
En général, les hommes qui exercent ces mêmes professions ne s’y livrent que pour s’assurer une subsistance plus ou moins étendue ; ce n’est pas la société entière qu’ils servent, c’est avec d’autres individus qu’ils échangent leur travail contre de l’argent ou contre un autre tra-vail (p. 151).
Il est d’autres professions, au contraire, dont l’utilité commune paraît être le premier objet ; c’est à la société en corps que ceux qui les embrassent consacrent leur temps et leur travail, et elles sont en quel-que sorte des fonctions publiques.
On doit placer dans la première classe tous les métiers, toutes les professions mécaniques, et même les arts libéraux, quand ils ne sont véritablement exercés que comme des métiers.
La peinture, la sculpture sont des arts dans un homme qui sait ex-primer les passions et les caractères, émouvoir l’âme ou l’attendrir, réaliser enfin ce beau idéal dont l’observation de la nature et l’étude des grands modèles lui a révélé le secret ; mais un peintre, un sculp-teur, qui décore les appartements d’ornements ou de figures qu’il co-pie, n’exerce réellement qu’un métier : l’un crée de nouveaux plaisirs pour les hommes éclairés et sensibles, l’autre sert le goût ou la vanité des hommes riches.
Les motifs de former des établissements publics d’instruction des-tinés aux diverses professions ne sont pas les mêmes pour ces deux classes. Pour les professions qu’on peut regarder comme publiques, on doit considérer surtout l’avantage d’en confier l’exercice à des hommes plus éclairés. On doit chercher à perfectionner les autres dans la vue d’augmenter, pour la généralité des individus, les jouissances, le bien-être que les travaux de ces professions leur procurent, et d’étendre dans la classe même des pauvres une partie de ce bien-être. Dans un pays où les arts fleurissent, le pauvre est mieux logé, mieux chaussé, mieux vêtu que dans ceux où ils sont encore dans l’enfance. Cette augmentation de jouissances est-elle un véritable bien ? N’est-elle pas plus que compensée par l’existence des nouveaux besoins, suite néces-saire de l’habitude du bien-être ? C’est une question de philosophie que je ne chercherai point à résoudre, mais il est certain du moins que l’accroissement successif des jouissances est un bien, tant que cet ac-croissement peut se soutenir et remplacer par de nouveaux avantages ceux dont le temps a émoussé le sentiment. je connais un pays ou les pauvres n’avaient pas de fenêtres il y a quarante ans, et ne recevaient le jour que par la moitié supérieure de la porte, que l’on était obligé de laisser ouverte. J’ai vu l’usage des fenêtres y devenir général. Ce changement sera peut-être très indifférent au bonheur de la génération sui-vante : mais il a été un véritable bien pour ceux qui en ont joui les premiers. Or, c’est précisément une augmentation toujours progressive de jouissances pour les pauvres que l’on doit attendre de ce progrès général des arts mécaniques, résultat nécessaire d’une instruction bien combinée.
Elle aura de plus l’avantage d’établir une égalité plus grande entre les hommes qui pratiquent les arts ; elle rapprochera les enfants de l’artisan pauvre de ceux de l’ouvrier plus riche qui peut consacrer quelques fonds à les perfectionner dans leur métier ; et sous ce point de vue, c’est un des meilleurs moyens de diminuer dans un pays l’exis-tence de cette classe d’hommes que le malheur dévoue à la corruption, auxquels la justice oblige de conserver des droits qu’ils sont trop peu dignes d’exercer, et qui mettent un si grand obstacle au perfectionne-ment des institutions sociales.
L’instruction publique ne doit pas être la même pour ces deux classes de professions.
Il existe une autre différence entre ces deux classes, qui en néces-site une dans l’instruction. Les unes sont nécessairement exercées par une grande masse de citoyens, et on ne peut leur destiner une instruc-tion qui remplirait une portion considérable de leur vie ; elle ne doit être dans l’enfance qu’une partie de leur apprentissage, et pour les hommes qu’une étude à laquelle ils se livrent dans la vue du profit qu’ils en retireront, mais sans pouvoir y donner que le temps où leur métier ne les appelle pas au travail. Les autres professions, au contraire, ne sont exercées que par un petit nombre de citoyens ; une instruction étendue en est la base première, une condition que la socié-té ou ceux qui les emploient ont droit d’exiger d’eux avant de les char-ger des services publics ou privés auxquels ils sont appelés.

Nature de l’instruction publique pour les professions mécaniques

L’instruction que la puissance publique doit préparer pour les pro-fessions mécaniques ne consistera point à ouvrir des écoles où on les enseigne ; il n’est pas question d’apprendre à faire des bas ou des étoffes, à travailler le fer ou le bois, mais seulement de donner celles des connaissances utiles à ces professions qui ne peuvent faire partie de l’apprentissage.
On peut classer ces connaissances, ou suivant leur nature, ou rela-tivement aux arts pour lesquels elles peuvent être nécessaires. Sous le premier point de vue, on trouvera le dessin, qui est indispensable et dans tous les arts employés par le luxe où l’on joint la décoration à l’utilité, et dans toutes les professions où l’on fabrique les instruments et les outils employés par les autres arts. Viennent ensuite les connais-sances chimiques utiles à ceux qui préparent ou qui emploient les mé-taux, les cuirs ou le verre, qui impriment des couleurs ou appliquent des teintures. Les premiers principes de la mécanique, les connaissan-ces communes de physique, les éléments de l’arithmétique commer-ciale, ceux du toisé, de l’évaluation des solides ; enfin, quelques par-ties de géométrie élémentaire qui ne sont point comprises dans l’ins-truction commune, telles que la théorie de la coupe des pierres, la perspective doivent entrer dans cette même instruction.
Toutes ces connaissances ne sont pas nécessaires à chaque profes-sion, ou ne le sont pas au même degré. L’instruction utile à un fabri-cant d’étoffes ne ressemble pas à celle dont un serrurier a besoin ; l’instruction d’un charpentier doit différer encore plus de celle d’un teinturier. On pourrait, il est vrai, former de ces métiers différentes classes, dont chacune renfermerait ceux qui ont le plus d’analogie, et aurait une instruction particulière ; mais la plupart d’entre eux exigeant des connaissances de différente nature, et qui seraient cependant les mêmes pour ces diverses classes, on ne pourrait suivre ce système d’instruction sans le rendre trop dispendieux par la multiplicité des maîtres, ou sans restreindre le nombre des établissements de manière à en perdre le plus grand avantage, celui de répandre les lumières avec égalité. Il ne serait pas d’ailleurs sans inconvénient de séparer, dans différentes villes, l’instruction destinée à ces diverses classes, dans la vue de diminuer la dépense. L’intérêt de la société est que les arts se répandent partout d’après le besoin seul, que les professions s’unissent et se séparent librement.
Il faut cependant combiner l’enseignement de manière que ceux qui se destinent à une profession puissent apprendre seulement ce qui leurest nécessaire. Occupés de leurs travaux, ils rebuteraient une instruc-tion qui ne leur offrirait pas l’idée d’une utilité immédiate et directe. Il faut donc que J’enseignement de chaque maître soit partagé de ma-nière que les diverses parties des cours qu’il enseignera répondent aux besoins plus ou moins étendus que chaque profession peut en avoir. Il suffirait, dans chaque chef-lieu de district, de deux maîtres, l’un char-gé de donner les connaissances élémentaires du dessin, l’autre de la partie scientifique des arts. Dans les chefs-lieux de département, on porterait à quatre le nombre de ces professeurs, en partageant entre trois les éléments des sciences. Il serait peut-être plus convenable de réserver ces établissements pour les villes plus grandes, et de ne pas ici suivre l’ordre des établissements politiques. En effet, cet enseigne-ment est destiné principalement aux jeunes apprentis ; c’est dans le lieu où ils se rassemblent que l’instruction doit être placée, et par conséquent il peut être utile d’en disposer les divers degrés d’après cette réunion déterminée par les convenances commerciales. On évite-ra dans l’enseignement, avec un soin égal, et de fatiguer les élèves en les fixant trop longtemps sur des idées abstraites, et de dégrader leur raison en leur faisant adopter, sur parole, des principes qu’ils ne com-prennent pas, des règles dont on ne leur explique pas les motifs. Des livres faits exprès, avec des explications séparées propres à guider les maîtres, sont ici d’une nécessité absolue, et il faudrait une grande jus-tesse d’esprit, des connaissances étendues, un esprit bien philosophi-que, pour savoir y garder un juste milieu, et concilier le peu d’applica-tion qu’on peut exiger des élèves et le respect que l’on doit avoir pour leur raison.
Cette même instruction sera combinée de manière qu’elle n’enlève au travail que le moins de temps qu’il est possible. Comme, en for-mant les divisions principales de cet enseignement, on ne trouverait en général que deux ou trois parties qui fussent nécessaires à une même profession, deux ou trois leçons par semaine doivent suffire pour cha-que cours. On se réserverait le dimanche pour l’instruction qui convient aux ouvriers déjà formés, ou aux maîtres. Une récapitulation des connaissances qu’ils ont dû acquérir y serait mêlée à l’enseigne-ment des nouveaux procédés, des nouvelles vues dont il serait utile de les instruire (p. 155).

Avantages de l’instruction destinée aux arts mécaniques

Par ce moyen, en répandant plus de lumières sur la pratique des arts, on aura en général des ouvriers plus habiles et un plus grand nombre de bons ouvriers ; ainsi, les produits des arts qui répondent à l’emploi d’un même espace de temps et de soins, àla même quantité de denrées premières, auront une valeur réelle plus grande, et par consé-quent la véritable richesse en sera augmentée. Ces productions acquer-ront aussi un plus grand degré de durée, d’où résulte une moindre consommation, soit des matières qu’elles emploient, soit de celles qu’absorbent les besoins des ouvriers. Ainsi, la même masse de tra-vaux et de productions nouvelles pourra répondre à une plus grande quantité d’usages utiles, de besoins satisfaits, ou de jouissances. Les hommes qui auront reçu cette instruction y trouveront aussi plusieurs avantages. D’abord ceux qui ont moins d’adresse, moins d’intelligence naturelle, ne seront plus condamnés à une infériorité si grande en elle-même, si funeste dans ses effets ; ils pourront, par leur application, atteindre du moins un degré de médiocrité qui rendra leur travail suf-fisant pour leurs besoins. Enfin, ceux d’entre eux que le hasard a des-tinés à ces professions mécaniques, mais à qui la nature a donné des talents réels, ne seront perdus ni pour la société ni pour eux-mêmes. Si cette instruction ne leur suffit pas pour s’élever au point où, nés dans une autre fortune, ils pouvaient espérer d’atteindre, au moins elle leur ouvrira une carrière utile et glorieuse. Celui qui avait le germe du ta-lent de la mécanique se distinguera par des inventions dans les arts ; celui qui était appelé à la chimie, s’il ne fait pas de découvertes dans cette science, perfectionnera du moins les arts qui en dépendent ; leur génie ne sera point dégradé ; il pourra se diriger encore vers un des emplois qui entrent dans le système général de perfectionnement de l’esprit humain. Si même les dispositions naturelles de quelques-uns les appellent aux connaissances purement spéculatives, cette instruc-tion suffira pour leur en ouvrir la carrière, pour constater ces disposi-tions, et leur faciliter, par là, les moyens de remplir leur destinée.
Ceux qui sont nés avec une grande activité d’esprit trouveront, dans ces études, des objets sur lesquels ils pourront l’exercer, des principes propres à la diriger vers un but réel ; ils ne seront plus exposés à chercher (p.156) souvent ce qui est trouvé, plus souvent ce qui ne peut l’être ; ils apprendront à connaître leurs forces, àne pas tenter ce qui est trop au-dessus d’elles. Cette classe nombreuse d’hommes utiles n’offrira plus le spectacle affligeant de gens d’un véritable talent, d’un grand cou-rage, d’une infatigable activité, malheureux par ces qualités mêmes, entraînés malgré eux dans des tentatives ou vaines ou mal dirigées ; ne Pouvant, au milieu de la misère qui menace leur famille, résister ni à leur imagination ni à leurs espérances ; tourmentés, enfin, par le dé-sordre de leurs affaires, comme par le regret de ne pouvoir poursuivre leur carrière, par leurs remords comme par leurs idées. Les hommes qui, par état ou par goût, suivent la marche des arts, savent seuls com-bien ces exemples sont fréquents ; ils savent seuls combien de temps et de capitaux sont perdus même par ceux qui échappent à ce mal-heur ; et quelles sources de prospérité pourraient ouvrir ces mêmes talents, ces mêmes capitaux employés d’une manière utile !
Enfin, l’instruction des ouvriers rassemblés dans les villes a une utilité politique trop peu sentie. Les travaux des arts sont en général d’autant moins variés pour chaque homme en particulier qu’ils se per-fectionnent davantage ; leurs progrès tendent à circonscrire les idées du simple ouvrier dans un cercle plus étroit ; la continuité de ses oc-cupations monotones laisse moins de liberté à sa pensée, et présente moins d’objets à sa réflexion : en même temps celui des villes est ex-posé à plus de séduction, parce que c’est auprès de lui que se rassem-blent et s’agitent ceux qui ont besoin de tromper les hommes, et dont les projets coupables demandent des instruments aveugles dont ils puissent se faire tour à tour des appuis ou des victimes.
Les intérêts de cette classe de citoyens sont moins évidemment d’accord avec l’intérêt général que ceux des habitants des campagnes ; les combinaisons nécessaires pour apercevoir la liaison, l’identité de ces intérêts, sont plus compliquées et se forment d’idées plus subtiles. Enfin, plus près les uns des autres, leurs erreurs sont plus contagieu-ses, leurs mouvements se communiquent plus rapidement, et, agitant de plus grandes masses, peuvent avoir des dangers plus réels. La liber-té a toujours été plus difficile à établir dans les villes qui renferment un grand nombre d’ouvriers. Il a fallu ou porter atteinte à la leur, en les soumettant à des règlements sévères, ou sacrifier à leurs préjugés, à leurs intérêts, celle du reste des citoyens : souvent même la réunion de (p. 157) ces deux moyens contraires n’a pu maintenir la paix qui devait être le prix de ces sacrifices. L’instruction ne serait-elle pas un secret plus doux et plus sûr ? L’homme qui passe d’un travail corporel à un dés-oeuvrement absolu est bien plus facile à tromper, à émouvoir, à cor-rompre ; les erreurs, les craintes chimériques, les absurdes défiances entrent plus aisément dans une tête dépourvue d’idées. Des connais-sances acquises dans les écoles publiques, en relevant les ouvriers à leurs propres yeux, en exerçant leur raison, en occupant leurs loisirs, serviront à leur donner des moeurs plus pures, un esprit plus juste, un jugement plus sain. S’il reste dans une nation une classe d’hommes condamnés à l’humiliation par la pauvreté ou l’ignorance, quand ils ne le sont plus par la loi ; s’ils ne peuvent exercer qu’au hasard, et sous le joug d’une influence étrangère, les droits que la loi a reconnus ; si une égalité réelle ne s’unit pas à l’égalité politique, alors le but de la socié-té n’est plus rempli.
L’homme libre qui se conduit par lui-même a plus besoin de lumiè-res que l’esclave qui s’abandonne à la conduite d’autrui ; celui qui se choisit ses guides, que celui à qui le hasard doit les donner. Épuisez toutes les combinaisons possibles pour assurer la liberté ; si elles n’embrassent pas un moyen d’éclairer la masse des citoyens, tous vos efforts seront inutiles. L’instant de ce passage est le seul qui offre des difficultés réelles. Les hommes de génie qui aiment mieux éclairer leurs semblables que les gouverner, qui ne veulent commander qu’au nom de la vérité, qui sentent que plus les hommes seront instruits plus ils auront sur eux de pouvoir, qui ne craignent pas d’avoir des supé-rieurs, et se plaisent à être jugés par leurs égaux ; ces hommes ne peu-vent être que très rares, et ceux que l’élévation de leur âme, la pureté de leurs vues, l’étendue de leur esprit placent à côté d’eux sont encore en petit nombre. Tous les autres, que veulent-ils ? Maintenir l’igno-rance du peuple, pour le maîtriser tantôt au nom des préjugés anciens, tantôt en appelant à leur secours des erreurs nouvelles. Mais ce n’est pas ici le lieu de démasquer cette coupable hypocrisie, ces ruses des Pisistrate et des Denis qui conduisent le peuple à l’esclavage, tantôt en excitant ses passions, tantôt en lui inspirant des craintes chimériques, le soulevant aujourd’hui contre les lois, le dispersant le lendemain au nom des mêmes lois à la tête de leurs satellites ; implorant sa pitié contre leurs ennemis, et employant bientôt contre lui les forces qu’il leur a confiées (p. 158).
C’est en répandant les lumières parmi le peuple qu’on peut empê-cher ses mouvements de devenir dangereux ; et jusqu’au moment où il peut être éclairé, c’est un devoir pour ceux qui ont reçu une raison forte, une âme courageuse, de le défendre de l’illusion, de lui montrer les pièges dont sans cesse on enveloppe sa simplicité crédule. Aussi, c’est contre ces mêmes hommes que les tyrans réunissent toutes les forces ; c’est contre eux qu’ils cherchent à soulever le peuple, afin que de ses mains égarées il détruise lui-même ses appuis ; c’est contre eux qu’ils déchaînent la troupe vénale de leurs espions, de leurs flatteurs ; et la haine contre la philosophie, les déclamations contre ses dangers et son inutilité, ont toujours été un des caractères les plus certains de la tyrannie.

