Enrico Pozzi, Lo straniero interno

by gabriella
straniera

Lo straniero interno

Introduzione a Lo straniero interno, a cura di Enrico Pozzi, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993.

Nel celebre Excursus sullo straniero, Simmel introduce la figura dello «straniero interno» con la quale mostra l’ossimoro contenuto nel concetto stesso: lo straniero interno è, infatti, al tempo stesso straniero e interno al nostro gruppo.

Se fosse solo straniero, ci sarebbe, infatti, semplicemente estraneo. «[…] gli abitanti di Sirio […] non esistono affatto per noi, stanno al di là di ciò che è lontano e di ciò che è vicino».

Lo straniero interno non sta oltre il confine spaziale o esistenziale del noi, entra nella dialettica della vicinanza e della distanza, sta nel nostro spazio significativo, appartiene alla nostra comunità, ci è interno. Non perché, sempre straniero, vive concretamente tra noi. Ma perché condivide molto della nostra identità, dei nostri valori e delle nostre categorie cognitive. Abita il noi, e come noi.

Eppure rimane straniero. Qualcosa lo separa da noi, una differenza intorno ad un tratto costitutivo della nostra identità. Questa differenza fonda la sua identità per noi, e per se stesso. E’ una differenza abbastanza grande da avvicinarlo alla diversità dell’estraneo, e abbastanza contenuta da tenerlo di qua dai confini, nella identità del noi.

Lo straniero interno

«non è il viandante, che viene oggi e domani va, bensì come colui che oggi viene e domani rimane». 

Di nuovo il fantasma dello Straniero vaga per l’Europa. Gli stranieri sono tornati ad essere lo Straniero: un problema vistoso, una risorsa fondamentale della lotta politica, un polo dell’immaginario collettivo, una vittima designata.

Grazie allo Straniero, segmenti di opinione pubblica hanno ritrovato una identità, gruppi sociali si sono riscoperti e mobilitati, movimenti e partiti politici sono nati o rinati. Non vi è Destra senza lo Straniero. In forme molto diverse, i lepenisti francesi, le leghe italiane, i partiti reazionari austriaci o svizzeri, i neonazisti tedeschi esistono perché lo Straniero è lì a legittimarli.

ebreiNuove configurazioni statali e regionali si costruiscono intorno alla ridefinizio­ne di ciò che va considerato straniero. Differenze tollerabili diventano di colpo diversità intollerabili.

Il Mezzogiorno d’Italia è di nuovo Terronia, le due anime della Cecoslovacchia non possono più coesistere, la Jugoslavia si dissolve nel massacro incrociato delle sue componenti etnico-religiose, i macedoni non vogliono saperne della Grecia, si bruciano i turchi in Germania e si uccidono gli arabi in Francia.

Insieme alla logica del pogrom, si riaffaccia la categoria mai sopita dell’Ebreo. Intanto le Repubbliche ex-sovietiche gestiscono con la violenza le loro minoranze, nuove leggi rendono sempre più difficile l’ingresso fisico nel bunker Europa, il diritto d’asilo si restringe, e la cittadinanza diventa uno status sempre più prezioso e difficile da conseguire.

Questa crisi dello Straniero rimanda alla crisi improvvisa del vincolo sociale fondato sul contratto. Ovunque sembra salire la domanda di una sintonia tra l’identità e la terra. Si pretende un legame sociale stabilito da una appartenen­za comune radicata in una qualche naturalità primordiale che fondi nella natura, e non in una convenzione, il senso del «noi».

Al contratto si preferisce il patto. Nella sua forma ideale, il contratto può essere sottoscritto da chiunque si impegni ad osservarne le clausole; il patto presuppone alcune caratteristiche preesistenti che danno accesso al diritto di sottoscriverlo. Il contratto instaura l’identità comune del «noi»; il patto prende atto di una identità comune già esistente e derivata da una qualche ipotetica matrice comune concreta.

Il contratto vive di logos e di scambio, dunque di differenza; il patto vive di pathos e di fusione, dunque di identificazione. Una fame di patto sembra aver pervaso all’improvviso il continente europeo, e con essa il bisogno intenso di identità pure e forti perché naturali, di frontiere certe e non convenzionali, ma aderenti a differenze di sangue ancorate in qualche modo alla terra/matrice.

Un così grande bisogno di purezza e certezza, di cui la «pulizia etnica» dei serbi è solo la forma vistosa, deve nascere da un pericolo. Non la sola recessione economica: la spiegazione sarebbe rassicurante perché razionale, ma i segni del nuovo odio verso lo Straniero precedono in modo vistoso gli indicatori oggettivi della crisi economica. Forse una ragione importante sta nell’improvviso venir meno del sistema dei confini che organizzava il continente. Da un lato il progetto di unificazione europea […] dall’altro il crollo effettivo di un sistema di confini […] l’abbattimento del Muro di Berlino […].

