Elena Giorza, Il problema dell’identità

by gabriella

La riflessione dell’autrice sul tema dell’identità, prende le mosse da due fondamentali contributi: Contro il fanatismo [Feltrinelli, Milano 2010] di Amos Oz e Intervista sull’identità [Editori Laterza, Roma-Bari 2003] di Zygmunt Bauman.

Obiettivo di Elena Giorza è cercare di fornire un quadro delle principali posizioni attualmente diffuse sull’identità personale e mostrarne i limiti in relazione alla fondamentali sfide storiche, politiche e culturali della contemporaneità.

Le concezioni esaminate sono:
1. la concezione degli individui come isole separate e autonome e in uno stato neutrale rispetto alle persone
2. la prospettiva che fonda l’appartenenza su un’identità comunitaria forte e omogenea
3. la concezione che rifiuta la costruzione di identità personali forti in quanto ostacolo alla tolleranza e anche alla libertà individuale vista come avere tutto e subito.

Seguendo Bauman, l’autrice sostiene la tesi che di fronte agli attuali problemi rappresentati da multiculturalismo, globalizzazione, inclusione digitale, l’identità debole sia una soluzione inefficace e pericolosa, perché produce intolleranza, esclusione, fondamentalismo, conflitto. Assumendo come meta ideale la comunità universale kantiana, inclusiva dell’intero genere umano, la sola soluzione sembra essere quella di una “identità forte”, capace di non “dissolversi” nella società liquida e di non sentirsi minacciata dall’altro.

Elena Giorza illustra la sua idea di “identità forte” attraverso l’immagine dell’individuo penisola proposta da Amos Oz. Le persone non sono isole incomunicanti l’una contro l’altra armate, ma nemmeno particelle di una terraferma che riduce all’uniformità tutti gli individui. Gli individui con una personalità solida, sono penisole quando fondano la loro identità sull’appartenenza a una comunità, ma mantengono una propria identità peculiare, non riducibile a quella comunitaria, che è dotata di coerenza, continuità e distinzione.
Avranno quindi la possibilità di relazionarsi con l’altro evitando sia il conflitto che la tolleranza e evitando anche l’identità liquida delle “comunità guardaroba” e il fondamentalismo. Tratto da Micromega.

 

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te»John Donne

«La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri»2.
Charles Taylor

L’identità personale degli individui resta una delle questioni più dibattute e urgenti del nostro tempo. Sembra utile, innanzitutto, chiarire alcune delle posizioni diffusamente assunte al riguardo, che risulterebbero però insoddisfacenti in rapporto alle sfide poste dalla contemporaneità.

Un fotogramma ripreso dalle telecamere di sicurezza della Columbine High School durante il massacro

La prima posizione è quella di chi ritiene che la ricerca e la costruzione dell’identità personale siano compiti esclusivamente individuali da relegare alla sfera privata e familiare: lo Stato in questo caso dovrebbe essere totalmente neutrale, indifferente e non giudicante nei confronti delle diverse scelte identitarie dei singoli cittadini, visti come delle “isole” completamente separate dalla terraferma – ovvero dallo Stato che pretende da essi soltanto la lealtà alle sue leggi fondamentali. Questo, come ricorda Zygmunt Bauman3, è il modello fatto proprio dagli Stati Uniti e ha dimostrato tutti i suoi limiti. Infatti gli individui, incapaci di gestire l’ansia provocata dalla responsabilità di dover provvedere da soli a determinare la propria essenza per poi sottoporla al giudizio della comunità, tenderebbero a individuare nemici pubblici comuni sui quali sfogarsi.