Moyens d’instruction pour les hommes

Les cabinets d’histoire naturelle et de machines destinés à l’instruc-tion commune renfermeront également les échantillons des denrées premières ou des préparations dont la connaissance peut être utile aux arts, et les modèles des machines, des instruments, des métiers qui y sont employés. À l’avantage de l’instruction, ces cabinets joindront celui de délivrer du charlatanisme des prétendus découvreurs de se-crets, des intrigues de leurs protecteurs, des dépenses inutiles où ils engageraient une nation qui voudrait les récompenser, des entraves qu’ils mettraient à l’industrie de celle dont l’ignorance leur accorderait des privilèges. On ne pourrait alors avoir à récompenser que les véri-tables inventeurs, et le nombre en serait bien petit. Ces dépôts met-traient aussi à l’abri des ruses trop communes dans le commerce, parce qu’on y apprendrait très aisément à reconnaître les denrées premières dans leur état de pureté, les préparations plus ou moins parfaites de ces denrées, la nature des différents tissus, etc. Un professeur montre-rait ce cabinet les jours consacres au repos, répondrait aux questions, résoudrait les difficultés. Les objets y seraient rangés non suivant un ordre scientifique, mais d’après la division commune des métiers, afin que chacun trouvât aisément les objets qui peuvent l’intéresser le plus. On sent qu’il ne faudrait pas beaucoup d’efforts pour déterminer un ouvrier qui achète vingt fois par an la même préparation, à venir s’as-surer par ses yeux des moyens d’en reconnaître la bonté, de n’être trompé ni sur la qualité, ni sur le prix. En se bornant aux choses utiles, (p. 159) on ne doit craindre ni la dépense, ni la trop grande étendue de ces dé-pôts ; et si on se trompait en négligeant des objets vraiment utiles, comme les cabinets qui seraient établis dans la capitale, ou dans les très grandes villes, devraient renfermer même ce qui semblerait ne pouvoir être jamais que de pure curiosité, les erreurs que l’on commet-trait en ce genre n’auraient que de faibles inconvénients. Des modèles de métiers ou d’instruments sont fort chers, sans doute, lorsqu’on se borne à en faire construire un seul ; mais comme ici on doit les multi-plier, le prix de chacun diminuerait avec leur nombre, et en formant un établissement général où ils seraient fabriqués, on trouverait de nouveaux moyens d’économie.

Des professions qu’on peut regarder comme publiques

Celles des professions qui sont destinées au service public, et aux-quelles il n’est pas nécessaire que tous les hommes soient préparés par l’instruction commune, sont d’abord la science militaire et l’art de gué-rir.
Quelques parties de l’administration exigent des connaissances par-ticulières, soit de politique, soit de calcul ; mais il est aisé de les ac-quérir à l’aide de celles que l’on aura puisées dans l’instruction géné-rale, et elles ne sont pas nécessaires à un assez grand nombre d’indivi-dus pour mériter de devenir l’objet d’un enseignement séparé.
À ces deux premières professions, je joindrai l’art des construc-tions, qui n’est qu’une profession privée lorsqu’il s’exerce pour les be-soins des individus, mais qui devient une profession publique lorsqu’il s’occupe d’ouvrages faits au nom et aux frais de tous pour l’utilité commune.

Instruction militaire

L’instruction relative à l’art militaire a deux parties : l’une, plus gé-nérale, embrasse les connaissances nécessaires à tout officier qui peut être chargé d’un commandement, et par conséquent il est utile qu’elle s’étende à quiconque veut embrasser l’état de soldat. Pour le fils de l’homme à qui sa fortune permet de donner à ses enfants une éducation suivie, elle précéderait l’entrée au service, elle la suivrait pour les autres (p. 160). Ces institutions, en permettant à un plus grand nombre de famil-les d’aspirer à une admission immédiate dans le grade d’officier, en rapprochant pour les autres lé moment d’y prétendre, conserveraient une distinction nécessaire au progrès de l’art militaire, et empêche-raient que cette distinction n’altérât même dans le fait l’égalité des ci-toyens. Dans les villes de grande garnison, une instruction plus éten-due serait ouverte aux officiers déjà formés ; et dans toutes, une ins-truction commune, offerte à tous les militaires a des jours réglés, ser-virait à leur rappeler ce qu’ils ont pu oublier, à leur donner des connaissances nouvelles qui pourraient leur être nécessaires.

L’artillerie et le génie exigent des établissements particuliers, des écoles destinées aux connaissances propres a ces professions

Plus une nation fidèle à la raison et à la justice rejette toute idée de conquête, reconnaît l’inutilité de ces guerres suscitées par de fausses vues de commerce, proscrit cette politique turbulente qui sans cesse prépare ou entreprend la guerre, entraîne la nation qu’elle séduit à se ruiner et à s’affaiblir pour empêcher l’agrandissement de ses voisins, en compromet la sûreté actuelle pour en assurer la sûreté future, plus elle doit encourager l’étude théorique de l’art militaire, et surtout l’art de l’artillerie, celui de fortifier les places et de les défendre. Un homme préparé par une bonne théorie acquiert en une année d’exer-cice plus que dix années d’une pratique routinière n’auraient pu lui donner. Quand même une nation aurait perdu l’habitude de la guerre, des artilleurs habiles, des ingénieurs éclairés suffiront pour sa sûreté, donneront le temps à des officiers instruits par l’étude de former des soldats, de créer une armée.

Instruction pour la marine

De même, pour la marine, un premier degré d’instruction donnerait les connaissances nécessaires à ceux que leur inclination, le défaut de goût pour le travail, ou le peu de fortune enverrait à la mer au sortir de l’enfance. Une autre instruction serait combinée dans les ports, dans la vue de perfectionner ces premières études ; elle se prêterait à l’irrégu-larité, à la brièveté de leurs séjours, de manière que partout ils la re-trouvassent la même ; mais il faudrait réserver une instruction plus profonde à ceux qui la voudraient suivre, et a qui cette seconde instruction (p. 161) tiendrait lieu de quelques années de mer. Là on pourrait éle-ver aux dépens du public les jeunes gens qui, dans les premières éco-les, auraient montré le plus de talent.
La supériorité de la théorie peut seule donner à la marine française l’espérance d’égaler celle d’Angleterre. Il y a une si grande différence dans le rapport de l’étendue des côtes à la superficie du pays et au nombre des hommes, dans celui des denrées transportées par mer à la consommation totale, que la nation française ne peut devenir, comme l’anglaise, presque entièrement navigatrice. Si l’on compare le com-merce de la France à celui de l’Angleterre, on verra que la première se borne presque à l’exportation de ses denrées, à l’importation des den-rées étrangères destinées à sa consommation, et qu’auprès de la masse de son commerce national celui de factorerie n’a qu’une faible impor-tance. Il est immense pour l’Angleterre. Cette différence doit diminuer sans doute ; la destruction successive de cette richesse précaire doit finir par affaiblir la puissance anglaise ; et, lorsqu’il existera entre les nations du globe une égalité plus grande d’industrie et d’activité, il lui arrivera ce qu’ont éprouvé la Hollande et Venise, et ce qu’éprouvera toute nation qui aura placé hors de son sein la source de sa prospérité et de sa force. L’ambassadeur d’Espagne, qui répondit aux Vénitiens, lorsqu’ils lui étalaient avec orgueil les trésors de la république, ma chi non e la radice leur donnait une grande leçon dont l’Espagne elle-même aurait pu profiter.
Il arrivera, sans doute, un temps où la puissance militaire n’aura plus sur mer la même importance. Les nations sentiront que les pos-sessions éloignées sont plus nuisibles qu’utiles ; que si l’on renonce au profit de l’oppression, on n’a pas besoin d’être le maître d’un pays pour y commercer, et que les avantages de la tyrannie sont toujours trop achetés par le danger qui les accompagne, par les maux qui en sont la suite nécessaire et l’inévitable punition. Les esprits commencent à se pénétrer des grandes idées de la justice naturelle, et ces idées sont plus incompatibles avec la guerre maritime qu’avec celle de terre. On peut éloigner celle-ci du brigandage : elle ne s’en fait même que plus sûre-ment et avec moins de dépense ; mais si on respecte la propriété dans les guerres maritimes, si les sociétés renoncent à l’usage honteux de donner des patentes à des brigands, de créer une classe de voleurs auxquels, en vertu du droit des gens, on accorde l’impunité, alors la (p. 162) guerre de mer n’a plus qu’un objet unique et rarement praticable : l’in-vasion.
Cependant, ces changements sont trop éloignés de nous pour que l’enseignement d’une théorie approfondie de la navigation puisse être négligé. D’ailleurs, si un jour il devient moins utile comme moyen de défense, il le sera toujours comme moyen de prospérité, comme un objet important à la conservation, au perfectionnement de l’espèce humaine. L’art de naviguer est un de ceux qui montrent le plus la puis-sance de l’esprit humain ; il s’appuie de toutes parts sur des théories trop profondes pour qu’on puisse jamais l’abandonner à la routine. Les questions les plus épineuses de l’analyse mathématique et de la science du mouvement, les points les plus délicats et les plus difficiles du système du monde, les recherches les plus fines de l’art d’observer et de la mécanique pratique, les observations les plus étendues sur la nature des aliments, les effets du régime, les influences du climat, sont employés à construire, à faire mouvoir, a diriger un vaisseau, à conserver les hommes qui le montent ; et il serait difficile de citer une partie un peu étendue des arts mécaniques ou des sciences dont la connaissance ne fût pas utile dans la construction, dans la manoeuvre, dans le gouvernement d’un vaisseau.

De l’instruction dans l’art de guérir

L’art de guérir est un de ceux pour lesquels l’instruction doit être commune aux deux sexes. L’usage constant de toutes les nations sem-ble même en avoir réservé aux femmes quelques fonctions. Partout elles exercent l’art des accouchements pour le peuple, c’est-à-dire pour la presque totalité des familles ; partout elles gardent les malades ; et, ce qui en est une suite, elles exercent la médecine pour les petits maux, et font les opérations les plus simples de la chirurgie. Dans les pays où les préjugés de la superstition et de la jalousie ne leur permet-tent pas de soigner les hommes, les mêmes opinions leur donnent ex-clusivement la profession d’accoucher et le soin de traiter les femmes. On prétend qu’il vaut mieux qu’une garde soit ignorante, parce qu’alors elle se borne à l’exécution machinale des ordonnances d’un médecin ; mais je n’ai pas vu encore que l’ignorance préservât de la présomption. Cette politique, de tenir dans l’ignorance celui qui ne doit qu’exécuter, afin de trouver en lui un instrument plus docile, est commune à tous (p. 163) les tyrans, qui veulent, non des coopérateurs, mais des esclaves, et commander à la volonté au lieu de diriger la raison. Une garde qui aura reçu une instruction raisonnable se croira moins habile que celle qui, n’ayant que de la routine, a dû contracter des préjugés ; plus en état de sentir la supériorité réelle des lumières, elle saura s’y soumettre avec moins de répugnance. Ajoutons qu’une garde ignorante n’en ob-tiendra pas moins la confiance des malades ; on la gagne bien plus sûrement par des soins, de la complaisance, que par des lumières ; ils croiront toujours que cette prétention de lui interdire le droit de rai-sonner importe plus à l’orgueil du médecin qu’au salut du malade, et il n’est pas bien sûr qu’ils se trompent.
D’ailleurs, combien ne serait-il pas utile à la conservation et au per-fectionnement physique de l’espèce humaine que les sages-femmes fussent instruites, et surtout qu’elles fussent libres des préjugés vulgai-res, désabusées de ces pratiques que l’ignorance, la superstition et la sottise transmettent de génération en génération ; qu’elles pussent exercer au moins la médecine et la chirurgie pour les maladies des enfants, pour celles qui sont particulières aux femmes, ou sur lesquel-les la décence les oblige de jeter un voile ? Par là on offrirait aux femmes des familles pauvres des ressources qui manquent à leur sexe, presque généralement condamné à ne pouvoir se procurer une subsis-tance indépendante ; par là on conserverait plus d’enfants, on les pré-serverait de ces accidents, de ces maladies des premières années, qui rendent contrefaits ou malsains ceux à qui elles laissent la vie ; par ce seul moyen, le peuple pourrait être soigné dans ses maladies. La dou-ceur, la sensibilité, la patience des femmes lui rendraient leurs secours au moins aussi utiles que ceux d’hommes plus instruits, dont le nom-bre ne serait jamais assez considérable pour qu’une grande partie des habitants de la campagne n’en fût pas trop éloignée.
Quand bien même je regarderais la médecine dans son état actuel comme plus dangereuse qu’utile, je n’en croirais pas moins qu’il est nécessaire d’établir une instruction pour l’art de guérir ; car on ne pré-tendra pas, sans doute, qu’un médecin ayant des préjugés, agissant d’après de fausses lumières, commettant des fautes grossières par ignorance, et s’égarant moins encore par une application erronée de la doctrine qu’il a reçue que par les erreurs de cette doctrine même ; on ne prétendra pas qu’un tel homme soit moins dangereux que celui qui (p. 164) aurait reçu une instruction limitée, mais saine, dans laquelle on aurait proportionné l’étendue des connaissances aux besoins et à la possibili-té d’en faire un usage utile ; où une sage philosophie aurait appris à savoir douter de ce qu’on ignore, à ne point agir quand on reste dans le doute ; où l’on inspirerait la défiance de soi-même, le respect pour les lumières, une exactitude sévère à regarder æcomme un devoir rigou-reux la modestie de recourir à celles d’autrui lorsqu’on sent l’insuffi-sance des siennes. Croit-on qu’un médecin qui aurait reçu toutes les connaissances qu’il peut aujourd’hui puiser dans l’étude de l’histoire naturelle, de la chimie, de l’anatomie, dans les nombreuses observa-tions des médecins de tous les siècles, dans les leçons données par un homme habile auprès du lit des malades, ne vaudra pas mieux que ce-lui qui aurait été élevé au milieu des préjugés et des systèmes de l’école, ou qui n’aurait eu d’autre apprentissage auprès des malades que ses propres erreurs ? Si la médecine n’est pas encore une véritable science, rien n’empêche de penser qu’elle doit le devenir un jour. Combinons donc l’instruction de manière à rendre les secours de cet art aussi utiles qu’ils peuvent l’être dans son état actuel, et en même temps à nous rapprocher de l’époque d’un changement moins éloigné que ne le croient les hommes qui ne suivent pas dans leurs détails les progrès des sciences physiques et ceux de l’art d’observer. Nous tou-chons à une grande révolution dans l’application des sciences physi-ques et chimiques aux besoins et au bonheur des hommes ; encore quelques rochers à franchir, et un horizon immense va se développer à nos regards. Tout annonce une de ces époques heureuses où l’esprit humain, passant tout à coup de l’obscurité des pénibles recherches au jour brillant et pur que lui offrent leurs grands résultats, jouit en un jour des travaux de plusieurs générations.
Pour remplir le premier objet dans l’instruction donnée à ceux qui doivent offrir des secours à la généralité des citoyens dans les mala-dies ordinaires, et de qui le grand nombre ne permet pas d’exiger d’eux de longues études, on cherchera plus encore à détruire la fausse science, à empêcher toute activité dangereuse qu’à enseigner les moyens d’agir, trop souvent incertains dans leurs effets, ou dont l’ap-plication est trop équivoque. Mais, pour ceux qui sont destinés à por-ter des secours dans les circonstances extraordinaires, ou a qui tout ce qui est connu doit être enseigné, à qui l’on doit surtout apprendre à juger leurs propres lumières, on s’attachera principalement à porter (p. 165) dans l’enseignement de la médecine la méthode des sciences physi-ques, la précision avec laquelle on y observe les faits, la philosophie qui en dirige la marche et en assure les progrès. Alors on sera sûr d’avoir établi une instruction utile. N’y a-t-il pas, en effet, tout lieu de croire qu’il faut moins de temps pour faire de la médecine une vraie science que pour engager les hommes à renoncer au secours d’une médecine même dangereuse ; qu’il y aura des médecins éclairés et phi-losophes avant que l’on soit désabusé des charlatans ; enfin, des mé-thodes de guérir sinon certaines, du moins très probables, avant que les hommes ne soient parvenus à ne plus devenir faibles et crédules lorsqu’ils souffrent, à n’avoir plus besoin dans leurs douleurs d’être bercés par l’espérance et distraits de leurs maux par l’occupation de faire ce qu’ils croient devoir les guérir ?
Je n’ai point ici séparé la médecine de la chirurgie. Une maxime vulgaire veut que celle-ci soit bien moins incertaine. La chirurgie a, sans doute, une marche certaine, si on ne veut parler que de la mé-thode d’opérer ; et celle de la médecine est également sûre, si on ne parle que de la composition des remèdes et de leur action immédiate. Mais si on veut parler du succès et de la suite des opérations, alors on y trouve la même incertitude que dans la médecine sur l’effet des re-mèdes intérieurs.