Alla chiarezza delle differenze sancite da linee nette e inamovibili – il Muro – si sostituisce il panico dell’indifferenziato. Dove sono le linee che permettono di situare la realtà e di situarsi nella realtà? […] chi è «noi», dove inizia e dove finisce? Chi sono «io»? Di qui la domanda angosciata di nuove differenze sancite da nuovi confini incontrovertibili perché non convenzionali ma naturali.

La paura della perdita della possibilità di una identità definita si traduce nella richiesta delle certezze di un ordine politico naturale e di una polis garantita in qualche modo dalla natura. Richiesta ideologica, che viene mobilitata nelle diverse situazioni locali all’interno dello scontro politico, come sua risorsa importante. Ma richiesta che nasce da un panico cognitivo autentico, e che cerca con effettiva disperazione classificazioni certe, dunque «naturali», per restituire un qualche senso alla crisi anomica del «noi» e delle stesse identità personali. La ricerca di quadri conoscitivi certi si «naturalizza» in ricerca di appartenenze «pure».

omosessuali

Omosessuali

meridionaliInterviene qui la peculiarità dello Straniero il cui spettro inquieto agita, non senza stimoli interessati, le società europee.

I nuovi equilibri geopolitici non permettono più la soluzione facile del Nemico esterno che, fuori dai confini, conferma i confini e compatta la nostra identità. È dunque all’interno dei confini che si cerca ora lo Straniero potenziale da trasformare in Nemico. È spesso l’appartenente ad un’altra etnia che vive tra noi: il magrebino, il turco, il negro, il bosniaco musulmano. Ma è in misura crescente un tipo più inafferrabile di straniero, la cui caratteristica centrale sembra quella di essere per molti versi così simile a noi da non potersi quasi distinguere: parte del «noi» eppure in qualche modo altro da noi, e dal quale il «noi» deve purificarsi.

Georg Simmel (1858 – 1918)

Simmel lo aveva definito nel 1907 lo «straniero interno»: è, secondo le prospettive, il meridionale, l’ebreo, l’omosessuale, il deforme […] il traditore, […]  il folle, ecc. ecc., nella panoplia inesauribile dell’intolleranza europea.

Mi chi è questa figura centrale dell’odio europeo, e forma privilegiata dell’odio umano? Quali funzioni svolge lo «straniero interno»? Quali sono le sue caratteristiche e proprietà generali? Perché più del Nemico improvvisamente si prova il bisogno incoercibile di annientarlo, e talvolta di magnificarlo? In quali processi sociali e mentali vive la sua vita discreta negli intervalli tra gli acmi di sangue che punteggiano la sua esistenza?

Tentiamo una definizione. Lo straniero interno è il membro di una comunità che se ne distingue per almeno un aspetto costitutivo della identità propria e della comunità stessa. Al tempo stesso esso a) appartiene inequivocabilmente alla comunità per molti dei suoi tratti significativi, b) altrettanto inequivocabilmente non le appartiene per altri suoi tratti significativi.

La forza euristica del concetto sta nel suo ossimoro. Lo straniero interno è contemporaneamente straniero e interno. Se fosse solo straniero, ci sarebbe estraneo.

«[…] gli abitanti di Sirio non sono per noi stranieri nel senso vero e proprio – perlomeno non nel senso sociologico del termine che viene preso in considerazione – ma essi non esistono affatto per noi, essi si trovano concettualmente al di là di quello che chiamiamo lontananza e vicinanza» (Simmel).

Pawel Kuczynski, No, thanks

Pawel Kuczynski, No, thanks

Lo straniero interno non sta oltre il confine, entra nella dialettica della vicinanza e della distanza, sta nel nostro spazio significativo, appartiene alla nostra comunità. Ci è interno. Non perché, sempre straniero, si è innestato nel nostro spazio geografico pur rimanendoci estraneo (la condizione dell’immigra­to non assimilato).

Ma perché condivide molto della nostra identità e abita per buona parte il nostro noi. E come noi. Eppure rimane straniero. Qualcosa lo separa da noi: una differenza intorno ad un tratto che costituisce la nostra identità e che fonda la sua per noi e per se stesso. Una differenza abbastanza grande da avvicinarlo alla diversità – il Barbaro – e abbastanza contenuta da tenerlo di qua dai confini, dentro la comunità.

«Qui lo straniero non viene inteso nel senso finora spesso accennato, come il viandante, che viene oggi e domani se ne va, ma come quello che viene oggi e poi domani rimane» (ivi).

Appartiene, eppure non appartiene del tutto. Per noi come per lui, il suo «noi» non sfugge mai all’ombra di una riserva mentale: esitiamo un attimo a dire «noi» con lui, e lui con noi. Il suo vincolo sociale ci appare differente dal nostro, e non sfuggiamo mai al dubbio che sia solo un contratto. Sta dentro al nostro spazio e accanto a noi, ma sentiamo che sta anche fuori e di fronte.

«Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai numerosi ‘nemici interni’ – un elemento, la cui posizione immanente e di membro include contemporaneamente lo stare ‘al di fuori’ e ‘di fronte’» (ivi).

Pawel Kuczynski, Il Sud non gioca

Pawel Kuczynski, Il Sud non gioca

Così definito, lo straniero interno è una «figura» del Terzo. La logica della sua configurazione si presenta necessariamente triadica.

Senza di lui la comunità potrebbe abbandonarsi ai piaceri della tautologia: A = A, e tutto ciò che è oltre il confine = non-A. Lo straniero interno porta il non-A in A. Alla bella certezza del dentro-fuori sostituisce il disordine di un dentro che, per qualche aspetto, appartiene anche al di fuori. La comunità si sogna confusa in un Noi omogeneo e identico a se stesso. Il Terzo vi introduce l’eterogeneo, ma un eterogeneo per molti versi abbastanza simile a noi da non poter esser liquidato facilmente come estraneo. Nella comunità il Terzo non incarna la* separazione effettiva, ma la sua ombra; percepita al tempo stesso come speranza e minaccia. […]

La differenza dello straniero interno investe gli elementi portanti della sua comunità e di ogni comunità pensabile. Situato tra il dentro e il fuori, lo straniero vive intorno e sul confine, che segnala e talvolta instaura. Vive del confine, che transita e ibrida. Egli rappresenta – nel senso stretto del termine: mette in scena, rende visibile – il sistema di classificazioni della comunità. Le sue configurazioni sono una mappatura della realtà così come quella comunità la costruisce e l’organizza. […] In questo modo lo straniero interno diventa il rivelatore prezioso della più «discreta» delle strutture della comunità, quella che fonda la sua percezione del reale: le sue categorie sociali a priori della conoscenza, interiorizzate da ogni nuova generazione attraverso la socializzazione primaria.

La griglia di classificazione che gli stranieri interni ci indicano si articola su tre dimensioni interdipendenti, che a loro volta, per proprietà transitiva, consentono una tassonomia dello straniero interno: il corpo, il sistema simbolico, il sistema economico.

frankensteinVictorIl corpo svolge un ruolo centrale nel riconoscimento dello straniero, e dunque nella sua funzione di indicatore cognitivo. Il membro di una comunità è definito come straniero interno sulla base di uno scarto rispetto a:

a. il genere umano: il mostro (Tort, 1980), l’ibrido, l’uomo-animale (Montagu 1971; Singh, Zingg, Gesell 1941);

conchitab. il genere sessuale: l’omosessuale, l’androgino (Weil 1992), il bisessuale (Bisexualité, 1973), il castrato (Barbier 1989), la virago;

meticciatoc. la razza: il bianco, il nero, il giallo, rispetto alla razza dominante nella comunità, le varianti intermedie e le ibridazioni: il mulatto, il meticcio, il creolo, il sangue misto (Métissages 1991);

arianod. l’etnia: i tratti fisici attribuiti dal senso comune ad una presunta etnia o subetnia, nel contesto di un’altra etnia che si attribuisce tratti diversi; ad esempio il «nordico», il «latino», il «biondo», il «moro», il «siciliano», il «sardo»; gli stereotipi di immagini corporee vengono usati per costruire differenze all’interno delle quali emerge lo straniero interno;

un ragazzo carinoe. Il corpo di classe: i tratti fisici tipici attribuiti ai diversi gruppi sociali vengono usati per identificare chi, nel nostro gruppo, non è del nostro gruppo; ad esempio il cafone, il burino, il redneck, il «signorino»;

f. il corpo «normale»: ovvero gli stigmi fisici che non mettono in forse la qualità di essere umano, ma sanciscono una differenza significativa rispetto alla «normalità» e alle classificazioni che sottende: il nano/gigante, il troppo grasso/troppo magro, il labbro leporino, lo strabico, il «rosso», il mancino, l’albino, lo storpio, il gobbo, l’epilettico, il glabro, il crespo, il tatuato, il gemello, le varie deformazioni e mutilazioni rituali, ecc. (Goffman 1970; Fiedler, George, Walczyk 1978; Pastoureau 1993; De La Mare 1921; Zazzo 1960; 1990).

Aristotele

Aristotele

Un luogo comune radicato vuole che l’identità di un gruppo o di una persona si costruisca per opposizione ad un Altro assoluto, percepito come diverso: il «non-umano», il Barbaro, l’outgroup. In questa prospettiva, l’identità è pensata come una tautologia, un manifestarsi evidente dell’Essere a se stesso: A = A e diverso da non-A.

Già Aristotele era andato molto oltre, quando scriveva nel Libro X della Metafisica:

«…quel che è differente da qualcosa è sempre differente per qualche cosa, tanto che necessariamente ci deve essere qualcosa di identico, per cui sono differenti» (Metafisica: 1054b).

Alla definizione dell’identico non basta la diversità totale del contrario di A (il non-A), occorre anche la differenza parziale del non-simile-ad-A; allo stesso modo la differenza non è il contrario dell’identico e non coincide con la diversità. Essa si colloca in una posizione terza tra identità e diversità, partecipa dell’una e dell’altra. La differenza è costitutiva della percezione della identità, un sostrato di identità è necessario per la percezione della differenza.

Georg Wilhelm Hegel

Georg Wilhelm Hegel

La Fenomenologia dello Spinto libera l’intuizione aristotelica dalle pastoie di una logica binaria, e non a caso lo fa riflettendo sul rapporto con l’Altro:

«L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché essa è in sé e per sé per un’altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto» (Fenomenologia, IV/13).

L’Altro fonda la mia identità (individuale, di gruppo, di nazione) non in quanto mi è totalmente altro – estraneo, diverso -, ma in quanto è al tempo stesso e per alcuni aspetti identico a me e differente da me, cioè capace di riconoscermi.

Dopo la Fenomenologia dello spirito, diventa possibile pensare con chiarezza che l’identità si costruisce non tanto nell’ambito di una opposizione, quanto attraverso il suo superamento in una logica della differenza vale a dire diversità relativa.

L’Altro non presidia dall’esterno i confini, ma si insedia all’interno di questi confini grazie al bisogno che A ha di essere riconosciuto, e al reciproco bisogno di riconoscimento dell’Altro da parte di A.

L’identità di A si dà nella coinerenza relativa e reciproca di A e dell’ Altro, implica che si dia anche contestualmente l’identità dell’Altro, e si fonda su questo intreccio di identità e differenze. A sa di essere A solo in quanto contiene in se stesso l’Altro in quanto differenza consapevole, Altro che a sua volta contiene in sé A come propria consapevole differenza interna.

Lo straniero interno incarna questa dialettica identità/differenza che sta al cuore di ogni identità individuale e sociale. La comunità preferirebbe forse un Altro/Nemico assoluto oltre il confine, per potersi rifugiare nella tautologia di A « A (o nell’equivalente, solo in apparenza orgoglioso, del nevrotico: «io sono come sono»).

Glielo impedisce la realtà, che la costringe a rinunciare alle fantasie di una autosufficienza integrale, e ad aprirsi allo scambio con l’esterno. Ma glielo impedisce anche la logica profonda delle dinamiche di identità, che non sa che farsene del solo non-A per fondare A, e ha bisogno di B come differente da A in A, pena una identità immobile per A: una identità di cosa. Spetta alla rete degli stranieri interni portare in ogni dimensione e segmento della totalità sociale l’ombra dinamica della differenza, e con essa la produzione dinamica della identità.

Il Barbaro è stolido e produce nella comunità delle identità stolide (Joly 1992). Lo straniero interno ha la vitalità mobile dell’ossimoro. Ogni volta che la comunità vuole ridurlo a Barbaro – allo straniero estraneo -, ha buon gioco nel ricordare quanto è «interno», per quanti aspetti è identico a coloro che lo vogliono relegare oltre il confine, e in quale misura appartiene inequivocabilmente alla comunità stessa.

Émile Benveniste (1902 – 1976)

Ogni volta che la comunità pretende di assimilarlo a sé, e di annullare le sue differenze in una identità unitaria e indifferenziata, gli è facile mostrare quanto rimane per certi aspetti inequivocabilmente diverso dalla comunità. Nel cuore dello straniero interno abita come sua tensione costitutiva l’endiade hostis/hospes individuata da Benveniste (Benveni­ste 1969: I, 87-101).

F. Dupont traduce l’analisi di Benveniste in modo convincente:

hostis sarebbe «il simile cui si deve fare guerra per mantenerlo a distanza», e hospes «il simile cui si deve fare festa per tenerlo a distanza». (Dupont 1992: 112-113), dove «fare festa» è purtroppo assai vicino al «fare la festa».

Perfetta rappresentazione del pathos di distanza e vicinanza, esclusio­ne e inclusione, identità e differenza, che permea il paradigma dello straniero interno. Portatrice di ossimori, la rete degli stranieri interni instaura soluzioni di continuità e faglie in una identità di gruppo che sembra voler sempre concludere se stessa in un cerchio compiuto. Essa costringe continuamente il gruppo a ripristinare la propria identità rispetto a differenze non scotomizzabili, non dandola mai per definitiva e scontata ma reinventandola ogni volta lungo vie almeno in parte nuove, all’insegna di un sociologico «diventa ciò che sei». [….]

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