Comunitarismo totalizzante

La seconda convinzione è quella che sacrifica le identità particolari – in primis di gruppi numericamente minoritari – mentre premia l’omogeneo e l’uniforme in nome della conformità nazionale; o piuttosto comunitaria. Tale prospettiva, oltre a implicare l’evidente perdita della ricchezza data dalla tutela delle diversità, propone un modello di riconoscimento troppo vago e debole, in cui gli individui – non più “isole”, come nel caso statunitense, ma, al contrario, ormai indistinguibili dalla terraferma – non riescono a riconoscersi realmente. L’idea che sia possibile inserire artificiosamente e forzosamente all’interno di una medesima struttura identitaria persone o gruppi di persone senza tenere conto della diversa dimensione storica, culturale, sociale e politica in cui si collocano, può comportare esiti drammatici. Lungi dal creare un clima di maggiore tolleranza reciproca, la ricerca di uniformità rischierà di minacciare ogni forma di convivenza pacifica: gli individui, infatti, inseguiranno soluzioni capaci di fornire loro identità, almeno apparentemente, più forti e sicure.

Zygmunt Bauman (1925 – 2017)

La terza prospettiva da cui si intende prendere le distanze è quella che giudica negativamente la costruzione di identità personali solide. L’idea che impegnarsi per tutta la vita, o per un periodo di tempo prolungato, nei confronti di un’unica identità – che fondi la propria consapevolezza di essere in permanenza sempre lo stesso individuo distinto dagli altri (rispetto ai quali sussiste una reciproca esigenza di riconoscimento, di hegeliana memoria) – sembra rischioso e sconveniente. Come afferma Bauman, noi, in quanto abitanti di una “modernità liquida”, non solo non ci preoccupiamo di costituire identità individuali coerenti e coesive, ma ci mostriamo convinti del fatto che identità siffatte si rivelino controproducenti e siano destinate all’insuccesso:

«Un’identità coesiva, saldamente inchiodata e solidamente costruita, sarebbe un fardello, un vincolo, una limitazione alla libertà di scegliere. Presagirebbe l’impossibilità di aprire la porta quando un’altra opportunità busserà. Per farla breve, sarebbe una ricetta per l’inflessibilità, per una condizione, cioè, che è continuamente biasimata, ridicolizzata o condannata da quasi tutte le vere o presunte autorità dei nostri giorni (mezzi di comunicazione, esperti di problemi umani e leader politici)»4.

I “progetti di vita”, che Sartre consigliava di adottare in quanto legati a un criterio di continuità, vengono rifiutati; infatti, si ritiene che ci rendano meno liberi, laddove la libertà è intesa come possibilità di avere tutto e subito, non come capacità di scegliere tra opportunità diverse. Bauman, ribadendo l’analogia tra il rifiuto di un’identità unica e l’incapacità di impegnarsi in relazioni d’amore alla pari, potenzialmente a lungo termine, richiama la storia di Peer Gynt – protagonista dell’opera teatrale del 1867 di Henrik Ibsen. Peer è ossessionato dal desiderio di trovare la sua “vera identità”, ma al tempo stesso paventa la perdita di libertà derivante dall’assunzione di un’identità coesiva. Dopo aver vagato per il mondo in cerca del suo vero io, ritorna a casa, dove a porre termine a questa ricerca è Solvejg, l’amore della sua giovinezza rimastagli sempre fedele (e quindi simbolo di chi assume un’identità solida): Solvejg, alla domanda circa dove si trovasse il vero io di Peer risponde

«Nella mia fede, nella mia speranza e nel mio amore»5.