Instruction pour l’art des constructions

L’art des constructions doit former une branche importante de l’ins-truction publique, parce qu’il importe à la sûreté, à la prospérité du peuple qu’il soit exercé par des hommes éclairés, parce qu’une grande partie de ceux qui le cultivent devant être employés pour le service commun par des hommes qui les choisissent, non pour eux-mêmes, mais pour autrui, c’est un devoir de la puissance publique de rendre ce choix moins incertain, en préparant, par une instruction dirigée en son nom, les artistes sur lesquels il doit s’arrêter. Il suffirait d’un établis-sement dans chaque département, et de trois professions, l’un pour le dessin, un second pour les connaissances théoriques, un troisième pour celles qui tiennent plus immédiatement à la pratique. Une ins-truction plus complète serait ouverte dans la capitale, ou même dans quelques grandes villes (p. 166).
Il faudrait, pour le premier degré d’instruction, qu’une fois par se-maine les professeurs fissent une leçon pour ceux qui ont cessé d’être élèves, qui, déjà employés ou prêts à l’être, n’ont besoin que d’être te-nus au courant des méthodes et des observations nouvelles qui contri-buent à la perfection de l’art.
Dans la capitale, cette instruction des hommes faits pourra être l’objet d’un établissement plus étendu.
On sent bien qu’il ne s’agit pas ici de former un corps de construc-teurs : rien ne nuirait plus au progrès de cet art si vaste, si important ; rien ne contribuerait davantage à y perpétuer les routines, à y conser-ver des principes erronés. S’il faut une instruction publique pour cet art, c’est précisément afin qu’il n’y ait plus d’école, afin d’en détruire à jamais l’esprit.
Cette instruction, non seulement aura l’avantage d’offrir aux parti-culiers des artistes habiles pour la construction des édifices nécessai-res à l’économie rurale, édifices où la salubrité, la sûreté, la conserva-tion des produits sont presque partout si barbarement négligées ; pour l’exploitation et les travaux des mines, pour les usines, les bâtiments des manufactures, les canaux d’arrosage, les conduites d’eau, les ma-chines hydrauliques, mais elle présentera aux administrateurs des hommes éclairés, étrangers à toute corporation, qu’ils pourront charger des édifices Publics, des chemins, des ponts, des canaux de naviga-tion, des arrosages en grand, des aqueducs, etc., etc. Tout homme qui aurait obtenu des professeurs un certificat d’étude et de capacité sous la forme qui serait déterminée, pourrait être librement employé par les administrations
Des arts du dessin.
Des écoles dans la capitale et dans les grandes villes suffiraient, parce que le dessin entre déjà et dans l’éducation commune et dans l’éducation générale pour les professions mécaniques. Les préjugés gothiques avaient avili ces nobles occupations, il semblait qu’une main humaine était en quelque sorte déshonorée lorsqu’elle s’employait à autre chose qu’à signer des ordres ou à tuer des hommes (p. 167).
Dans d’autres siècles peut-être l’enthousiasme pour ces arts a pu en exagérer l’importance, tandis qu’une austère philosophie voulait les proscrire comme des sources de corruption.
Tout ce qui tend à donner par les sens des idées du grand et du beau ; tout ce qui peut élever les pensées, ennoblir les sentiments, adoucir les moeurs ; tout ce qui offre des occupations paisibles et des plaisirs, sans détourner des devoirs et sans diminuer ni la capacité ni l’ardeur de les remplir, mérite d’entrer dans une instruction nationale. Il dépend de la puissance publique d’en éloigner la corruption, puisque c’est elle qui ordonne les monuments destinés à être mis sous les yeux du peuple, puisque c’est d’elle que les artistes reçoivent leurs plus glo-rieux encouragements. Quel homme né avec le génie de la peinture le prostituera à des tableaux corrupteurs s’il sait que cet abus de son ta-lent lui ravira l’honneur d’immortaliser son pinceau en traçant les ac-tions que la reconnaissance publique consacre à la postérité ? D’ail-leurs, ce qui blesse réellement la décence n’a jamais eu rien de com-mun ni avec les grands talents, ni surtout avec la perfection des arts. Dans les temps de barbarie, des peintures de ce genre ornaient jus-qu’aux heures de nos dévots aïeux, et les ouvrages que le génie a quel-quefois consacrés à la volupté sont moins dangereux que ces peintures grossières.
Enfin, il serait aisé de prouver que l’habitude de voir de belles sta-tues, comme l’image des beautés que la nature a créées, est plutôt un obstacle au dérèglement de l’imagination. C’est en cachant sous les voiles du mystère les objets dont on veut la frapper, et non en la fami-liarisant avec eux, qu’on parvient à l’enflammer. Une religion sans mystères ne fait pas de fanatiques, et celui qui connaîtra la beauté lui rendra le culte pur qui est digne d’elle. La connaissance de ces arts emporte avec elle celle de la beauté des formes extérieures, celle de l’expression des sentiments et des passions, celle des rapports que les mouvements et les habitudes de l’âme, les qualités de l’esprit et du ca-ractère ont avec les mouvements du visage, la physionomie, la conte-nance, la conformation des traits ; ces arts sont donc un des anneaux de la chaîne de nos connaissances, ils doivent être comptés au nombre des moyens de perfectionner l’espèce humaine (p. 168).
Ceux qui ont voulu les proscrire comme des moyens de corruption avaient-ils oublié que toute société paisible tend à la douceur des moeurs, se porte vers les plaisirs que les arts peuvent procurer ; et qu’ainsi, en voulant que, pour rester libres, les hommes renonçassent à ces douces occupations, il fallait commencer par les enchaîner sous des lois contraires à la liberté, et les rendre esclaves pour qu’ils n’eus-sent pas à craindre de le devenir un jour ? Il ne reste donc à un législa-teur juste et sage que de diriger ce que l’ordre de la nature a rendu né-cessaire, de rendre utile ce qu’il ne peut empêcher sans injustice.

Musique

À ces arts il faut joindre la musique. Lorsque les sons se succèdent par intervalles mesurés, lorsque ceux qui se suivent ou qui s’entendent à la fois sans se confondre, répondent dans le corps sonore à un sys-tème de mouvements simples et réguliers, ils excitent naturellement sur l’organe de l’ouïe un sentiment de plaisir qui paraît influer sur l’en-semble de nos organes, et qui peut-être, de même que cette influence, a pour cause première cette régularité de vibration à laquelle tous nos mouvements tendent alors à se conformer en vertu des lois générales de la nature. Il y a plus : les sons, et par leur nature et par leur distri-bution ou l’ordre de leur succession, excitent et réveillent en nous des sentiments et des passions. Si la musique ne nous entraîne pas, si elle n’imprime pas à notre âme les mouvements qu’elle doit exciter, elle nous distrait, nous sépare de nous-mêmes pour nous porter vers de douces rêveries. Enfin, son influence est plus forte sur les hommes rassemblés ; elle les oblige à sentir de la même manière, à partager les mêmes impressions. Elle est donc au nombre des arts sur lesquels la puissance publique doit étendre l’instruction, et il ne faut pas négliger ce moyen d’adoucir les moeurs, de tempérer les passions sombres et haineuses, de rapprocher les hommes en les réunissant dans des plai-sirs communs.

Avantages politiques de l’enseignement des arts libéraux

L’enseignement des arts libéraux a encore un avantage politique qu’il ne faut point passer sous silence ; comme ils exigent des talents, des études, leurs productions doivent être payées plus chèrement que les travaux qui en demandent moins : ils sont donc un moyen d’établir (p. 169) plus d’égalité entre celui qui naît avec de la fortune et celui qui en est privé. Cet équilibre de richesses entre le patrimoine et le talent est un obstacle à l’inégalité, qui, malgré les lois politiques et civiles, pourrait se perpétuer ou s’introduire. On dira peut-être que cette même égalité détruirait les arts, qu’ils ne fleuriraient pas dans un pays où il n’y aurait que des fortunes médiocres : on se tromperait. Ceux qui n’aiment ces arts que par vanité veulent, sans doute, des jouissances solitaires. Un tableau ne leur fait plaisir que parce qu’il existe dans leur cabinet ; ils ne goûtent plus les talents d’un virtuose célèbre, s’ils ne l’entendent pas dans le concert qu’ils ont préparé. Il n’en est pas de même de ceux dont le goût pour les arts est l’effet de leur sensibilité. Ils n’ont pas be-soin, pour en jouir, d’un privilège de propriété. Si donc il n’y a point de particuliers assez riches pour encourager les grands ouvrages de l’art ; si les monuments publics dirigés par une sage économie ne suf-fisent pas, des sociétés libres d’amateurs s’empresseront d’y suppléer. Dans les pays où l’homme égal à l’homme ne s’agenouille point devant son semblable, revêtu par lui-même de titres imaginaires, comme le statuaire devant le dieu qu’il a formé de ses mains, ces sociétés rem-placeront avec avantage ce que les arts et les sciences pourraient at-tendre ailleurs de la protection des rois ou des grands. Animées de l’esprit public, dirigées par des hommes éclairées, l’intrigue et le ca-price ne présideraient point aux encouragements qu’elles donneraient ; ces encouragements n’ôteraient rien aux arts de leur dignité natu-relle, aux artistes de leur indépendance.

Sociétés destinées aux progrès des arts

L’instruction relative à l’économie rurale, à la science de la guerre, à la marine, à l’art de guérir, à celui des constructions, aux arts du des-sin, ne serait pas complète, s’il n’existait des sociétés destinées aux progrès de ces arts, et où ceux qui les cultivent pussent trouver des lumières, et surtout des préservatifs assurés contre l’erreur.
Ces sociétés, établies dans la capitale, doivent y être séparées des sociétés savantes proprement dites. En effet, si l’économie rurale est une partie de la botanique et de la zoologie ; si l’art de guérir est fondé sur l’anatomie, sur la chimie, sur la botanique ; si celui des construc-tions, comme la science de la guerre et la marine, a les mathématiques pour base, la manière dont les sociétés savantes et celles qui ont pour (p. 170) but la perfection de ces arts considèrent le même objet, emploient les mêmes vérités, doit être différente. Si vous introduisez dans les socié-tés savantes l’idée de préférer les connaissances immédiatement appli-cables a la pratique, d’écarter les théories qui ne présentent aucune utilité prochaine, alors vous énervez en elles la force avec laquelle elles doivent s’élancer dans ces régions immenses où repose la foule des vérités encore cachées à nos regards.
Si, au contraire, ces mêmes sociétés envisagent les arts d’une ma-nière trop spéculative, il existera entre la théorie et la pratique un in-tervalle que le temps seul pourra franchir ; les découvertes spéculati-ves resteront longtemps inutiles, la pratique ne se perfectionnera que lentement et au gré des circonstances. C’est à remplir cet intervalle que les sociétés savantes spécialement appliquées aux arts seront sur-tout destinées ; elles sauront profiter également et des découvertes des savants et des observations des hommes de l’art ; elles établiront une communication immédiate entre les vérités abstraites et les règles de la pratique ; elles rendront la théorie utile et la pratique éclairée. Le savant y trouvera des observations de détail que ses expériences n’au-raient pu lui faire connaître ; l’homme de l’art y puisera des principes qui auraient échappé à ses recherches. La chaîne de l’activité humaine ne sera point interrompue depuis les plus sublimes méditations du gé-nie jusqu’aux opérations les plus vulgaires des arts mécaniques.
Ces sociétés auront, de plus, l’avantage d’offrir un encouragement à ceux qui aiment à exercer leur raison, qui s’occupent plus de la perfec-tion réelle de leur art que de leurs propres succès ; surtout elles empê-cheraient l’esprit de routine, celui de système, celui d’école, de s’empa-rer de la pratique des arts. Ce dernier avantage ne serait pas rempli si, écartant de ces sociétés toute idée de corporation, toute inégalité rela-tive aux fonctions, aux grades que ceux qui les composeraient auraient hors du sein de la société, on n’y établissait une entière égalité, une liberté absolue dans les choix ; si ces sociétés sont autre chose que la réunion des hommes qui, successivement et par leur propre suffrage, se sont déclarés les plus éclairés dans l’art dont ils doivent accélérer les progrès. On a vu, dans un autre mémoire comment l’intérêt de leur propre gloire les défendrait alors contre les mauvais choix ; ici le pré-servatif serait plus sûr encore. Une académie de médecine dont les membres ne seraient appelés par aucun malade, une académie de peinture (p. 171) à laquelle on ne demanderait pas de tableaux, une académie mili-taire dont les membres ne seraient pas estimés des soldats, tombe-raient bientôt dans l’avilissement, seraient bientôt poursuivies par le ridicule.
On ne trouve ici ni la théologie, ni la jurisprudence au nombre des sciences que la puissance publique doit comprendre dans les établis-sements d’instruction.
Tout homme devant être libre dans le choix de sa religion, il serait absurde de le faire contribuer à l’enseignement d’une autre, de lui faire payer les arguments par lesquels on veut le combattre.
Dans toutes les autres sciences, la doctrine enseignée n’est pas arbi-traire ; la puissance publique n’a rien à choisir ; elle fait enseigner ce que les gens éclairés regardent comme vrai, comme utile. Mais, d’après qui décidera-t-elle que telle théologie est vraie ? Et quel droit aurait-elle d’en faire enseigner une qui peut être fausse ? On peut, jus-qu’à un certain point, faire payer un impôt pour les frais d’un culte ; la tranquillité publique peut l’exiger, du moins pour un temps très borné. Mais qui osera dire que l’enseignement de la théologie puisse être ja-mais un moyen de conserver la paix ?
Quant à la jurisprudence, un des premiers devoirs des législateurs est de faire assez bien les lois pour qu’elle cesse d’être une science né-cessaire, et que, bornée à ses principes généraux, qui dérivent du droit naturel, elle n’existe plus que comme une partie de la philosophie. Or, l’enseignement de la jurisprudence, en supposant qu’il fût encore utile pendant quelque temps, deviendrait le plus grand obstacle à la perfec-tion des lois, puisqu’il produira une famille éternelle d’hommes inté-ressés à en perpétuer les vices, et qu’il les éclairerait sur les moyens d’en écarter la réforme.
D’ailleurs, les lois qui ont besoin d’être éclaircies ont besoin d’être interprétées ; et c’est dans les assemblées des législateurs, et non dans l’école, que le sens en doit être fixé.

Cinquième mémoire

Sur l’instruction relative aux sciences
Objet de cette instruction

Une éducation générale est préparée pour tous les citoyens ; ils y apprennent tout ce qu’il leur importe de savoir pour jouir de la pléni-tude de leurs droits, conserver, dans leurs actions privées, une volonté indépendante de la raison d’autrui, et remplir toutes les fonctions communes de la société. Cette éducation est partagée en degrés divers, qui répondent à l’espace de temps que chacun peut Y consacrer, comme à la différence des talents naturels ; ceux à qui leur fortune n’aurait point permis de les développer, y trouvent des secours hono-rables. L’instruction suit l’homme dans tous les âges de la vie, et la société ne voue à l’ignorance que celui qui préfère volontairement d’y rester. Enfin, toutes les professions utiles reçoivent l’enseignement qui peut favoriser le progrès des arts (p. 173).
Il ne me reste plus qu’à parler de l’instruction relative aux sciences. Cette dernière partie de l’enseignement public est destinée à ceux qui sont appelés à augmenter la masse des vérités par des observations ou par des découvertes, à préparer de loin le bonheur des générations fu-tures ; elle est nécessaire encore pour former les maîtres qui doivent être attachés aux établissements où s’achève l’instruction commune, à ceux où l’on se prépare à des professions qui exigent des lumières étendues. Il suffira d’une institution sagement combinée dans la capi-tale ; c’est là que, prenant les jeunes gens au point où l’instruction commune les a laissés, où ils n’ont acquis encore que les notions élé-mentaires et l’habitude de la réflexion, on les introduira dans le sanc-tuaire des sciences, on les conduira pour chacune au point où elle s’ar-rête, et où chaque pas qu’ils pourraient faire au-delà de ce qu’ils ont appris serait une découverte.

Méthode d’enseigner

Dans cet enseignement on ne développera en détail ; on s’attachera que les théories vraiment importantes ; surtout à faire sentir l’esprit et l’étendue des moyens qui ont conduit à de nouvelles vérités, à montrer ce qui a été le fruit du travail, et ce qui a été précisément l’ouvrage du génie. En effet, il existe dans chaque découverte un principe, une opé-ration quelconque qu’il a fallu deviner, et qui sépare chaque méthode, chaque théorie, de celle qui, dans l’ordre des idées, a dû la précéder.
Il ne faudrait pas avoir la prétention de s’astreindre à suivre la mar-che des inventeurs. Cette marche historique est dépendante de celle que suit la science entière à chaque époque, de l’état des opinions, des goûts, des besoins de chaque siècle ; elle n’est pas assez méthodique, assez régulière pour servir de base à l’instruction. Souvent la première solution a été indirecte ou incomplète ; souvent une question qui ap-partenait à une science est devenue l’occasion de découvertes impor-tantes faites dans une autre ; quelquefois même on y a été conduit par les principes d’une science étrangère. D’ailleurs, ce qui importe vérita-blement, ce n’est pas de montrer l’art d’inventer dans ceux qui, séparés de nous par un long espace de temps, ignoraient et les méthodes ac-tuelles et les nombreux résultats qui en sont le fruit ; c’est dans ces méthodes nouvelles qu’il faut surtout faire observer les procédés du génie. Voilà ce qu’un maître habile pourra faire ; il saura montrer (p. 174) comment l’homme qui se trouvait obligé de résoudre telle difficulté, a su, entre les fils qui s’offraient à lui, deviner le seul qui pouvait le conduire sûrement. Les livres destinés à cette instruction doivent être faits ou choisis par les maîtres, et doivent l’être d’une manière indé-pendante ; ces ouvrages ne sont pas, comme les livres élémentaires de l’instruction commune, destinés à ne contenir que des choses conve-nues ; ils ne se bornent point à enseigner ce que l’on juge utile pour une certaine profession. Il y aurait du danger pour la liberté à donner la moindre influence sur ce travail à la puissance publique ; il serait à craindre pour le progrès des lumières que les académies y introduisis-sent l’esprit de système. Les progrès des individus sont plus rapides que ceux des sociétés, et on risquerait de corrompre celles-ci, si on les obligeait à former ou à reconnaître un corps de doctrine.
je ne m’arrêterai point sur l’enseignement des sciences mathémati-ques ou physiques ; à peine pourrait-on y démêler encore quelques traces de l’esprit de l’école ou de la fausse philosophie, et elles s’effa-ceront bientôt.

Enseignement des sciences morales

L’enseignement de la métaphysique, de l’art de raisonner, des diffé-rentes branches des sciences politiques, doit être regardé comme en-tièrement nouveau. Il faut d’abord le délivrer de toutes les chaînes de l’autorité, de tous les liens religieux ou politiques. Il faut oser tout examiner, tout discuter, tout enseigner même. Lorsqu’il s’agit de l’édu-cation commune, il serait absurde que la puissance publique ne réglât pas ce qui en doit faire partie ; mais il ne le serait pas moins qu’elle voulût le régler, lorsque l’instruction doit embrasser toute la carrière d’une science. Dans le petit nombre de théories qu’on doit développer aux enfants, à ceux qui ne peuvent donner que peu de temps à l’ins-truction, il est bon de faire un choix, et c’est à la volonté nationale à le diriger, mais ce serait attenter à la liberté des pensées, à l’indépen-dance de la raison, que d’exclure quelques questions de l’ensemble général des connaissances humaines, ou de fixer la manière de les ré-soudre (p. 175).
Supposons qu’un maître enseignât une fausse doctrine, la voix des hommes éclairés réunis contre lui n’aurait-elle pas à l’instant discrédité ses leçons ?
Il faut encore chercher à réduire ces sciences à des vérités positi-ves, appuyées, comme celles de la physique, sur des faits généraux et sur des raisonnements rigoureux ; écarter tout ce qui, en parlant à l’âme ou à l’imagination, séduit ou égare la raison, et prouver les véri-tés avant de prétendre à les faire aimer.
À ces précautions il faut joindre celle de n’employer qu’un langage analytique et précis, de ne point attacher à un mot une signification vague, déterminée uniquement par le sens des phrases où il est em-ployé ; car alors il arrive souvent que, de deux propositions qui parais-sent vraies, on déduit une conséquence fausse, parce que le syllogisme a réellement quatre termes.
Si ces grandes questions de la liberté, de la distinction de l’esprit et de la matière, etc., etc. ont tant troublé les imaginations égarées ; si elles ont produit tant de vaines subtilités, c’est parce qu’on se servait d’un langage sans précision, qu’on employait la méthode des défini-tions au lieu de l’analyse, le raisonnement au lieu de l’observation.

Enseignement de l’histoire

L’enseignement de l’histoire demande une attention particulière. Ce vaste champ d’observations morales faites en grand, peut offrir une abondante moisson de vérités utiles ; mais presque tout ce qui existe d’histoires serait plus propre à séduire les esprits qu’à les éclairer.
Les auteurs anciens, dont les modernes n’ont été que les copistes, amoureux d’une liberté qu’ils faisaient consister à ne pas avoir de rois et à ne pas dépendre d’un sénat usurpateur, connaissaient peu les lois de la justice naturelle, les droits des hommes et les principe de l’égali-té. Presque tous même paraissent pencher en faveur du parti qui, sous prétexte d’établir un gouvernement plus régulier, plus sage, plus paisi-ble, voulait concentrer l’autorité entre les mains des riches. Presque tous ont donné le nom de factieux et de rebelles à ceux qui ont défendu (p. 176) l’égalité, soutenu l’indépendance du peuple, et cherché à augmenter son influence.
Gillies, dans l’histoire de l’ancienne Grèce a prouvé que l’ambition des riches qui voulaient éloigner du gouvernement les citoyens pau-vres, et les traiter comme leurs sujets, a été la véritable cause de la perte de la liberté ; que les guerres intestines qui divisèrent les villes grecques ne furent presque jamais qu’un combat entre des riches adroits qui voulaient devenir ou rester les maîtres, et une multitude ignorante qui voulait être libre, et n’en connaissait pas les moyens.
L’histoire romaine prouverait aussi que l’ambition du sénat a seule causé les malheurs du peuple, et la chute de la république ; que ce corps, dont nos rhéteurs modernes ont tant célébré la vertu, ne fut ja-mais qu’une troupe de tyrans hypocrites et cruels, tandis que ces tri-buns séditieux, voués dans nos livres à l’exécration des siècles, ont presque toujours soutenu la cause de la justice. On verra que ces Gracques, ces Drusus, si longtemps accusés d’avoir employé leur cré-dit sur les citoyens pauvres pour troubler l’État, cherchaient au contraire à détruire l’influence que la populace de Rome avait dans les affaires publiques ; qu’ils avaient senti combien cette influence favori-sait l’empire du sénat, combien elle présentait aux ambitieux de moyens pour s’élever à la tyrannie. Ils voulaient faire sortir de son avi-lissement la classe opprimée du peuple, pour qu’elle ne devînt pas la dupe de l’hypocrisie d’un Marius ou d’un César, et l’instrument de leurs fureurs. Ils voulaient multiplier le nombre des citoyens indépen-dants, pour que la troupe servile des clients du sénat et les légions mercenaires d’un consul ne devinssent pas toute la république.
L’histoire moderne a jusqu’ici été corrompue, tantôt par la nécessité de ménager les tyrannies établies, tantôt par l’esprit de parti. L’habi-tude introduite par les théologiens, de décider toutes les questions par l’autorité ou l’usage des temps anciens, avait gagné toutes les parties des connaissances humaines. Chacun cherchait à multiplier les exem-ples favorables à son opinion, à ses intérêts.
Un ami de la liberté ne voyait dans Charlemagne que le chef d’un peuple libre ; un historiographe en faisait un souverain absolu. Des histoires de France, écrites par un parlementaire, par un prêtre ou par (p.177) un pensionnaire de la cour, paraissent à peine celle d’un même peuple. Ces deux causes ont bien plus contribué à l’insipidité de nos histoires que la différence des événements, des moeurs et des caractères. Vol-taire même, le premier des historiens modernes, si grand dans la partie morale de l’histoire, n’a pu, dans la partie politique, s’abandonner à son génie. Forcé de ménager un des ennemis de l’espèce humaine pour avoir le droit d’attaquer l’autre avec impunité, il écrasa la superstition, mais il n’opposa au despotisme que le cri de l’humanité et les règles de la justice personnelle ; il lui reproche ses crimes, mais il laisse en paix reposer entre ses mains royales le pouvoir de les commettre.
Il nous faut donc une histoire toute nouvelle, qui soit surtout celle des droits des hommes, des vicissitudes auxquelles ont été partout as-sujetties et la connaissance et la jouissance de ces droits ; une histoire où, mesurant d’après cette base unique la prospérité et la sagesse des nations, l’on suive chez chacune les progrès et la décadence de l’inéga-lité sociale, source presque unique des biens et des maux de l’homme civilisé.

Choix des maîtres

je n’entrerai dans aucun détail sur la distribution des diverses par-ties de l’enseignement des sciences, ni sur la manière de nommer des professeurs. Les principes que j’ai exposés dans le second mémoire peuvent s’appliquer à tous les degrés, tous les genres d’instruction. Les concours, la concurrence des élèves dans le choix des maîtres servi-raient moins à faire tomber la préférence sur les plus habiles, qu’à dé-tourner ceux qui se destinent à cette fonction d’une étude solitaire et profonde ; ils la sacrifieraient à la nécessité d’acquérir les petits talents propres à éblouir les juges ou à séduire les disciples. Mais il est en quelque sorte plus essentiel encore que la nomination de ceux dont l’enseignement a pour but le progrès des sciences soit indépendante de la puissance publique, afin de lui enlever le moyen d’étouffer, dans leur berceau, les vérités qu’elle peut avoir intérêt de craindre. En géné-ral, tout pouvoir, de quelque nature qu’il soit, en quelques mains qu’il ait été remis, de quelque manière qu’il ait été conféré, est naturelle-ment ennemi des lumières. On le verra flatter quelquefois les talents, s’ils s’abaissent à devenir les instruments de ses projets ou de sa vanité (p. 178) : mais tout homme qui fera profession de chercher la vérité et de la dire, sera toujours odieux à celui qui exercera l’autorité.
Plus elle est faible et partagée, plus ceux à qui elle est remise sont ignorants et corrompus, plus cette haine est violente. Si l’on peut citer quelques exceptions, c’est lorsque, par une de ces combinaisons extra-ordinaires qui se reproduisent tout au plus une fois dans vingt siècles, le pouvoir se trouve entre les mains d’un homme qui réunit un génie puissant à une vertu forte et pure ; car même l’espèce de vertu qui peut appartenir à la médiocrité ne préserve pas de cette maladie, née de la faiblesse et de l’orgueil.
Il n’est pas nécessaire de fouiller dans les archives de l’histoire pour être convaincu de cette triste vérité ; dans chaque pays, à chaque épo-que, il suffit de regarder autour de soi. Tel doit être, en effet, l’ordre de la nature ; plus les hommes seront éclairés, moins ceux qui ont l’auto-rité pourront en abuser, et moins aussi il sera nécessaire de donner aux pouvoirs sociaux d’étendue ou d’énergie. La vérité est donc à la fois l’ennemie du pouvoir comme de ceux qui l’exercent, plus elle se ré-pand, moins ceux-ci peuvent espérer de tromper les hommes ; plus elle acquiert de force, moins les sociétés ont besoin d’être gouvernées.
On ne doit point imposer aux maîtres l’obligation de répondre aux questions qu’on leur propose.
Les maîtres seront-ils obligés de donner des éclaircissements à ceux qui leur en demanderaient sur des questions difficiles ? je ne le crois pas. Il n’est point de professeur qui ne donne volontairement la solution des difficultés qu’on lui présente ; mais si on lui en fait un devoir, comment en fixera-t-on la limite ? Répondra-t-il aux questions écrites comme aux questions verbales ? Fixera-t-on le temps qu’il doit employer à ces réponses ? Dans un pays où tous les hommes sont éga-lement soumis à la loi, on ne doit leur imposer que des devoirs qui puissent être déterminés par elle : il ne faut point tromper les citoyens par des indications qui leur persuadent qu’ils ont droit d’exiger ce que souvent il serait impossible de leur accorder. Pourquoi ne pas se repo-ser ici sur le désir qu’auront naturellement les professeurs d’augmenter leur réputation, d’obtenir la confiance et l’estime de leurs élèves ? (p. 179).

Instruction qui résulte pour les hommes de l’institution des sociétés savantes.

À cet enseignement, destiné surtout pour la jeunesse, mais dont les hommes pourront retirer, sinon l’avantage de s’ouvrir la carrière des sciences, du moins celui d’en étudier les diverses parties et d’en suivre les progrès, il faut joindre l’instruction que tous peuvent attendre des sociétés savantes. Nous avons déjà montré comment elles y serviraient indirectement, en préservant des erreurs, en opposant des obstacles à la charlatanerie comme aux préjugés. Elles sont encore un moyen d’étendre les vérités et d’en augmenter la masse.
Ces sociétés sont un encouragement utile, même pour les hommes de génie.
Si elles se recrutent elles-mêmes, et que le nombre de leurs mem-bres soit borné, le désir d’être inscrit sur leur liste devient un encoura-gement, utile même à l’homme de génie, plus utile à celui d’un talent borné, qui ne peut mériter un peu de renommée que par des travaux assidus et multipliés. Tant que les hommes auront besoin de gloire pour se livrer au travail, tant que les sciences seront une sorte d’état, et non l’occupation paisible de ceux qui n’ont pas besoin de fortune, tant que des gouvernements mal combinés exerceront sur tous les objets une inquiète et fatigante activité, emploieront une multitude d’agents, et les enlèveront à une vie paisible et occupée, les sociétés savantes seront encore nécessaires aux progrès des lumières. C’est d’elles qu’émane, pour ceux qui les composent, cette célébrité peu bruyante dont ils se contentent, mais qui leur coûterait trop d’efforts, qui sou-vent leur échapperait, s’ils étaient obligés de l’acquérir par des suffra-ges dispersés. Elles seules peuvent encourager les talents qui ont peu de juges, les travaux qui ne peuvent acquérir de mérite ou d’éclat aux yeux vulgaires qu’après avoir été suivis en silence souvent pendant une vie entière.

Elles accélèrent la communication des lumières

Ces sociétés seront plus longtemps utiles sous un autre point de vue bien plus important. C’est par le moyen de leurs mémoires, publiés (p. 180) périodiquement, que toutes les découvertes, les observations, les expériences, et même les simples vues, les projets de recherches peu-vent être répandus et conservés.
Ces vérités isolées, qui seraient restées inconnues plusieurs années, s’il avait fallu que l’auteur les enfermât dans un grand ouvrage, et qui peut-être auraient été ensevelies avec lui, si une mort prématurée l’eût arrêté dans sa course, sont insérées dans ces recueils ; elles y sont lues, méditées, appliquées, perfectionnées longtemps avant l’époque où elles auraient paru dans le traité complet dont elles devaient faire partie. Ce ne sont pas les académies qui ont fait d’Euler un homme de génie ; mais sans elles ce génie n’eût pu développer son infatigable et prodigieuse activité. Newton avait découvert la loi générale du sys-tème du monde vingt ans avant la publication de l’ouvrage où il l’a révélée. Trompé, pendant quelques années, par des tables inexactes, il crut que cette loi n’était pas d’accord avec les phénomènes. Ceux qui connaissent les collections de Paris, de Londres, de Berlin, de Péters-bourg, de Suède, d’Italie, savent combien elles ont répandu de décou-vertes mathématiques, d’analyses chimiques, de descriptions d’ani-maux ou de végétaux, d’observations importantes dans toutes les par-ties de la physique et des arts.
Elles servent à empêcher que certaines parties des sciences ne soient négligées.
Ces mêmes sociétés sont nécessaires pour empêcher que certaines parties des sciences ne soient abandonnées ; c’est pour cela qu’il est utile de partager ces corps en différentes classes qui en embrassent l’immensité : et c’est surtout d’après cette vue que ces classes doivent être formées, en ayant soin de réunir entre elles les parties des scien-ces qui sont cultivées à la fois par les mêmes hommes. Si on cherchait à former des divisions purement philosophiques, on s’écarterait sou-vent du but qu’on veut atteindre, à moins que l’on ne prit pour base, non la différence des objets, mais celle des méthodes ; non la nature même de la science, mais celle des qualités qu’elle exige de ceux qui s’y livrent.
C’est principalement d’après les méthodes de chercher les vérités qu’on doit observer et juger la marche des sciences ; mais chaque méthode (p. 181) n’a qu’une certaine étendue : elle s’épuise comme le filon d’une mine précieuse, et finit par ne donner que de loin en loin quelques vé-rités. Les moyens propres à chaque science n’ont aussi qu’un certain degré d’activité, d’étendue, de précision. L’astronomie doit languir après une période de succès, si l’art de diviser les instruments et de construire des lunettes ne fait pas de progrès. Toutes les questions que certaines méthodes peuvent résoudre dans l’analyse sans employer des calculs trop longs, trop fatigants, sont résolues les premières. La com-plication des calculs qu’exigeraient de nouvelles questions oblige de s’arrêter jusqu’au moment où d’autres méthodes ouvriront une route plus facile. Les détails de l’anatomie humaine, quant à la partie des-criptive, doivent s’épuiser. Il arrivera un moment où les animaux, les plantes, les minéraux seront connus sur une grande partie du globe, et où les nouveaux objets qui en compléteraient le système ne présente-ront plus de phénomènes vraiment nouveaux, n’offriront plus de résul-tats piquants.
Il n’y a pas de science qui, par la nature même des choses, ne soit condamnée à des intervalles de stagnation et d’oubli. Si cependant on la néglige alors, si on n’en perfectionne pas, quant à la méthode, aux développements, la partie déjà terminée, si on en perd la mémoire, il faudra reparcourir une seconde fois ces routes abandonnées, lorsque de nouveaux besoins ou de nouvelles découvertes engageront les es-prits à s’y porter de nouveau. Mais, au contraire, si des sociétés savan-tes conservent l’étude de ces sciences, alors, aux époques fixées par la nature pour leur renouvellement, on les verra reparaître avec une nou-velle splendeur.
Elles servent à préparer les découvertes en rassemblant des observations.
Les académies ne font pas de découvertes, le génie agit seul ; il est plus embarrassé que secouru par des forces étrangères ; mais dans les sciences naturelles souvent les découvertes ne peuvent être que le ré-sultat d’un grand nombre de faits qu’il a fallu observer dans des cli-mats divers, suivre dans plusieurs lieux à la fois, continuer de voir pendant une longue suite d’années (p. 182).
Dans plusieurs genres, dans la météorologie, par exemple, dans l’agriculture physique, dans l’histoire naturelle du globe ou dans celle de l’homme, dans quelques parties de l’astronomie, jamais des obser-vations isolées, faites suivant les vues particulières de chaque observa-teur, ne peuvent remplacer un système de recherches, s’étendant sur les divers points du globe où les sciences ont pénétré, embrassant non la durée de la vie active d’un seul homme, mais celle de plusieurs gé-nérations.
Les sociétés savantes sont donc utiles pour rassembler ces observa-tions, pour les diriger. Ces importants services ne se bornent même point aux sciences physiques, ils s’étendent aux recherches histori-ques, aux antiquités ; ils existent même pour les sciences morales, car les effets des lois, des diverses constitutions, des règlements d’admi-nistration, de finance ou de commerce, ne peuvent aussi être connus que par une observation longue et suivie.
De ces masses de faits que le zèle a rassemblés, dont les lumières des observateurs garantissent la réalité et la précision, le génie doit tirer un jour ces grandes vérités qui, de loin en loin, consolent l’esprit humain de son ignorance et de sa faiblesse.

Utilité d’un tableau général des sciences

On pourrait enfin obtenir des sociétés savantes un ouvrage néces-saire à l’instruction générale du genre humain, qui n’a jamais été en-trepris, et qu’elles seules peuvent exécuter dans l’état actuel des lumiè-res et des sociétés. Je veux parler d’un tableau général et complet de toutes les vérités positives découvertes jusqu’ici. Il contiendrait, par exemple, pour les sciences mathématiques tous les problèmes que les géomètres ont résolus, toutes les vérités qu’ils ont prouvées, toutes les théories qu’ils ont établies, toutes les méthodes qu’ils ont données. On y joindrait toutes les applications de ces théories à la philosophie, à la politique, à l’astronomie, à la physique, à la mécanique, aux arts, et en même temps l’indication de toutes les machines, de tous les métiers, de tous les instruments connus. On voit aisément comment on peut former ce même tableau pour les sciences naturelles, et comment il servirait à montrer la richesse ou la pauvreté réelle de chacune d’elles. Le même travail s’exécuterait également pour les sciences morales (p.183) pour les antiquités, pour l’histoire ; mais à mesure qu’on s’éloignerait des vérités simples des mathématiques pures, il deviendrait bien plus difficile ; il contracterait quelque chose de plus arbitraire, de plus in-certain, de moins immuable. Une vérité mathématique une fois ins-crite dans cet ouvrage pourrait y rester toujours, ou du moins n’en sor-tir que pour se perdre dans la vérité plus générale qui la renferme ; mais dans les autres sciences, il faudrait effacer quelquefois ce que l’on a cru savoir le mieux, parce que les vérités n’y sont en général que le résultat des faits connus, résultats qui peuvent être changés par la découverte de faits nouveaux. Les conséquences les mieux déduites des observations sur les objets existants sont vraies seulement pour les idées que d’après ces mêmes observations on pouvait se former de ces objets ; elles peuvent donc cesser de l’être, lorsque le temps aura don-né des mêmes objets une idée plus complète indépendamment de cette différence qui tient à la nature de la science, ces mêmes tableaux se-ront plus ou moins défectueux, suivant le degré où la philosophie de la science sera portée, et suivant la perfection plus ou moins grande de la langue qui lui est propre. Ainsi, dans les sciences naturelles, dans les sciences morales, le tableau doit non seulement s’étendre, mais, à quelques égards, il doit changer à chaque génération. C’est un de ces ouvrages qu’il faut s’occuper de perfectionner sans cesse, et ne finir que pour le recommencer.
Ce tableau général ne devrait être ni une collection de traités com-plets sur les sciences, ni leur histoire détaillée, ni un dictionnaire, mais une exposition systématique où les démonstrations, les conséquences immédiates seraient supprimées, où l’on renverrait aux ouvrages dans lesquels chaque vérité se trouve développée, où l’on pourrait saisir d’un coup d’oeil, pour chaque portion de ce vaste ensemble, et quelles sont les richesses et quels sont les besoins de l’esprit humain, où, en observant à quel point il s’est arrêté, on apprendrait quels sont les premiers pas qu’il doit essayer de faire.
Ce ne serait pas un simple inventaire des connaissances humaines, mais un arsenal où le génie pourrait trouver toutes les armes que les travaux de tous les siècles lui ont préparées ; car ces tableaux doivent contenir les méthodes de découvrir comme les découvertes elles-mêmes, les moyens comme les résultats (p. 184).
Un tel ouvrage ne peut être exécuté que par des hommes qui joi-gnent un esprit philosophique à une connaissance approfondie de tou-tes les parties de la science à laquelle ils se livrent, et peut-être n’existe-t-il personne en état de l’exécuter sans secours, même pour une seule science ; mais un savant, en soumettant son travail à ceux qui ont suivi la même carrière, apprendrait d’eux ce qui dans chaque partie a pu lui échapper. Cet ouvrage ne peut donc être entrepris avec succès que par des sociétés formées des hommes les plus éclairés dans tous les genres.
Dans quelques sciences on serait étonné des richesses de l’esprit humain, dans quelques autres des lacunes qui restent à remplir.
Il ne faut pas croire qu’un tel ouvrage fût immense il serait moins volumineux que ceux qui ont fait connaître les richesses des grandes bibliothèques. Le catalogue des vérités serait bien moins étendu que celui des livres.
Correspondance des sociétés savantes de la capitale avec les autres établissements relatifs aux sciences.
Les sociétés savantes de la capitale, dont l’une aurait pour objet les sciences mathématiques et physiques ; l’autre les sciences morales ; la troisième l’antiquité, l’histoire, les langues, la littérature, et qui em-brasseraient ainsi le cercle entier des connaissances humaines, seraient liées avec les sociétés attachées aux parties pratiques des sciences.
Un cabinet d’histoire naturelle réuni à un jardin de botanique, un cabinet d’anatomie humaine et comparée, un cabinet de machines, des bibliothèques, un cabinet d’antiquités, seraient confiés chacun à un directeur chargé de les conserver, de les compléter, d’en faire jouir les savants. Ces cabinets, dépôts généraux des sciences, seraient distin-gués d’autres cabinets destinés à l’enseignement. Ceux-ci doivent être distribués suivant la méthode que le professeur suit dans ses leçons ; les morceaux, les instruments qui les composent doivent être choisis de manière a pouvoir faciliter l’instruction, a présenter aux élèves ce que l’on veut leur montrer. Le jardin de botanique destiné à l’ensei-gnement serait aussi séparé de celui dont l’objet serait de rassembler les plantes de tous les pays, de tous les climats (p. 185).
Les sociétés de la capitale correspondraient avec celles des provin-ces, recueilleraient leurs observations, en publieraient les journaux. Les établissements publics relatifs aux sciences correspondraient avec ceux qui, dans ces provinces, auraient une même destination. Les so-ciétés de la capitale communiqueraient à celles des provinces des dé-couvertes nouvelles, qu’un commerce plus suivi avec les savants étrangers leur ferait connaître ; elles leur indiqueraient les observa-tions, les recherches qu’il est utile de faire à la fois dans les diverses parties de l’empire, celles pour lesquelles leur position leur donne des avantages, les essais de botanique, de zoologie, d’économie rurale qu’on peut espérer d’y tenter avec plus de succès. En un mot, par cette correspondance continue, active, on réaliserait avec plus de généralité et de méthode le vaste projet de Bacon. La nature, interrogée partout, observée sur toutes ses faces, attaquée à la fois par toutes les métho-des, par tous les instruments propres à lui arracher ses secrets, serait forcée de les laisser échapper. Ainsi, l’on réunirait tout ce qu’on peut attendre des efforts isolés du génie laissé à lui-même, et tout ce que l’action combinée des hommes éclairés peut produire ; ainsi, l’on pro-fiterait à la fois et de toute l’énergie de la liberté, et de toute la puis-sance d’un concert constant et unanime.
Il faudrait que les sociétés de la capitale eussent des associés rési-dents dans les provinces, afin d’y faire naître une émulation plus grande, afin de détruire toute idée d’une infériorité qui n’existe pas, afin que, si les sociétés de la capitale obtiennent quelque préférence, elles paraissent la devoir, non à l’étendue de la ville où elles s’assem-blent, mais au mérite de ceux qui les composent. je bornerais donc l’obligation de la résidence, toujours rachetée par un traitement, au nombre de savants nécessaire dans chaque partie, pour conserver l’existence habituelle du corps, et j’étendrais davantage le nombre de ceux de qui la résidence n’est pas exigée, mais qu’elle n’exclurait pas. Pour les uns et les autres, la distinction des classes aurait lieu égale-ment, et le nombre serait fixé pour chacune, soit par une détermina-tion absolue, soit seulement en le resserrant entre deux limites (p. 186).

Différence entre l’objet de cette instruction et celui de l’instruction générale

Le perfectionnement physique et moral de l’espèce humaine serait le but de ce grand système d’associations, de cette lutte éternelle qu’el-les établiraient entre la nature et le génie, entre l’homme et les choses, et dans laquelle, soumettant à son pouvoir ce qui semblait hors de ses atteintes, tirant avantage de ce qui semblait n’exister que contre lui, tout deviendrait successivement pour lui un moyen de s’éclairer ou un instrument de bonheur. Tandis que le reste de l’instruction lui montre-rait à profiter des connaissances acquises, le rendrait plus capable de veiller à son bien-être ou de remplir ses devoirs, répandrait sur la so-ciété la paix et les vertus, y multiplierait les jouissances, celle-ci pré-parerait des avantages plus grands pour les générations qui n’existent pas encore, et préviendrait les effets éloignés des causes qui menacent de détruire ceux que nous pouvons espérer de leur transmettre.
L’une donne à la patrie des citoyens dignes de la liberté, l’autre doit défendre et perfectionner la liberté même ; l’une empêchera les intri-gants de rendre leurs contemporains instruments ou complices de leurs desseins, l’autre préservera les races futures de voir de nouveaux préjugés ravir encore à l’homme et son indépendance et sa dignité.

Conclusion

Telles sont sur l’instruction publique, les idées dont j’ai cru devoir l’hommage à mon pays ; elles sont le produit d’une longue suite de réflexions, d’observations constantes sur la marche de l’esprit humain dans les sciences et dans la philosophie. Longtemps j’ai considéré ces vues comme des rêves qui ne devaient se réaliser que dans un avenir indéterminé, et pour un monde où je n’existerais plus. Un heureux événement a tout à coup ouvert une carrière immense aux espérances du genre humain ; un seul instant a mis un siècle de distance entre l’homme du jour et celui du lendemain. Des esclaves, dressés pour le service ou le plaisir d’un maître, se sont réveillés étonnés de n’en plus avoir, de sentir que leurs forces, leur industrie, leurs idées, leur volon-té n’appartenaient plus qu’à eux-mêmes. Dans un temps de ténèbres, ce réveil n’eût duré qu’un moment : fatigués de leur indépendance, ils (p. 187) auraient cherché dans de nouveaux fers un sommeil douloureux et pé-nible ; dans un siècle de lumières, ce réveil sera éternel. Le seul sou-verain des peuples libres, la vérité, dont les hommes de génie sont les ministres, étendra sur l’univers entier sa douce et irrésistible puis-sance ; par elle tous les hommes apprendront ce qu’ils doivent vouloir pour leur bonheur, et ils ne voudront plus que le bien commun de tous. Aussi, cette révolution n’est-elle pas celle d’un gouvernement, c’est celle des opinions et des volontés ; ce n’est pas le trône d’un des-pote qu’elle renverse, c’est celui de l’erreur et de la servitude volontai-res ; ce n’est point un peuple qui a brisé ses fers, ce sont les amis de la raison, chez tous les peuples, qui ont remporté une grande victoire : présage assuré d’un triomphe universel.
Cette révolution excite des murmures ; mais n’avait-on pas dû pré-voir que, pour remettre les hommes à la place que la nature leur avait marquée, il faudrait en laisser bien peu à celle qu’ils occupaient ; et ce mouvement général pouvait-il s’opérer sans frottements et sans se-cousse ?
L’éducation n’avait point appris aux individus des classes usurpa-trices à se contenter de n’être qu’eux-mêmes ; ils avaient besoin d’ap-puyer leur nullité personnelle sur des titres, de lier leur existence à celle d’une corporation ; chacun s’identifiait tellement à la qualité de noble, de juge, de prêtre, qu’à peine se souvenait-on qu’on était aussi un homme. Ils croyaient ce qu’on devait croire dans une telle profes-sion ; ils voulaient ce qu’il était d’usage d’y vouloir. En les séparant de tout ce qui leur était étranger, on leur a tout ôté ; et ils se croient anéantis, parce qu’il ne leur reste plus que leur seule personne. Ils sont comme l’enfant à qui l’on a enlevé ses lisières et ses hochets, et qui pleure parce qu’il ne sait ni se soutenir ni s’occuper.
Plaignons-les de ne pas jouir de voir l’homme rétabli dans ses droits, la terre affranchie de son antique servitude, l’industrie délivrée de ses fers, la nature humaine sortie de l’humiliation, les opinions ren-dues à l’indépendance, l’humanité consolée des outrages de l’orgueil et de la barbarie ; plaignons-les de ne pas éprouver un plaisir nouveau à respirer un air libre, de ne pas trouver dans l’égalité, la douceur de n’être plus entourés d’hommes qui avaient à leur demander compte d’une usurpation ou d’une injustice ; plaignons-les d’être même inaccessibles (p. 188) à l’orgueil de n’avoir plus d’autre supériorité que celle de leurs talents, d’autre autorité que celle de leur raison, d’autre grandeur que celle de leurs actions. Mais qu’ils permettent du moins à un homme libre d’oser, au nom de l’humanité consolée, remercier les au-teurs de tant de bienfaits, d’avoir rendu possible tout ce que la philo-sophie avait osé concevoir pour le bonheur des hommes, et d’avoir ouvert au génie une carrière qu’il n’est plus désormais au pouvoir des oppresseurs de lui fermer. La postérité, les nations étrangères impar-tiales comme elle, pardonneront des fautes qui sont l’ouvrage de la nécessité ou des passions, et se souviendront du bien qui, né de la rai-son et de la vertu, doit être immortel comme elles ; elles distingueront l’ouvrage de la philosophie et celui de l’ambition ou de l’intrigue, elles ne confondront point les bienfaiteurs des peuples avec les imposteurs qui cherchent à les séduire. Elles sépareront les hommes qui, cons-tamment attachés à la vérité, ont été fidèles à leurs opinions, de ceux qui ne l’ont été qu’à leur intérêt ou à leurs espérances. Le règne de la vérité approche ; jamais le devoir de la dire n’a été plus pressant, parce qu’il n’a jamais été plus utile. Il faut donc que ceux qui lui ont dévoué leur vie apprennent à tout braver ; il faut être prêt à lui sacrifier même cette célébrité, cette opinion, dernier effort que la raison exige, et qu’il lui est si rare d’obtenir.
On n’a pas toujours le pouvoir ou l’adresse de présenter la ciguë aux Socrates, tous les triumvirs n’ont pas des Popilius à leurs ordres ; mais il sera toujours facile aux tyrans d’acheter sinon les talents, du moins la méchanceté d’un Aristophane. Toujours ces instruments de la calomnie, les plus vils des hommes après ceux qui les emploient, en-vironneront la médiocrité orgueilleuse et puissante ; toujours ils seront flattés que l’ambition et la politique daignent les associer à leurs pro-jets et à leurs crimes. Mais quel ami de la vérité serait effrayé de leurs vaines clameurs ? Qu’importe à celui qui peut faire aux hommes un bien éternel, d’être méconnu un instant, et de perdre des suffrages qui lui auraient peut-être mérité des honneurs de quelques jours ? Regret-tera-t-il qu’on l’ait empêché d’être utile ? Mais il le sera bien plus sû-rement encore en remplissant sa noble carrière. Qu’il ait donc le cou-rage de braver la calomnie comme la persécution, et de n’y voir qu’une preuve glorieuse de ses services, plus attestés par ces cris des ennemis de la chose publique, toujours éclairés sur leurs intérêts, que par les applaudissements de ses faibles amis, souvent si faciles à égarer (p. 189).


DOSSIER

Le dossier concluant ce volume précise le contexte immédiatement contemporain ou légèrement postérieur à la rédaction des Cinq Mé-moires sur l’instruction publique. Les textes suivants, méconnus, in-sistent sur la nécessité d’instaurer une instruction publique (p.190).

Dossier : 1

Extrait de l’Essai sur les Assemblées provinciales, 1788

Ce premier texte date de 1788, il conclut l’Essai sur la constitution et les fonctions des assemblées provinciales (O. C. Arago, VIII, pages 471 à 483). On y perçoit encore le réformisme à l’oeuvre dans la Vie de Turgot (1786). Ces pages annoncent directement les Cinq Mémoi-res, à travers deux thèmes : l’ordre encyclopédique et élémentaire des disciplines à enseigner dans l’instruction publique et le rôle essentiel attribué aux Académies ; ces thèmes seront sans cesse repris et déve-loppés par la suite.
Il n’a encore existé chez aucun peuple une éducation publique di-gne de ce nom, c’est-à-dire, une éducation où tous les individus puis-sent se former, dans leurs premières années, des idées justes de leurs droits et de leurs devoirs ; apprendre les principales dispositions des lois de leur pays ; acquérir enfin les connaissances élémentaires né-cessaires pour la conduite de la vie commune. Une telle éducation au-rait encore, l’avantage d’offrir les moyens de reconnaître, parmi tous ces mêmes individus, ceux qui annoncent une grande facilité ou des (p. 191) talents marqués, afin de pouvoir cultiver ensuite ces talents et les diri-ger vers l’utilité publique ; donner à tous les hommes l’instruction qui leur est nécessaire ; faire en sorte qu’aucun talent préparé par la nature ne reste inutile et méconnu faute d’instruction : tel serait le double but d’une éducation vraiment publique, vraiment nationale.
Le second objet est plus important qu’on ne croit. Le nombre des enfants qui reçoivent une instruction capable de développer les forces naturelles de leur esprit, n’est pas, à beaucoup près, en France, la cin-quantième partie de la masse totale. On augmenterait donc, dans le rapport de cinquante à un, le nombre des hommes que leur génie, leurs lumières supérieures peuvent rendre utiles aux progrès des connais-sances humaines et à la félicité publique. Ce système d’éducation exige trois ordres, peut-être quatre ordres d’instruction. Il faudrait d’abord, dans chaque paroisse, un instituteur qui apprît aux individus des deux sexes.

À lire, à écrire

L’arithmétique nécessaire dans la vie commune ;
La géométrie suffisante pour toiser, pour arpenter ;
Les principes élémentaires de mécanique, qui rendent capable d’en-tendre la manière d’agir et les usages des machines simples ;
Quelques idées générales du système du monde et de physique, propres à préserver des préjugés et des terreurs de l’ignorance ;
Ce qu’il faut savoir de botanique, d’histoire naturelle, pour connaî-tre celles des productions du pays qui présentent quelque utilité, ou menacent de quelque danger ;
Des éléments de morale, qui doivent renfermer le’ précis des de-voirs et des droits, tel qu’il est utile à des hommes simples de les connaître ;
Un abrégé des dispositions de la jurisprudence locale, suffisant pour empêcher les gens du peuple d’être, pour leurs affaires personnel-
Condorcet, Cinq mémoires sur l’instruction publique (1791) 192
les, les victimes d’une ignorance absolue, ou dans la dépendance des gens d’affaires.
[…]
A mesure que les méthodes d’enseigner se perfectionneraient, que les sciences, en faisant de nouveaux progrès, acquerraient plus de gé-néralité, et dès lors plus de simplicité, ces premiers éléments pour-raient aussi avoir plus d’étendue, ou du moins renfermer plus de véri-tés. Les progrès de l’esprit humain ne seraient plus ceux de l’esprit de quelques hommes, mais ceux des nations elles-mêmes.
On propose une éducation commune aux hommes et aux femmes, parce qu’on ne voit pas de raison pour la rendre différente ; on ne voit point par quel motif l’un des deux sexes se réserverait exclusivement certaines connaissances ; on ne voit pas pourquoi celles qui sont utiles généralement à tout être sensible et capable de raisonnement, ne se-raient pas également enseignées à tous. Si les hommes se réservent tous les emplois, toutes les occupations étrangères aux soins domesti-ques, c’est une raison de plus pour que les femmes soient élevées de manière à pouvoir surveiller l’éducation de leurs enfants, et y présider. Elles rempliraient l’intervalle des soins nécessaires aux enfants trop jeunes pour être abandonnés à eux-mêmes par les études faites à la maison, sans lesquelles il leur serait très difficile de profiter des leçons publiques.
[…]
Cette instruction, telle que nous la présentons ici, est nécessaire pour rendre réelle la jouissance des droits que la législation assurerait aux citoyens ; elle l’est à la conservation de cette égalité naturelle que les institutions sociales doivent confirmer, et non détruire. Un être jouit-il de ses droits, quand il les ignore, quand il ne peut savoir si on les attaque, quand la ruse ou la fraude peut impunément lui enlever ce que la loi devait et voulait conserver ? L’égalité naturelle, qui est celle de la jouissance égale des mêmes droits, subsiste-t-elle, je ne dis pas sans des lumières égales, mais avec cette inégalité qui emporte une dépendance réelle, et qui oblige à une confiance aveugle ? Il devient donc de plus en plus indispensable de procurer au peuple de l’instruction (p. 193), parce que plus les sciences font de progrès, plus les hommes ins-truits ont de connaissances réelles, plus aussi on voit augmenter la dis-tance entre eux et les hommes qui n’ont reçu aucune instruction.
Dans les siècles d’ignorance, les prêtres, et ensuite les jurisconsul-tes avec eux, exercèrent cette puissance que donne sur les autres ci-toyens la connaissance exclusive de ce qui, dans chaque siècle, sert de base à la conduite des hommes ; et l’on sait quelle influence ce pou-voir concentré dans leurs mains a eue sur le sort des nations de l’Eu-rope, et jusqu’à quel point les institutions, qui en ont été la suite, exer-cent encore sur nous un empire qui a survécu à toutes les révolutions.
Si, à mesure que les classes supérieures s’éclaireront, les autres res-tent dans l’ignorance et la stupidité, il en résultera un partage dans chaque nation ; il y existera un peuple maître et un peuple esclave, et par conséquent une véritable aristocratie dont la sagesse des lois ne peut ni prévenir le danger, ni arrêter les funestes effets.
On sent qu’il n’est question ici que de cette infériorité qui rend un homme dépendant d’un autre, et non de la supériorité de talent, de gé-nie, ou même de science. Un maître d’école n’est pas dans la dépen-dance de Newton, ni un procureur dans celle de Montesquieu ; mais un paysan qui ne sait pas compter est dans la dépendance d’un maître d’école, et dans celle du procureur, s’il ignore les dispositions princi-pales de la coutume sous laquelle il vit.
Il en est de cette infériorité d’esprit, comme de celle du corps. Dans un pays réglé par de bonnes lois, un homme d’une grande force ne tient point dans sa dépendance son voisin, qui sera un être faible ; mais un aveugle, un estropié sera, malgré les lois, dans une dépen-dance nécessaire de ceux qui l’entourent. Or, il faut que les institutions sociales combattent, autant qu’il est possible, cette inégalité qui pro-duit la dépendance, et il ne faut pas qu’elles laissent aveugles ou es-tropiés les neuf dixièmes des habitants qui sont soumis à leur empire.
Nous avons déjà dit que la division des travaux était une source de stupidité pour le pauvre : or cette cause agissant d’autant plus que la société se perfectionne, et que les autres classes s’éclairent, il faut re-courir au seul remède efficace, celui d’établir une véritable instruction (p. 194) publique ; alors ce progrès dans les arts, qui, sans l’instruction, eût été un obstacle au perfectionnement de l’espèce, ne sera plus qu’un bien. (Voyez le Traité de la Richesse des nations, d’Adam Smith.) Nous disons qu’il eût été un obstacle au perfectionnement commun ; car il ne faut pas croire que les classes riches puissent continuer longtemps de s’éclairer, si les classes pauvres restent condamnées à une éternelle stupidité. C’est quand elles se répandent et non en se concentrant, que les lumières peuvent s’augmenter : plus elles sont resserrées dans un petit nombre d’individus, plus il est à craindre que l’erreur et la fausse science ne viennent en ternir l’éclat. Les sciences marcheraient tou-jours vers la perfection, mais à pas plus lents, et elles resteraient plus exclusivement le partage de ceux qui les approfondissent. Les lignes de communication, au lieu de se multiplier entre les savants et les au-tres hommes, deviendraient plus rares.
[…]
On nous fera peut-être deux objections. Il est à craindre, dira-t-on, qu’en instruisant le peuple, on ne le dégoûte des métiers pénibles et peu lucratifs. Mais l’effet contraire serait précisément la suite infailli-ble d’une instruction générale répandue dans le peuple. Si des connais-sances élémentaires peuvent être un moyen de subsister, c’est lors-qu’elles ne sont pas générales : ainsi on ferait précisément rentrer dans les classes laborieuses tous ceux que ces demi-connaissances, encore très rares, en ont fait sortir.
Si tout le monde savait écrire lisiblement, si on enseignait cet art par une méthode qui donnât en même temps une orthographe suppor-table, le nombre de ceux qui auraient besoin d’employer une main étrangère serait presque nul ; il y aurait beaucoup plus d’écrivains et moins d’emploi pour eux ; leur métier deviendrait beaucoup moins lucratif que celui de laboureur ; il serait réservé pour ceux qui auraient une main excellente, ou n’auraient besoin pour vivre que d’un demi-travail.
D’ailleurs, cette observation fût-elle fondée, l’employer pour refu-ser au peuple l’instruction, serait un outrage au genre humain. Quel droit auraient donc les hommes puissants ou éclairés de condamner une autre classe d’hommes à l’ignorance, afin qu’elle travaillât pour (p. 195) eux sans relâche ? Ne serait-ce pas, comme on l’a dit avec autant de justesse en d’autres occasions, ne serait-ce pas imiter ces Scythes qui crevaient les yeux à leurs esclaves ?
On peut encore objecter peut-être la dépense de ces établisse-ments ; mais d’abord il en est peu d’aussi utiles : on peut dire même qu’elles sont nécessaires, comme celles qui sont destinées à maintenir l’exécution des lois, puisque, sans une instruction publique, on ne peut remplir qu’en apparence le véritable objet des lois, le maintien des droits de tous. D’ailleurs, il existe déjà un grand nombre de fondations relatives à l’éducation, depuis les grandes universités jusqu’aux maî-tres d’école des campagnes. Ces fondations, le produit des souscrip-tions qu’on pourrait ouvrir, d’autres ressources que le temps peut ame-ner, diminueraient cette dépense, et permettraient de donner à ces ins-titutions utiles plus de perfection et d’étendue.
La nomination à toutes ces places d’instructeurs devrait appartenir aux assemblées des communautés, des districts, des provinces. C’est aux représentants des pères de famille à remplir, en leur nom, un de-voir si important pour leur bonheur. C’est aux représentants des ci-toyens à veiller sur un objet d’où doit dépendre le sort des générations futures. Laissons les déclamateurs répéter que la sagesse et la raison ne peuvent être jamais que le partage du petit nombre, et proposer de tromper le reste des hommes, de s’emparer de leur imagination, tandis que d’autres hommes, leurs égaux par la nature, seront chargés de pen-ser pour eux, et de diriger leur éternelle enfance ; mais observons les progrès qu’a faits la raison, quoique partout on ait, je ne dis pas aban-donné au hasard le soin de la former, mais entouré son berceau d’illu-sions et de dangers, et osons espérer que les erreurs générales ne sont pas un vice naturel de l’espèce humaine, mais l’effet des institutions formées dans son enfance, et que le temps approche où les hommes éclairés pourront partager avec tous leurs frères le trésor inestimable dont ils ne pourraient jouir seuls sans danger pour eux-mêmes, et sans craindre de le perdre.

Nous plaçons les académies au nombre des établissements destinés à l’instruction publique

[…] (p. 196)
L’objet principal de ces académies devrait être la recherche des faits de détails que, sur toutes les branches des connaissances humai-nes, on peut rassembler dans chaque pays. Un tel établissement serait préférable, non seulement aux académies littéraires, mais même aux sociétés d’agriculture. C’est la science, et non l’art, qui doit être l’objet d’une société savante ; il faut qu’elle cherche des faits exacts, qu’elle rassemble des expériences précises, et non qu’elle examine les détails et le succès de la pratique, toujours trop liée avec l’intérêt, toujours gênée dans ses procédés par la nécessité de joindre le profit à la connaissance de la vérité, toujours près de la tentation d’employer pour la fortune, le travail entrepris pour l’instruction. La préférence donnée aux recherches pratiques détruira les véritables lumières dans toutes les sociétés qui se laisseront séduire par cette fausse idée d’utili-té. Elles doivent, dans ce qui tient à l’art, à la pratique, se borner à re-cueillir, à constater les faits sur lesquels on puisse chercher ensuite à élever une véritable science.
Essai sur la constitution et les fonctions des Assemblées provincia-les (1788). (O.C. Arago, VIII, pages 471 à 483.)

Dossier : 2

Post-scriptum à l’Essai sur les Assemblées provinciales, 1789

Le second texte de ce dossier est le Post-scriptum à l’oeuvre de 1788, citée auparavant ; il figure dans l’édition Arago, VIII, pages 655 à 659 et fut rédigé au moment de la Révolution : Condorcet vient de vivre les événements de 1789 et tient à rappeler l’urgence à refon-der l’institution scolaire ; d’où une certaine inquiétude qui affleure encore en 1791. Les élus à l’Assemblée nationale sont-ils eux mêmes assez instruits pour prendre les meilleures décisions ? Sont-ils cons-cients de leur responsabilité, de leurs droits et de leurs devoirs de ci-toyens ? La même préoccupation traverse le texte suivant.
Lorsque cet ouvrage a été envoyé à l’impression, on avait lieu de croire que l’assemblée des états généraux n’était pas très prochaine ; et alors le moyen le plus simple de parvenir à rétablir la nation dans l’exercice de ses droits, et les citoyens dans la jouissance de ceux qu’ils ont reçus de la nature, était de chercher d’abord a perfectionner la constitution des différents ordres d’assemblées de chaque province (p. 198), pour y lier ensuite celle d’une assemblée nationale où la représentation fût égale et réelle. Tel est l’objet que j’ai traité dans la première partie de cet ouvrage.
Des événements sur lesquels il n’est pas temps encore de porter un jugement ont accéléré l’époque de l’assemblée nationale. Il eût été à désirer, sans doute, que la nation eût eu le temps de s’éclairer sur ses droits et sur ses véritables intérêts ; que les citoyens destinés à être ses représentants eussent pu, en suivant les travaux des assemblées pro-vinciales, acquérir des connaissances locales sur les détails de l’admi-nistration. Notre instruction sur la constitution des États se borne, en général, à quelques maximes plus ingénieuses que solides, plus dange-reuses qu’utiles, tirées de l’Esprit des lois, et à une admiration plus bruyante qu’éclairée pour la constitution anglaise. Comment la nation pourrait-elle avoir de véritables lumières sur des questions que la non-liberté de la presse n’a jamais permis de discuter, et sur les détails d’une administration qui cachait dans la poussière des bureaux, les motifs réels et les résultats de ses opérations ?
Une assemblée nationale, préparée par l’instruction publique n’eût inspiré que de l’espérance ; elle eût été pour la nation l’époque d’une restauration assurée, et non une crise dont l’issue soit incertaine.
Aujourd’hui, à peine reste-t-il quelques mois pour dissiper cette nuée d’erreurs que l’ignorance, les habitudes, les préjugés de plusieurs siècles ont amassées, pour détruire les sophismes sur lesquels les pas-sions et les intérêts particuliers ont appuyé les erreurs, et après ce court espace…
Quel homme accoutumé à réfléchir sur ces objets ne sera pas ef-frayé de voir, d’un côté, une foule de dispositions qui rendraient le bien impossible pour une longue suite de générations, en opposant à tout perfectionnement des obstacles plus grands que ceux dont nous gémissons, et de l’autre un si petit nombre de moyens par lesquels on puisse, sans rien sacrifier du bien aujourd’hui possible, préparer des biens plus grands pour l’avenir, et non les contrarier ? Que serait-ce s’il voyait en même temps ces opinions dangereuses, répétées par tou-tes les bouches, fermentant dans toutes les têtes, tandis que tout ce qui serait vraiment utile est ignoré ou méconnu ? Combien n’est-il pas facile (p. 199) de faire regarder comme des barrières contre l’autorité, ce qui n’est que le partage de l’autorité ; de confondre avec la liberté des pré-rogatives qui ne font que réunir entre eux et multiplier ceux à qui les abus sont utiles ; de croire donner des défenseurs au peuple, et de n’en donner qu’aux préjugés, aux prétentions et à l’orgueil ?
Osons présenter ici à nos concitoyens quelques principes qui nous paraissent suffire pour les préserver, et des erreurs de leur propre ju-gement, et de celles où une adresse étrangère pourrait les faire tomber.
Il faut d’abord s’attacher à bien connaître les droits naturels de l’homme dans toute leur étendue, ceux de la liberté, ceux de la pro-priété, ceux de l’égalité encore si méconnus chez toutes les nations qui osent se vanter d’être libres ; ne pas trop se livrer sans doute à l’espé-rance de les lui rendre à la fois dans toute leur intégrité, mais ne souf-frir, ni aucun rétablissement d’une chose antique, ni aucune nouveauté qui puisse porter à ces droits l’atteinte la plus légère.
La nature n’a fait que des hommes et des citoyens toute prérogative suppose un devoir, et ne doit être qu’un moyen de le mieux remplir, pour la plus grande utilité de ceux qui ne sont qu’hommes et citoyens. Quiconque professe ou pratique d’autres maximes, quelque masque qu’il emprunte, est un ennemi de la liberté.
Dans toute loi, il faut d’abord examiner ce qui est juste, et ensuite quel est le meilleur moyen de faire en sorte que ce qui est juste soit observé. La raison seule peut nous apprendre en quoi consiste la jus-tice, et le moyen d’y conformer l’ordre public ; mais la raison ne peut avoir une influence générale, si elle n’est parfaitement libre : elle n’a commencé que dans ce siècle à paraître parmi les hommes ; et tout ce qui porte l’empreinte du temps doit inspirer la défiance bien plus que le respect.
La vérité et la justice sont les mêmes dans tous les pays et pour tous les hommes. Ce qui est bon dans une province ne saurait être mauvais dans une autre. L’uniformité dans tous les objets de l’ordre public est un lien de plus entre les hommes : toute différence est une semence de discorde (p. 200).
Tout pouvoir a été établi pour le bien de celui qui obéit. Il est ab-surde de supposer que les hommes doivent élever sur eux un pouvoir trop étendu, pour le contre-balancer par un autre aussi trop étendu. Mais il ne faut donner à chaque pouvoir que l’étendue nécessaire pour qu’il soit utile. L’homme ne s’est pas mis en société pour être froissé entre des pouvoirs opposés, et devenir également la victime de leur réunion ou de leurs querelles, mais pour jouir en paix de tous ses droits sous la direction d’une autorité uniquement instituée pour les maintenir, et qui, ne devant jamais avoir la puissance de les violer, ne peut avoir besoin d’être contrebalancée par une autre puissance.
Dans un pays assez heureux pour avoir, comme dans un grand nombre de provinces de France, des assemblées particulières de cha-que canton, une déclaration des droits de l’homme et du citoyen, rédi-gée par des hommes éclairés, est la véritable barrière de tous les pou-voirs, la seule qui n’expose ni la tranquillité publique, ni la sûreté des individus.
Toute assemblée qui ne regarde pas la bonne foi dans les engage-ments, le respect pour les droits des particuliers comme un devoir sa-cré ; qui se croit, parce qu’elle représente la généralité des citoyens, dispensée d’observer la justice, est plus dangereuse pour la liberté, que si un pouvoir égal était réuni entre les mains d’un seul homme.
Heureuse la nation si son choix tombe sur des hommes pénétrés de ces maximes ; si elle préfère ceux qui raisonnent à ceux qui décla-ment, ceux qui ont des lumières à ceux qui ont du crédit et des riches-ses ; enfin, ceux qui ont du patriotisme à ceux qui en montrent !

Post-Scriptum au texte de 1788 (1789). (O.C. Arago, VIII, pages 655 à 659.)

Dossier : 3

Discours à l’Assemblée nationale, 12 juin 1790

Le troisième texte est un Discours à l’Assemblée nationale au nom de l’Académie des sciences, prononcé le 12 juin 1790 (O.C. Arago I, pages 508 à 511). Condorcet y précise combien la Révolution est en harmonie avec les aspirations des citoyens libres et éclairés. Mais il ne faut pas voir dans ces lignes un ralliement des savants à un régime politique ; on y voit plutôt l’appel à la liberté de penser et d’expres-sion dont l’Assemblée serait la garante. L’Assemblée dans une nation libre, cri proclamant les droits de l’homme, s’y soumet elle-même et ne cherche pas à museler les savants ; à leur tour les savants, en déve-loppant les lumières et l’instruction Publique, travaillent au bien pu-blic et au progrès de l’humanité. Le dialogue entre le milieu scientifi-que et l’Assemblée nationale produira en avril 1792 la théorie de la Société nationale des sciences et des arts qui veillera à la qualité et à l’indépendance de l’instruction publique. Les Cinq Mémoires revien-nent sur cette question à travers la polémique avec Marat qui désirait supprimer les Sociétés savantes et les Académies.

DISCOURS PRONONCÉ
À L’ASSEMBLÉE NATIONALE,
PAR M. DE CONDORCET,
AU NOM DE L’ACADÉMIE DES SCIENCES,
À la séance du 12 juin 1790.
MESSIEURS,
Vous avez daigné nous associer en quelque sorte à vos nobles tra-vaux ; et, en nous permettant de concourir au succès de vos vues bien-faisantes, vous avez montré que les sages représentants d’une nation éclairée ne pouvaient méconnaître ni le prix des sciences, ni l’utilité des compagnies occupées d’en accélérer le progrès et d’en multiplier l’application.
Depuis son institution, l’Académie a toujours saisi et même recher-ché les occasions d’employer pour le bien des hommes, les connais-sances acquises par la méditation, ou par l’étude de la nature : c’est dans son sein qu’un étranger illustre 2, à qui une théorie profonde avait révélé le moyen d’obtenir une unité de longueur naturelle et invaria-ble, forma le premier le plan d’y rapporter toutes les mesures pour les rendre par là uniformes et inaltérables. L’Académie s’est toujours plus honorée dans ses annales d’un préjugé détruit, d’un établissement pu-blic perfectionné, d’un procédé économique ou salutaire introduit dans les arts, que d’une découverte difficile ou brillante ; et son zèle, encou-ragé par votre confiance, va doubler d’activité et de force. Et comment pourrions-nous oublier jamais que les premiers honneurs publics, dé-cernés par vous, l’ont été à la mémoire d’un de nos confrères ? Ne nous est-il pas permis de croire que les sciences ont eu aussi quelque part à ces marques glorieuses de votre estime pour un sage qui, célè-bre dans les deux mondes par de grandes découvertes, n’a jamais chéri dans l’éclat de sa renommée que le moyen qu’elle lui donnait d’appeler ses concitoyens à l’indépendance d’une voix plus imposante, et de ral-
lier en Europe, à une si noble cause, tout ce que son génie lui avait mérité de disciples et d’admirateurs ?
Chacun de nous, comme homme, comme citoyen, vous doit une éternelle reconnaissance pour le bienfait d’une constitution égale et libre, bienfait dont aucune grande nation de l’Europe n’avait encore joui ; et pour celui de cette déclaration des droits, qui, enchaînant les législateurs eux-mêmes par les principes de la justice universelle, rend l’homme indépendant de l’homme, et ne soumet sa volonté qu’à l’em-pire de sa raison.
Mais des citoyens voués par état à la recherche de la vérité, ins-truits par l’expérience, et de tout ce que peuvent les lumières pour la félicité générale, et de tout ce que les préjugés y opposent d’obstacles, en égarant ou en dégradant les esprits, doivent porter plus loin leurs regards, et, sans doute, ont le droit de vous remercier au nom de l’hu-manité, comme au nom de la patrie.
Ils sentent combien, en ordonnant que les hommes ne seraient plus rien par des qualités étrangères, et tout par leurs qualités personnelles, vous avez assuré les progrès de l’espèce humaine, puisque vous avez forcé l’ambition et la vanité même à ne plus attendre les distinctions ou le pouvoir que du talent ou des lumières ; puisque le soin de forti-fier sa raison, de cultiver son esprit, d’étendre ses connaissances, est devenu le seul moyen d’obtenir une considération indépendante et une supériorité réelle.
Ils savent que vous n’avez pas moins fait pour le bonheur des géné-rations futures, en rétablissant l’esprit humain dans son indépendance naturelle, que pour celui de la génération présente, en mettant les pro-priétés et la vie des hommes à l’abri des attentats du despotisme.
Ils voient, dans les commissions dont vous les avez chargés, avec quelle profondeur de vues vous avez voulu simplifier toutes les opéra-tions nécessaires dans les conventions, dans les échanges, dans les actions de la vie commune, de peur que l’ignorance ne rendît esclave celui que vous avez déclaré libre, et ne réduisît l’égalité prononcée par vos lois à n’être jamais qu’un vain nom.
Pourraient-ils enfin ne pas apercevoir qu’en établissant, pour la première fois, le système entier de la société sur les bases immuables de la vérité et de la justice, en attachant ainsi par une chaîne éternelle les progrès de l’art social au progrès de la raison, vous avez étendu vos bienfaits à tous les pays, à tous les siècles, et dévoué toutes les erreurs, comme toutes les tyrannies, à une destruction rapide ?
Ainsi, grâce à la générosité, à la pureté de vos principes, la force, l’avarice, ou la séduction, cesseront bientôt de contrarier, par des insti-tutions arbitraires, la loi de la nature, qui a voulu que l’homme fût éclairé pour qu’il pût être juste, et libre pour qu’il pût être heureux.
Ainsi, vous jouirez à la fois et du bien que vous faites, et du bien que vous préparez, et vous achèverez votre ouvrage au milieu des bé-nédictions de la foule des opprimés dont vous avez brisé les fers, et des acclamations des hommes éclairés dont vous avez surpassé les espérances.

Discours à l’Assemblée nationale au nom de l’Académie des sciences, 12 juin 1790. (O.C. Arago, 1, pages 508 à 511.)

Ce quatrième extrait est la Présentation générale de la Bibliothè-que de l’Homme public, inédite depuis 1790 et probablement de la main de Condorcet. Elle figure dans le tome I, Paris, chez Buisson, 1790, pages III à VIII. L’auteur y précise les intentions de la collec-tion où prennent place les Cinq Mémoires : il faut développer les lec-tures politiques et philosophiques de tous les citoyens pour les rendre capables de justifier leurs propres décisions et leurs votes dans les Assemblées et de sortir d’un point de vue trop local et partisan ; en effet l’enthousiasme précipité sans instruction générale et politique peut égarer les esprits. Ce thème est constant dans les Cinq Mémoi-res : il s’agit d’éclairer les hommes pour en faire des citoyens.
De tous les arts, le plus difficile est celui de gouverner les hom-mes : quelle foule de connaissances n’exige-t-il pas ! Avoir longtemps réfléchi sur soi-même et étudié tous les replis du coeur humain, ne suf-fit pas pour être un grand politique : il faut encore observer les hommes (p. 206) dans les grandes sociétés, connaître le sol qu’ils habitent, ses pro-ductions naturelles et celles que leur industrie peut en obtenir ; savoir distinguer quelles sont les lois qui leur conviennent, posséder enfin l’art de les rendre heureux en formant un accord de leurs divers inté-rêts. Solon, Lycurgue, Platon, Aristote, Cicéron, Hobbes, Machiavel, Bacon, Grotius, Pufendorf, Locke, Boccalin, Morus, Bodin, Hume, Gordon, Montesquieu, Rousseau, Mably, et tant d’autres génies supé-rieurs, se sont occupés avec gloire d’un objet aussi important ; et, de nos jours l’Assemblée nationale ne nous montre-t-elle pas combien les divers objets de l’économie politique sont familiers à ceux que la France a choisis pour réformer nos lois et en établir de nouvelles ? Cette étude va devenir celle de tous les bons esprits. Le patriotisme que les assemblées provinciales et nationales vont exciter dans tous les coeurs en feront une espèce de besoin. On commence déjà à revenir sur le compte des sciences abstraites qui n’ont pas pour objet le bon-heur de la société ; et c’est désormais à ce but principal qu’on va diri-ger les institutions publiques.
On ne s’étendra pas sur le genre d’utilité dont peut être l’ouvrage que l’on donne au public. D’après la nouvelle constitution, il n’est per-sonne qui ne puisse être appelé à discuter et à défendre les intérêts de son canton, de sa province, et même de tout le royaume : l’artisan que la nature a doué d’un génie supérieur, peut désormais être porté, par le voeu général, aux premières places du gouvernement, et donner des lois à sa patrie. Mais le génie ne supplée point les connaissances qu’on n’a pas ; et, il faut l’avouer, ces connaissances si nécessaires doivent être bien rares chez un peuple qui naît, pour ainsi dire, à la liberté.
C’est l’ignorance de ses droits qui a retenu si longtemps l’homme dans les fers ; les lumières que la philosophie a répandues jusque dans les dernières classes, ont pu seules lui rendre son ancienne dignité ; et le défaut d’instruction sur ses intérêts politiques peut le replonger une seconde fois dans l’esclavage. L’ouvrage que l’on propose à toutes les classes de citoyens préviendra ce malheur, nous osons le croire : nous y mettrons, autant qu’il sera possible, la science du gouvernement et de l’administration à la portée de tout le monde.
La vivacité naturelle à l’esprit français, l’économie du temps, l’en-nui qu’entraîne un long ouvrage sur des matières aussi sérieuses, le (p. 207) caractère national, tout concourt à nous faire adopter la méthode ana-lytique. Personne n’ignore qu’une analyse bien faite peut remplacer avantageusement un ouvrage volumineux : d’ailleurs il en est de la politique à peu près comme des modes, ses principes généraux sont toujours les mêmes ; mais les circonstances auxquelles on les appli-que, en varient les conséquences. Qui voudrait adopter la politique d’Aristote dans toute son étendue, serait, sans contredit, un mauvais politique ; cependant il y a dans ses ouvrages une infinité d’idées et de bons principes qu’on ne saurait méditer trop souvent, et qui, recueillis dans une analyse succincte, peuvent être goûtés de nos sages moder-nes. Il ne sera pas inutile d’ailleurs de mettre les lecteurs à portée de suivre la marche de l’esprit humain dans une carrière aussi brillante, de comparer nos progrès avec ceux des anciens, de connaître toutes les richesses qu’ils nous ont laissées et celles que nous avons ajoutées à un trésor aussi précieux.
Pour remplir ce but utile, et répandre dans cet ouvrage toute la va-riété dont il est susceptible, l’on fera succéder, autant qu’il se pourra, un auteur moderne à un ancien : un tableau raccourci de la situation politique du pays où ils écrivaient, précédera toujours l’analyse de leurs ouvrages ; car on ne peut, sans cela, bien juger de leur mérite.
On aura soin de recueillir les discussions intéressantes et tous les résultats des assemblées provinciales, ainsi que les arrêtés de chaque législature ; et l’ouvrage sera, à cet égard, un journal complet d’éco-nomie politique.
On fera connaître aussi tous les ouvrages relatifs à ce plan, à me-sure qu’ils paraîtront : on se permettra même des réflexions critiques, sans toutefois blesser l’amour-propre des auteurs : la malignité aigrit, et n’éclaire pas mieux qu’elle ne corrige.

Présentation générale de la Bibliothèque de l’Homme Public ; tome I, chez Buisson, 1790, pages III à VIII.


Dossier : 5

Sur la nécessité de l’instruction publique, janvier 1793

Ce texte, Sur la nécessité de l’instruction publique, est le dernier écrit de Condorcet consacré exclusivement à cette question ; il date de janvier 1793. On y retrouve l’urgence à instaurer l’instruction pu-blique pour donner une réalité de fait à l’égalité juridique et politique proclamée par la Révolution. Ce texte fut rédigé pour le journal la Chronique du mois ou Les Cahiers patriotiques (voir O.C. Arago, VII, pages 439 à 448). Deux thèmes y sont rappelés : la République doit veiller à l’indépendance de l’instruction publique face à tout pouvoir même politique, et, répondant aux attaques de Marat, il souligne, comme les Cinq Mémoires, le rôle des savants dans la détermination des savoirs élémentaires à enseigner. Si ces deux conditions ne sont pas respectées, l’instruction publique perd sa liberté et l’égalité des citoyens est un vain mot (p. 209).
Au commencement du quinzième siècle, l’Europe entière, plongée dans l’ignorance, gémissait sous le joug de l’aristocratie nobiliaire et de la tyrannie sacerdotale : et, depuis cette époque, les progrès vers la liberté ont, dans chaque nation, suivi ceux des lumières avec cette constance qui annonce, entre deux faits, une liaison nécessaire fondée sur les lois éternelles de la nature.
Ainsi, par une suite de ces mêmes lois, on ne pourrait ramener l’ignorance sans rappeler la servitude avec elle.
Un peuple éclairé confie ses intérêts à des hommes instruits, mais un peuple ignorant devient nécessairement la dupe des fourbes qui, soit qu’ils le flattent, soit qu’ils l’oppriment, le rendent l’instrument de leurs projets, et la victime de leurs intérêts personnels.
Quand bien même la liberté serait respectée en apparence et conservée dans le livre de la loi, la prospérité publique n’exige-t-elle pas que le peuple soit en état de connaître ceux qui sont capables de la maintenir, et l’homme qui, dans les actions de la vie commune, tombe, par le défaut de lumières, dans la dépendance d’un autre homme, peut-il se dire véritablement libre ?
Ne se forme-t-il pas nécessairement alors deux classes de ci-toyens ? Et qui pourrait soutenir qu’il existe entre elles l’égalité com-mandée par la nature, sous prétexte que ce n’est pas la force, mais la ruse qui exerce l’empire ? Croit-on que la liberté pût longtemps sub-sister, même dans les lois ? Combien n’est-il pas aisé de l’anéantir par des institutions qui auraient l’air de la conserver ? Combien n’y a-t-il pas d’exemples de peuples qui se sont crus libres, lors même qu’ils gémissaient sous l’esclavage ? Oui sans doute, la liberté ne peut périr ; mais c’est uniquement parce que les progrès des lumières en assurent l’éternelle durée, et l’histoire entière atteste avec combien peu de suc-cès les institutions, en apparence les mieux combinées, ont protégé celle des peuples que leurs lumières ne défendaient pas contre l’hypo-crisie des tyrans, qui savent prendre le masque de la popularité, ou celui de la justice. Dire que le peuple en sait assez, s’il sait vouloir être libre, c’est avouer qu’on veut le tromper pour s’en rendre maître. C’est le dégrader sous la vaine apparence d’un respect perfide (p. 210).
Le maintien de la liberté et de l’égalité exige donc un certain rap-port entre l’instruction des citoyens qui en peuvent recevoir le moins, et les lumières des hommes les plus éclairés, dans le même pays, et à la même époque. Il exige également une certaine proportion entre les connaissances des hommes et leurs besoins.
Il faut donc que l’instruction du peuple puisse suivre les progrès des arts, et ceux des lumières générales ; et comme la grande pluralité des individus de l’espèce humaine ne peut donner à son instruction qu’un petit nombre d’années, et une attention relativement beaucoup plus faible que celle dont les hommes supérieurs sont capables, il faut encore que les méthodes d’enseigner se perfectionnent, de manière que le même temps et la même attention suffisent pour acquérir des connaissances plus étendues, à mesure qu’elles deviennent nécessai-res.
Ainsi les soins que la puissance publique doit prendre de l’instruc-tion du peuple ne peuvent se séparer de ceux qu’elle doit donner à une instruction plus étendue ; autrement il arriverait bientôt que le talent se tournerait tout entier vers l’art de gouverner les hommes et de les tromper, et que les ambitieux, débarrassés de la censure incommode des hommes éclairés, trouveraient bientôt moyen d’éluder les faibles barrières que leur imposerait l’instruction commune, ou parviendraient à la corrompre. Les préjugés qui, dans presque tous les pays, sont la seule instruction de la portion la plus nombreuse, ne sont pas l’ouvrage de la nature, mais celui de l’ambition qui, trompant l’ignorante simpli-cité des pères, s’empare du droit de livrer à l’abrutissement et à l’erreur les générations naissantes.
Une égalité entière entre les esprits est une chimère ; mais si l’ins-truction publique est générale, étendue, si elle embrasse l’universalité des connaissances, alors cette inégalité est toute en faveur de l’espèce humaine qui profite des travaux des hommes de génie. Si au contraire cette instruction est nulle, faible, mal dirigée, alors l’inégalité n’existe plus qu’en faveur des charlatans de tous les genres, qui cherchent à tromper les hommes sur tous leurs intérêts (p. 211)
Voilà pourquoi on avait voulu rendre l’instruction publique indé-pendante de tout autre pouvoir que celui de l’opinion, et ne la soumet-tre qu’à l’autorité de la renommée. On avait senti que la puissance quelconque à laquelle elle serait subordonnée chercherait à la faire servir à des desseins étrangers à son véritable objet, la distribution plus égale, et le progrès des lumières.
On a dit qu’il suffisait d’établir, aux dépens de la nation, des écoles primaires ; sans doute on consentirait encore que des écoles soient ou-vertes pour la marine, pour l’artillerie, pour l’art militaire ; car on ne voudrait pas que les enfants des riches pussent seuls y occuper les pla-ces. Sans doute on n’ignore pas que cette instruction est le seul moyen de pouvoir se passer d’une grande armée en temps de paix, toujours si dangereuse pour la liberté. Ne faudrait-il pas aussi quelque instruc-tion, pour répandre dans les campagnes des artistes vétérinaires, des sages-femmes plus instruites, des chirurgiens moins ignorants ? Ne sont-ils pas nécessaires, quand ce ne serait que pour éloigner des char-latans plus dangereux ? Mais pour avoir des maîtres qui enseignent dans ces divers établissements, il faut une instruction où ces maîtres se puissent former. Oserez-vous la livrer au hasard ? Y trouverez-vous de l’économie ? Non ; car si vous ne payez pas ces professeurs qui formeront ces maîtres d’écoles primaires, ces instituteurs dans diffé-rents genres, vous serez obligés de les payer eux-mêmes plus chère-ment.
Il y a plus : s’ils ont été instruits dans une institution publique, si l’on connaît ce qui leur a été enseigné, ce qu’ils ont dû apprendre, il devient plus facile de les juger ; si l’on ne sait ce qui leur a été ensei-gné, il faut examiner non seulement leur capacité, mais leur doctrine.
On craint les corporations savantes. Mais si on observe avec atten-tion les reproches qu’on a pu faire à celles qui ont existé, on voit que les faits sur lesquels ces reproches sont fondés ont pour cause, soit une intolérance religieuse ou politique qui n’existe plus, soit une sorte de privilège exclusif maladroitement attaché à ces corporations, soit en-fin les anciens vices de ces institutions, que tous les bons esprits ont senti et qu’il est facile d’éviter (p. 212).
Pour juger ces corporations d’après l’expérience, il ne faut d’abord considérer que celles qui ont eu pour objet la culture des sciences ma-thématiques et physiques, considérées comme objet de spéculation, parce que ce sont les seules qui ont joui jusqu’ici de quelque indépen-dance, et si on parcourt les recueils publiés par ces corporations, on verra combien, en attachant aux sciences quelques hommes à qui la médiocrité de leur fortune n’aurait pas permis de s’y livrer tout entiers, combien, en facilitant aux autres la publication prompte de leurs tra-vaux, ces corporations ont servi aux progrès des lumières.
À peine, depuis cent trente ans qu’elles existent, citerait-on une seule découverte qui n’ait pas été faite par un homme attaché à ces mêmes corporations, ou adoptée par elles ; et cependant jamais, dans aucune époque de l’histoire, les sciences n’ont été cultivées, et plus généralement, et avec plus de succès.
Ces corporations n’ont point formé les hommes de génie dont le nom honore leur liste ; mais elles leur ont donné le moyen de déve-lopper leurs talents, de se faire connaître, d’acquérir cette première réputation qui leur a permis depuis de se livrer à de plus grands tra-vaux.
Avant l’invention de l’imprimerie, l’instruction était très chère, et, chez les peuples anciens, ce fut une des causes qui contribuèrent le plus à conserver l’esprit aristocratique de leurs gouvernements. Heu-reusement chez les nations modernes, ce même esprit dominateur du clergé, qui a fait tant de maux, ne pouvant s’exercer qu’en multipliant les instruments, a été forcé de multiplier aussi les écoles, et de les ou-vrir par des fondations nombreuses à la classe pauvre du peuple, et dès lors, malgré toutes les précautions prises pour détruire la raison sous un fatras de fausse science, on vit des hommes supérieurs à leur siècle soutenir les droits de la vérité, et en réclamant pour l’Église l’égalité démocratique, préparer les esprits à en reconnaître l’éternelle justice dans toute son étendue.
L’imprimerie a rendu l’instruction plus facile en la rendant moins chère, mais elle n’a facilité que l’instruction par les livres, et celle que l’on doit recevoir par l’observation et l’expérience, celle qui exige des (p. 213) instruments, des machines, des expériences, est encore restée, et reste-ra au-dessus des facultés de la très grande pluralité.
Plus vous voulez que les hommes exercent eux-mêmes une portion plus étendue de leurs droits, plus vous voulez, pour éloigner tout em-pire du petit nombre, qu’une masse plus grande de citoyens puisse remplir un plus grand nombre de fonctions, plus aussi vous devez chercher à étendre l’instruction : et puisque toutes nos lois doivent tendre à diminuer l’inégalité des fortunes, il ne faut plus Compter, pour les dépenses nécessaires aux progrès des lumières, sur les riches-ses individuelles. On a trouvé que, dans le plan présenté à l’Assemblée législative, on accordait trop de pouvoir à une société savante ; mais alors le pouvoir exécutif général était entre les mains d’hommes choi-sis par le roi ; mais alors il devait arriver que le ministère chercherait à s’unir avec les administrations départementaires, pour se donner une force capable de balancer le pouvoir législatif. Il était donc important, nécessaire, d’ôter au gouvernement non seulement toute action directe sur l’instruction, mais même de ne lui laisser aucune influence indi-recte. L’abolition de la royauté peut donc permettre de faire à cette partie du plan des changements utiles, mais il n’en faut pas moins concilier ces deux principes, que le gouvernement n’ait jamais aucune influence sur les choses qui sont enseignées, et qu’une société savante ne soit distraite que le moins possible de son véritable objet, la propa-gation, le perfectionnement, les progrès des connaissances utiles aux hommes.
Si les citoyens peu riches ont besoin d’un maître d’école pour écrire leurs lettres, faire leurs comptes, juger de l’exactitude de leur imposi-tion ; s’ils ont besoin d’un arpenteur pour connaître l’étendue de leur terre ; si pour défendre une cause très simple, il leur faut un homme de loi, dès lors non seulement cette classe nombreuse et respectable est éloignée des fonctions publiques, mais même le droit d’élire s’anéantit pour elle ; car ces mêmes hommes à qui on est obligé de recourir sans cesse dans ses affaires personnelles acquerront sur les volontés une autorité dangereuse. Si les citoyens, lorsqu’on cite un fait, lorsqu’on leur allègue une loi, un exemple, lorsque ce fait, cette loi, cet exemple sont ensuite contestés, ne savent pas comment ils pourraient les véri-fier par eux-mêmes, ne les réduisez-vous point à n’avoir ni une opinion  (p. 214), ni une volonté propre ; et dès lors cet exercice de leurs droits est-il réel, est-il celui que vous devez leur assurer ?
Les représentants du peuple croiront-ils avoir rempli leurs devoirs envers lui, en lui laissant l’exercice le plus étendu de ses droits. Ne pourrait-il pas leur dire : Qu’avez-vous donc fait pour moi ? Lorsque je vous ai choisis, ce n’était pas pour que vos décrets m’assurassent des droits que j’avais avant eux et avant vous, mais c’était pour recevoir de vous les moyens d’exercer ces mêmes droits d’une manière utile à ma liberté et à mon bonheur. C’était donc pour que je pusse les exercer, et avec ordre, et avec lumières. J’ai été trop longtemps la victime des fautes de ceux qui avaient usurpé le droit de vouloir en mon nom, faut-il que je le devienne maintenant de mes propres erreurs ; et n’est-ce point précisément pour n’être pas réduit à n’avoir à choisir qu’entre ces deux extrémités que je vous ai appelés ?
Souvent des citoyens égarés par de vils scélérats s’élèvent contre les lois ; alors la justice, l’humanité nous crient d’employer les seules armes de la raison pour les rappeler à leurs devoirs ; et pourquoi donc ne pas vouloir qu’une instruction bien dirigée les rende d’avance plus difficiles à séduire, plus disposés à céder à la voix de la vérité ?
Deux classes ont presque partout exercé sur le peuple un empire dont l’instruction seule peut le préserver : ce sont les gens de loi et les prêtres ; les uns s’emparent de sa conscience, les autres de ses affaires. En vain dira-t-on que les lois peuvent être assez simples pour que l’instruction lui soit inutile ; mais les lois primitives de tous les peu-ples étaient simples, étaient écrites dans un idiome que tout le monde entendait, et cependant c’est de ces lois simples qu’avec du temps et des subtilités les légistes sont parvenus à former des codes compli-qués, obscurs, écrits dans un style inintelligible pour tout autre que pour eux. L’instruction n’est pas moins nécessaire pour garantir la conscience des pièges du sacerdoce. La morale primitive de toutes les religions a aussi été très simple, assez conforme à la morale naturelle ; mais aussi dans toutes les religions les prêtres en ont fait l’instrument de leur ambition. Ce serait donc trahir le peuple que de ne pas lui donner, dans une instruction morale indépendante de toute religion particulière, un sûr préservatif contre ce danger qui menace sa liberté et son bonheur.
Les plaintes du peuple sur les subsistances se sont élevées avec force, et nous avons d’immenses terrains occupés par des marais, et le défaut d’une navigation intérieure plus étendue et formée sur un sys-tème général rend les secours du commerce lents, dispendieux, quel-quefois insuffisants, et une énorme quantité de chevaux, que la cons-truction de ces canaux rendrait inutiles, emploient les terrains qui fourniraient aux hommes une nourriture plus abondante et plus variée. Le bas prix des salaires annonce que l’occupation manque aux hom-mes laborieux, et c’est lorsque tout prouve la nécessité d’employer les lumières, de perfectionner les arts, d’ouvrir à l’industrie des routes nouvelles, de donner à l’activité des talents utiles une énergie nou-velle, que l’on choisirait ce moment pour appeler l’ignorance et, avec elle, la misère, la dépopulation, l’anarchie et la servitude.

Sur la nécessité de l’instruction publique (janvier 1793) (O.C. Ara-go, VII, pages 439 à 448.)

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