Appare evidente come la contemporaneità, con le sue sfide legate alla globalizzazione e al multiculturalismo, richieda un impegno, non solo da parte dei singoli cittadini, ma anche dei loro Stati, rispetto alla questione dell’identità. Posto che il progetto kantiano di una universale unificazione dell’umanità – e quindi della costituzione di un’unica identità completamente inclusiva e priva di ogni volontà di tipo discriminatorio – risulta ambizioso e a lungo termine; sembra necessario trovare una soluzione, certamente più modesta, ma attuabile. L’obiettivo potrebbe essere quello di assumere l’impegno di formare identità individuali solide. Queste identità, lungi dall’essere inflessibili e chiuse in loro stesse, sarebbero le sole capaci di confrontarsi in termini non competitivi (ma alternativi) con identità altre, senza sentirsene minacciate. Una struttura della personalità forte, che tenga conto dell’ambiguità insita nello stesso concetto di identità – in cui l’esigenza della sicurezza resa possibile dall’appartenenza a un gruppo si scontra con la volontà di conservare la propria libertà – si rivelerebbe la più adatta a rispondere adeguatamente alla natura “liquida” della modernità e a costituire una “finestra sul mondo”. Non solo, si può sostenere che la costituzione di individui resi sicuri di sé dalla consapevolezza di essere complessivamente sempre gli stessi nel tempo e distinti dagli altri, possa permettere di superare l’idea che il confronto ideale tra profili personali diversi sia quello fondato sulla tolleranza. In un mondo caratterizzato dalla convivenza (spesso non pacifica e talvolta forzata, ma in ogni caso inevitabile) tra culture diverse, la tolleranza non costituisce più una risposta sufficiente. Essa indica sempre un rapporto di disuguaglianza (coloro che sono tollerati occupano una posizione di inferiorità), di tipo paternalistico (chi tollera esercita un potere su chi è tollerato che, d’altra parte, ammette di essere in una condizione di debolezza). È necessario, quindi, andare oltre la tolleranza e un modo per farlo sarebbe quello di impegnarsi nel favorire la formazione di identità personali solide.

Prima di specificare cosa si intenda con “identità solide”, è opportuno chiarire cosa siano le identità deboli; e perché esse possano determinare conseguenza negative.

Secondo Bauman in un mondo evasivo, volatile e imprevedibile, sempre più simile a un’opera di Escher – dove diventa impossibile determinare una volta per tutte i riferimenti spazio-temporali – gli individui non possono che far propria la strategia del carpe diem, del qui e ora, della volubilità propria del Don Giovanni. È interessante tener presente che Kierkegaard, parlando del Don Giovanni di Mozart, in quanto modello esemplare dello stadio estetico (distinto da quello etico e da quello religioso), si preoccupi di sottolineare come una vita dedita esclusivamente al piacere continuamente rinnovato e priva di scelte (non si sceglie ma si prende tutto e subito) sia destinata a cadere nella noia, nella indifferenza e, infine, a portare alla disperazione (che subentra con la consapevolezza del vuoto della propria esistenza). L’esteta, avendo scelto di non scegliere e non essendosi quindi impegnato in alcun programma di vita, rinuncia a costruirsi un’identità coesiva.

A parere di Bauman, gli abitanti della modernità liquida sono per la maggior parte dei Don Giovanni: i loro profili sono provvisori, incompleti, fragili, precari. Si tratta di identità-puzzle, anche se la loro costituzione è allo stesso tempo simile e diversa – e assai più complessa – rispetto al gioco di pazienza: essa «può essere paragonata solamente a un puzzle difettoso, in cui mancano alcuni pezzi (e non si può mai sapere esattamente quanti). Un puzzle comprato in un negozio è tutto contenuto in una scatola, ha l’immagine finale già chiaramente stampata sul coperchio e la garanzia, con promessa di rimborso in caso contrario, che tutti i pezzi necessari per riprodurre quell’immagine si trovano all’interno della scatola e che con questi pezzi si può formare quell’immagine e quella soltanto: ciò permette di consultare l’immagine riprodotta sul coperchio dopo ogni mossa per assicurarsi di essere effettivamente sulla strada giusta (l’unica strada corretta) verso la destinazione già nota, e quanto lavoro rimane da fare per raggiungerla»6.

Va detto che le identità volatili, nella loro esigenza di riconfigurazione costante, non solo trovano uno strumento utile e comodo in Internet (si pensi alle chat-line), ma rispondono perfettamente alla logica consumistica, usa e getta, della soddisfazione immediata.

Il desiderio di costruirsi un’identità – che, evidenzia Bauman, in quanto problema e compito lasciato ai singoli individui, è recente, non “naturale”, ma nato come finzione in seguito all’indebolimento delle comunità locali e alla rivoluzione dei trasporti – ha origine dal bisogno di sicurezza e dall’angoscia generata dalla paura della solitudine e dell’abbandono. Oggi, nei paesi sviluppati dal punto di vista economico e tecnologico, si assiste a un indebolimento o a una diluizione di quelle legature sociali che tradizionalmente determinavano l’identità personale (razza, genere, luogo di nascita, famiglia, classe sociale, lavoro, vicinato). Di conseguenza la sete di socialità e di appartenenza rimane inappagata e finisce, necessariamente, per individuare nuovi luoghi di soddisfacimento. Gli individui, alla disperata ricerca di una propria identità, diventano così membri di quelle che Bauman chiama “comunità guardaroba”, ovvero comunità di breve durata (durano il tempo dell’occasione che ha dato loro origine, come una partita di calcio, un crimine efferato o il matrimonio di una celebrità:

«le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro»7)

che richiedono scarso impegno per chi decide di farne parte. Evidentemente queste comunità, che si susseguono l’una all’altra incessantemente, non sono però in grado di fornire una risposta alla domanda di calore e appartenenza dei singoli individui; e non fanno che accrescere il clima di insicurezza.

A questo punto, occorre tenere presente un aspetto essenziale. La quantità e la qualità delle identità provvisorie oggetto di possibile scelta, è direttamente proporzionale alla disponibilità economica di ciascun individuo. La libertà – intesa come possibilità di opzionare alternative diverse – di autoidentificazione è condizionata in modo determinante da fattori di tipo economico e sociale, dando luogo a disuguaglianze e divisioni. Da una parte, ci sono

«coloro che possono comporre e decomporre le loro identità più o meno a piacimento, attingendo dall’immenso pozzo di offerte planetario»8, dall’altra quelli che «si vedono sbarrare l’accesso alle identità di loro scelta, che non hanno voce in capitolo per decidere le proprie preferenze, e che si vedono infine affibbiare il fardello di identità imposte da altri, identità che trovano offensive ma che non sono autorizzati a togliersi di dosso»9.

Non sembri allora troppo azzardato ritenere che individui con un’identità debole – il cui bisogno di appartenenza e sicurezza rimane inappagato dai quadri di riferimento tradizionali –, che vivono una difficoltà economica e una emarginazione sociale – tali per cui il numero e la tipologia delle identità disponibili sono limitati – saranno spinti a rivolgersi a gruppi che promettono “il sentimento di un noi” a costo zero, o magari addirittura dietro compenso:

«per una mente lucida, l’odierna, spettacolare ascesa dei fondamentalismi non ha niente di misterioso. È tutto fuorché disorientante e inaspettata. Feriti dall’esperienza di abbandono, uomini e donne dei nostri tempi sospettano di essere pedine nel gioco di qualcun altro, senza protezione contro le mosse fatte dai grandi giocatori, e ripudiati e spediti tra i rifiuti non appena i grandi giocatori non li considerano più redditizi10».

Tali individui sono ossessionati da quello che Bauman chiama lo “spettro dell’esclusione”, dalla paura della solitudine e della mancanza di sicurezza e di calore garantiti dalla socialità. Per essi il fondamentalismo rappresenta una tentazione irresistibile e una soluzione relativamente semplice, la sola disponibile in grado di rispondere, almeno apparentemente, al loro bisogno identitario, così

«non ci pensano due volte a immergersi nel suo calore, anche prevedendo di dover pagare successivamente un prezzo per questo piacere. D’altronde, non sono stati allevati in una società di carte di credito, che insegnano a non posticipare il desiderio?»11.

I fondamentalismi però, oltre a implicare la negazione delle identità personali dei suoi membri e la loro libertà di scelta (in nome dell’unità e dell’uniformità a un’unica verità), lungi dal costituire un reale luogo di socialità, rappresentano un modello identitario altrettanto debole e, di conseguenza, inevitabilmente chiuso e intollerante. La loro sussistenza risulta dipendere necessariamente dall’eliminazione di ogni possibilità di apertura e confronto con realtà diverse, dall’assunzione di una prospettiva dogmatica, acritica e basata sul ricorso alla violenza e alla forza nei confronti di tutto ciò che può minacciare o costituire un’alternativa.

Amos Oz

Chiarito in che senso le identità deboli possano rivelarsi pericolose, si deve esplicitare cosa si intenda con “identità forti”. Un’immagine che esemplifica in modo adeguato questo concetto è quella di individuo penisola, elaborata da Amos Oz, autore di origine ebraica impegnato nella risoluzione del conflitto israeliano-palestinese. Prendendo spunto dalle parole del poeta inglese John Donne, secondo il quale nessun uomo è un’isola, Oz aggiunge:

«siamo invece tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla famiglia e agli amici e alla cultura e alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Credo ci si debba lasciare il diritto di restare penisole. Ogni sistema sociale e politico che trasforma noi in un’isola darwiniana e il resto del mondo in un nemico o un rivale, è un mostro. Ma al tempo stesso ogni sistema sociale, politico e ideologico che ambisce a fare di ognuno di noi null’altro che una molecola di terraferma, non è meno aberrante. La condizione di penisola è quella congeniale al genere umano. È quello che siamo e che meritiamo di restare»12.

Un individuo con un’identità solida è un individuo penisola, capace di trattare gli altri come altrettanti individui penisola. Conscio della propria solidità e forza (data da una parte dal senso di appartenenza a una comunità, dall’altra dal permanere di una sua identità peculiare, distinta, coerente e continuativa), è pronto a confrontarsi apertamente con l’alterità non in termini di lotta e prevaricazione, ma neanche in termini paternalistici o tolleranti (nell’accezione negativa che si è messa in luce). Egli è in grado di accettare positivamente la non totale uniformità degli e con gli altri, non percepiti in termini di minaccia o bisogno, ma come forme identitarie alternative con cui istituire un rapporto alla pari, di crescita e ricchezza reciproca.

Oz ritiene che il riconoscimento della nostra natura di penisole potrebbe essere un rimedio valido e un modo per prevenire il fanatismo, nel senso più esteso del termine (il germe del fanatismo è presente in tutti noi). Questo sarebbe possibile proprio perché il percepire noi stessi e gli altri come penisole contribuirebbe a costituire identità salde, che non avrebbero più bisogno di ricorrere a “comunità guardaroba” – nel migliore dei casi – o ai fondamentalismi – nel peggiore – per soddisfare la sete di appartenenza (si sentirebbero parte della comunità, sebbene non assorbiti completamente da essa).

Attraverso il senso dell’umorismo, l’autoironia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro e di immaginarsi, il compromesso e l’imparare a vivere in situazioni aperte, in cui permangono conflitti non risolti e diversità non ridotte a uniformità, è possibile evitare l’isolamento insulare o il ritrovarsi terraferma perimetrata da muri.

NOTE

1 J. Donne, Meditazione XVII, in Devozioni per occasioni di emergenza, Editori Riuniti, Roma 1994, pp. 112-113.

2 J. Habermas, C. TaylorMulticulturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, p. 19.

3 Z. Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 79-82.

4 Ibid., pp. 62-63.

5 Ibid., p. 89.

6 Ibid., pp. 55-56. 

7 Ibid., p. 87.

8 Ibid., p. 42.

9 Ivi

10 Ibid., pp. 53-54.

11 Ibid., p. 54.

12 A. Oz, Contro il fanatismo, cit., p. 54.

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: