Francesco Lamendola, Von Clausewitz. L’inseparabilità di guerra e politica

by gabriella

ClausewitzDesideriamo svolgere alcune riflessioni su Karl von Clausewitz (1780-1831) a partire da un bel saggio che ventitre anni fa Luciano Guerzoni, docente di diritto ecclesiastico presso l’Università di Modena, presentò a un Convegno di studi in  quella città (poi pubblicato sulla rivista Bozze, Bari, Edizioni Dedalo, 1985, n. 1-2, pp. 9-46) sul generale prussiano e Carl Schmitt. Ci limiteremo qui a considerare innanzitutto la teorizzazione della guerra da parte di Clausewitz come atteggiamento esemplare di una cultura, quella occidentale, che fin dalle sue origini ha visto guerra e politica come un binomio pressoché inscindibile.

Ma procediamo con ordine e cominciamo con il riportare una breve antologia di passi di von Clausewitz, scelti fra i più significativi al fine di enucleare la sua concezione di che cosa sia la guerra, quali ne siano gli scopi, quali i mezzi, quali i legami con il regno della politica. Ci serviremo dell’ormai classica edizione del trattato Della guerra di Mondadori del 1970 (in due volumi; qui vol. 1, p. 19 sgg.), basata su quella dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’esercito italiano
del 1942: una data da tenere a mente).

Non daremo della guerra una grave definizione scientifica; ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello.

La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine dei duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l’azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della sua forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.

La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà. La forza si arma delle invenzioni delle arti e delle scienze per misurarsi contro la forza. Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si dà il nome di diritto delle genti, ma che non hanno la capacità di affievolirne essenzialmente l’energia. La forza, intesa nel suo senso fisico (poiché al di fuori dell’idea di Stato e di Legge non vi è forza morale) costituisce dunque il mezzo; lo scopo è di imporre la nostra volontà al nemico. (…)

Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli maggiormente perniciosi.

Poiché l’impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell’intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione, senza risparmio di sangue, acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta in conseguenza la propria legge; ed entrambi i princìpi di azione tendono così verso l’assoluto, senza trovare altri limiti che nei contrappesi insiti in essi.

È così che la questione dev’essere considerata: e rappresenta uno sforzo non solo vano, ma illogico, il lasciare da parte l’elemento forza per avversione ad esso. Se le guerre fra nazioni civili sono meno crudeli e devastatrici di quelle tra i selvaggi, ciò deriva dalle individue condizioni sociali degli Stati e da quelle degli Stati considerati nei reciproci rapporti. La guerra nasce da queste condizioni e da questi rapporti sociali che la determinano, la limitano, la moderano; ma tali modificazioni non sono inerenti alla guerra, costituiscono solo elementi contingenti: mai si potrà introdurre un principio moderatore nell’essenza stessa della guerra, senza commettere una vera assurdità.

La lotta fra gli uomini si fonda su due differenti elementi: il sentimento ostile e l’intenzione ostile. Nella nostra definizione della guerra, ci siamo basati sul secondo perché più generale; non possiamo infatti pensare all’odio, anche il più selvaggio, quello che si avvicina all’istinto, separandolo dall’intenzione ostile, mentre esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno non essenzialmente accompagnate, da inimicizia preconcetta. (…)

Se l’avversario deve essere, a mezzo dell’azione bellica, costretto a compiere la nostra volontà, dobbiamo dunque o porlo realmente in stato d’impotenza, o metterlo in situazione tale che, secondo ogni probabilità, sia sul punto di esserlo. La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l’avversario. Essa non suppone però il lavoro di una forza attiva contro una massa inerte, giacché un atteggiamento completamente inerte è incompatibile con qualsiasi condotta di guerra; consiste invece sempre nell’urto di due forze attive contrapposte, e quanto si è detto circa lo scopo finale dell’attività bellica si applica ad entrambi i belligeranti. È, quindi, una nuova azione reciproca; finché non abbiamo abbattuto l’avversario, dobbiamo temere noi stessi di esserne abbattuti; non siamo più liberi; l’avversario ci impone la sua legge, come noi gli imponiamo la nostra.

Secondo rapporto di azione reciproca, che conduce ad un secondo criterio illimitato. Se vogliamo abbattere l’avversario, dobbiamo proporzionare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza. Questa si esprime col prodotto di due fattori inseparabili: entità dei mezzi disponibili forza di volontà. L’entità dei mezzi potrebbe venire approssimativamente determinata, poiché dipende (sebbene non completamente) in gran parte da elementi numerici. La forza di volontà è invece assai meno determinabile; si può tutt’al più congetturarla secondo l’importanza delle cause di guerra. Ammettendo di giungere per tal via ad una estimazione verosimile della capacità di resistenza avversaria, possiamo prenderla come misura dello sforzo da compiere, per dargli tale entità da assicurarci la preponderanza in ogni caso o, se i nostri mezzi non sono a ciò sufficienti, dargli pur sempre la maggiore entità possibile. Ma l’avversario farà la stessa cosa. Nuova gara reciproca che tende teoricamente all’estremo: terzo rapporto di azione reciproca e terzo criterio illimitato che riscontriamo.

Nel campo delle considerazioni astratte, il ragionamento non può perciò avere riposo, finché non sia giunto all’estremo. (…) Gettando un colpo d’occhio sulla natura subbiettiva della guerra e cioè su quelle energie colle quali vien condotta, essa ci apparirà sempre più come un giuoco. (…) Sebbene l’intelligenza si senta costantemente attratta verso la chiarezza e la certezza, è l’incerto che attrae spesso il nostro spirito.(…) Ma la guerra non è un passatempo, un divertimento consistente nel rischiare e riuscire, un’opera di libera ispirazione ; è un mezzo serio inteso ad uno scopo serio. (…) Se consideriamo ora che la guerra procede da uno scopo politico, è naturale che questo motivo primo che le ha dato vita continui a costituire elemento precipuo per la sua condotta. Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta sovente che esso si modifichi molto profondamente; ma è pur sempre l’elemento da tenersi soprattutto in considerazione. Così, la politica si estrinseca attraverso tutto l’atto della guerra, esercitando su questa un influsso continuo, per quanto è consentito dalla natura delle forze che nella guerra si manifestano.

La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. Quindi, quanto alla guerra rimane di proprio non si riferisce che alla natura particolare dei suoi mezzi. L’arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non vengano a trovarsi in contraddizione con tali mezzi, e il comandante in capo può esigerlo in ogni caso. Tale condizione non è certo lieve: ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi, poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi. (…)

E (…) se è vero che in una determinata specie di guerra la politica sembra scomparire completamente, mentre in un’altra essa diviene preponderante, si può tuttavia affermare che in entrambi i casi la guerra costituisce un atto politico. E invero, se la politica è da considerarsi come l’intelligenza dello Stato personificato, occorre che fra tutte le ipotesi che il suo calcolo deve abbracciare, possa anche essere compresa quella in cui la natura di tutte le condizioni imponga una guerra della prima specie. L’altra specie di guerra potrebbe considerarsi di carattere maggiormente politico della prima, solo qualora si volesse scorgere nella politica non già una cognizione generale, ma bensì il concetto convenzionale i un’astuzia rifuggente dalla forza, circospetta, fors’anche sleale. Si vede dunque, anzitutto, che in ogni caso la guerra deve essere concepita non come cosa a sé stante, ma come strumento politico.

E qui ci fermiamo per fare un primo bilancio di quanto sostenuto da von Clausewitz, ricapitolando tre punti che ci sembrano fondamentali. Primo: la guerra è un puro esercizio della forza, tendenzialmente illimitato, non suscettibile di alcuna moderazione o composizione fino a quando uno dei due contendenti non sia ridotto totalmente alla mercé dell’altro. Punto secondo: la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi; tuttavia, lo strumento della guerra non è – a sua volta – senza effetti sui fini della politica: così, la natura di ogni singola guerra finisce per risultare dalla mescolanza dell’elemento puramente politico e dell’elemento puramente militare, che avviene in diversa misura, a seconda delle circostanze. Punto terzo: le guerre fra stati civili, a differenza di quelle fra i “selvaggi”, possono essere condotte con intenzione ostile ma senza sentimenti di ostilità, ossia come puro strumento politico non soggetto a passioni viscerali e non accompagnato da odio verso il nemico; il che non rende tale genere di guerra meno crudele dal
punto di vista dei danni inflitti al nemico, perché in ogni caso lo scopo oggettivo della guerra è sempre, e rimane, quello di ridurre il nemico all’impotenza e alla completa sottomissione.

Chi ci ha seguiti nel precedente saggio dedicato alla filosofia politica di Carl Schmitt comprenderà, a questo punto, perché riteniamo che il pensatore del Novecento abbia ben letto e meditato su questo concetto del generale dell’Ottocento. In politica, infatti, esattamente come in guerra – sostiene Carl Schmitt – valgono essenzialmente le categorie di amico e nemico, e la percezione che si ha di quest’ultimo può anche non implicare l’idea del brutto, del malvagio e simili – per quanto la propaganda di guerra, ovviamente, si sforzerà di raffigurarlo come tale, onde mobilitare tutte le forze morali della nazione nello sforzo supremo del conflitto.

E ora veniamo al ragionamento di Luciano Guerzoni sul rapporto fra politica e guerra che caratterizza l’intera storia dell’Occidente, a partire dall’antica Grecia ove, appunto, la scienza della guerra, o polemologia, ha avuto origine. Nel saggio citato, egli sostiene che, nella cultura dell’Occidente, fin dall’inizio la guerra è stata assunta come dato costitutivo e fondante del pensare, dell’agire e dell’essere; e cita il famoso passo di Eraclito (Frammento B, 53)in cui si dice che

polemos (la guerra) è padre di tutte le cose; di tutti re; e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.

Clausewitz (e Schmitt), per Guerzoni, offrono poi un’interpretazione oggettiva del fenomeno “guerra” mostrando come esso sia inseparabile dal concetto occidentale di “politica”. “Volendo usare una formula, riterrei appropriato dire che ci troviamo qui in presenza di un teorema dell’indissolubilità di politica e guerra, per evidenziare che, nel caso di Clusewitze di Schmit, la teoria cui la loro riflessione mette capo, ancorché criticamente o scientificamente fondata, si risolve (infine) in una tesi proiettata o, comunque, proiettabile nel campo della normalità o del dover essere. Ma questo dato, al pari della soggettiva collocazione dei due autori – soprattutto di Schmitt – in un orizzonte di valori e di opzioni reazionarie, e al pari – ancora – della fattuale convergenza di tale pensiero con la cultura e la politica della destra, non può comunque valere, di per sé, a liquidare acquisizioni la cui portata e la cui fondatezza risultano, allo stato, non smentite, né superate.

Direi di più. Se l’impegno che ci accomuna è l’urgenza di dar vita ad una ‘cultura della pace’, questa non assurgerà a dignità di cultura, e non potrà neppure esprimersi in duratura e consapevole dimensione di un’etica collettiva e di conseguenza opzioni e comportamenti individuali e di massa, fino a che non sarà riuscita a fare i conti fino in fondo, e con il dovuto rigore, con quella che per brevità osiamo anche definire ‘cultura della guerra’. Non ci sarà cultura della pace senza una scienza (anche politologia) della pace, senza cioè un rigoroso superamento – ammesso che ciò sia possibile sul solo piano intellettuale (senza cioè una contestuale modificazione della realtà fattuale) – della fondazione teorico-scientifica del nesso di politica e guerra, che trova nell’elaborazione degli autori che ci accingiamo a considerare la sua forma più compiuta e matura.

Si tratta cioè, sostiene Guerzoni, di opporre alla teoria della inscindibilità di guerra e politica, che caratterizza tutto lo sviluppo della cultura occidentale e culmina appunto in von Clausewitz, una teoria altrettanto rigorosa e altrettanto “scientifica”, fondata su un’idea radicale della pace, che non possa essere accusata di “ciarlataneria” (ossia inadeguatezza e approssimazione), per usare un’espressione dello stesso Clausewitz (nella Premessa a Vom Kriege). Per il generale prussiano, la guerra non è che una parte del lavoro politico e gli è connaturale; e tuttavia la guerra, per lui, è ancora uno strumento della politica e soggiace alla intrinseca razionalità dello Stato moderno. Non è affatto riconosciuta come sovrana di esso: e ciò potrebbe sembrare un passo avanti, in senso laico-razionale, rispetto alla visione ontologico-sacrale della guerra propria dell’Occidente pre-moderno. Ma è proprio così?

Clausewitz, dice Guerzoni, introduce una importantissima distinzione fra il concetto astratto della guerra e il fenomeno della guerra concreto e reale. Ciò dipende, secondo noi, dalla tipica impostazione scientifica data da Clausewitz alla polemologia: così come esiste una geometria razionale, basata sui puri enti geometrici astratti, e una geometria intuitiva, che si occupa degli enti geometrici riproducibili in termini concreti, allo stesso modo egli “sdoppia” l’oggetto dei suoi studi in un concetto puro e in una realtà empirica, osservabile e misurabile. Ad ogni modo, osserva Guerzoni, la divisione operata da Clausewitz è meno rigorosa di quanto si potrebbe credere, perché lo stesso generale prussiano riconosce più volte che non esiste una barriera invalicabile tra le due cose e che la teoria della guerra sconfina inevitabilmente nella sua condotta pratica. Ora – come abbiamo visto anche nei brani di Clausewitz sopra riportati –
l’essenza della guerra, per il generale prussiano, consiste nel sottomettere l’avversario con la forza, senza che tale uso della forza possa essere moderato e senza che si possa evitare che esso giunga, quanto più si scontra con la resistenza del nemico, fino alle sue estreme conseguenze.

La concreta realtà storica, del resto, sembrava dargli ragione: non si era forse visto l’esercito russo fare terra bruciata del proprio paese, pur di aver ragione dell’invasione napoleonica del 1812? Per non parlare dei numerosissimi esempi offerti dalla storia antica, con la distruzione totale di Cartagine, Numanzia, Masada, o delle tecniche di guerra applicate da Attila, Gengis Khan e Tamerlano. Né Clausewitz, come si è visto, si fa alcuna illusone circa il fatto che il progresso civile, vanto della modernità, possa aver sostanzialmente intaccato l’essenza della guerra, che è la volontà di sottomettere il nemico a qualunque costo e con qualunque mezzo. Certo non poteva immaginare la distruzione pianificata delle città tedesche, mediante i bombardamenti aerei, attuata da Churchill nel 1943-45 (ma già ideata nel 1918 e programmata per il 1919); né l’istituzione dei campi di concentramento per la popolazione civile (attuata per la prima volta durante la guerra anglo-boera, nel 1899-1902, sempre per ispirazione di Churchill); e meno ancora l’uso dell’arma atomica su obiettivi urbani assolutamente inermi; ma tali sviluppi sono legati puramente all’evoluzione della tecnica militare e non contraddicono affatto, anzi sono insiti nelle premesse teoriche di von Clausewitz (e, prima di lui, di Niccolò Machiavelli, secondo il quale il fine giustifica i mezzi).

Abbiamo già visto come von Clausewitz, davanti alla possibilità di portare alle estreme conseguenze la sua teorizzazione della violenza “assoluta”, e teoricamente illimitata, della guerra, si “consola” con la sua subordinazione ontologica alla politica. È come se dicesse: vedete, una volta che una guerra è incominciata, nessuno sa dove potrà andare a finire, quali forme assumerà e a quali estremi si potrà spingere; però non preoccupatevi troppo, perché la guerra è pur sempre uno strumento della politica, dunque subordinata a un disegno razionale; e le forze che l’hanno messa in moto possono dare il contrordine in qualsiasi momento.

Resta però un problema, giustamente evidenziato da Guerzoni: infatti, nello schema di von Clausewitz niente e nessuno possono impedire alla guerra di diventare “guerra assoluta” (e viene in mente, oggi, la “guerra infinita” teorizzata dal governo di Bush junior contro il terrorismo); al che, anche la politica si farà “assoluta”, essendo entrambe finalizzate a un obiettivo assoluto: la distruzione totale dell’avversario. Pertanto il tentativo di forzare la natura della guerra, piegandola alla razionalità degli scopi politici, finisce per risolversi in un azzardo, una scommessa o semplicemente un esorcismo: l’apprendista stregone, spaventato dalla distruttività delle forze che egli stesso ha evocato, tenta – ma non è detto che vi riesca – di moderarne la violenza o, addirittura, di fermarle e rinchiuderle nello scrigno donde le aveva estratte.

Quanto a Carl Schmitt, egli non ha fatto altro – secondo Guerzoni – che sviluppare fino alle conclusioni più radicali il pensiero di von Clausewitz, negando l’identità di statale e di politico e definendo il politico (di cui lo stato non ha più il monopolio) come il luogo della distinzione fra amico e nemico. La politica, allora, diventa essenzialmente il campo di battaglia tra forze opposte che lottano per l’annientamento reciproco; e la guerra diviene veramente totale, perché il nemico (che si può anche non odiare), diventa l’altro che nega la nostra identità. Ciò significa che la guerra non è semplicemente la prosecuzione della politica, ma la realizzazione della sua essenza: la condizione di inimicizia permanente fra i popoli. Vano sarebbe dunque attendersi che la guerra, con il progresso dei costumi e con la consapevolezza dei rischi, prima o poi scompaia dall’orizzonte della cultura (e della storia) occidentale.

In altre parole, la politica come prodotto dell’Occidente ha bisogno di elaborare continuamente l’immagine di un “nemico” che giustifichi la permanenza dell’istituto militare, della mentalità militare, della radicale e perenne condizione di inimicizia tra soggetti politici. Ma cediamo ancora la pala a Guerzoni:

Le tracce dell’indicato processo di ‘totalizzazione’ della guerra non sono lontane da noi: sono nel quotidiano farsi e svolgersi della politica e dei rapporti sociali, interni e internazionali; sono – se appena volessimo vederle – nella quotidianità della nostra esistenza. Anche un pensiero duro, ostico, eticamente ripugnante – spesso – come quello che abbiamo appena visitato può aiutare a rendercene avvertiti. E difficilmente le vie della pace potranno affermarsi fino a che non acquisiremo la capacità di dare risposta alle domande che quel pensiero pone, non dimenticando che – per esso – in definitiva,

«la sostanza del politico non è l’inimicizia pura e semplice, bensì il poter distingure fra amico e nemico e il presupporre sia l’amico che il nemico» (Schmitt, Teoria del partigiano).

Ma allora, la riflessione di Schmitt ci riporta al pensiero che ha accompagnato la genesi dello Stato e del politico moderni, avvertendoci – con Spinoza – che in quella fase storica già fu rilevato come

«non è l’odio (…), ma il diritto dello Stato quello che crea il nemico» (Spinoza, Trattato teologico-politico).

Detronizzato lo Stato, la sovranità politica dei nuovi soggetti politici a contenuto non statuale continua ad esprimersi e a realizzarsi nella ‘creazione’ del ‘nemico’, o meglio nella capacità di distinguere sia l’amico che il nemico e di presupporre sia l’uno che l’altro.

Insomma si direbbe proprio che Bin Laden, se non esistesse, si sarebbe dovuto inventarlo (e non mancano le teorie “complottiste” che vanno in tale direzione). Ma c’è un ultimo elemento, sul quale vorremmo soffermare la nostra attenzione prima di concludere questa nostra riflessione.

Lo stesso Carl Schmitt ha osservato che il centro di riferimento spirituale della modernità è la tecnica la quale, per sua natura, non può porsi come elemento super partes (come lo era, ad esempio, la monarchia di diritto divino nel Medioevo), essendo invece il terreno comune e il presupposto per ogni forma di vita organizzata. Dunque la tecnica pervade ogni manifestazione della modernità, comprese le categorie del politico; e la guerra moderna sarà, inevitabilmente, una guerra essenzialmente tecnica ed essenzialmente totale. Anche da questo lato, perciò, cadono le illusioni che la politica possa puramente servirsi della guerra come una prosecuzione, su un terreno diverso dal proprio, di ciò che le è proprio; e la guerra, al contrario, tende a divenire fine assoluto di sé medesima. Impedire lo scoppio di una guerra o fermarla quando essa sia incominciata, allora, diventa un problema tecnico di difficilissima soluzione, perché il meccanismo tecnico di essa, una volta messo in moto, tende al conseguimento totale dei suoi scopi, mediante una strategia altrettanto totale, che non tollera intrusioni di carattere non-tecnico.

Arriviamo pertanto alla conclusione che, per contrastare la logica della guerra assoluta, non possiamo intervenire all’interno del processo logico che l’ha originata e messa in moto, ma dobbiamo ripensare in modo radicale le categorie della politica elaborate dalla filosofia occidentale fin dai suoi albori, percorrendo a ritroso il cammino che ci ha condotti al presente vicolo cieco e individuando il punto a partire dal quale abbiamo imboccato il sentiero sbagliato. Si tratta, certamente, di un programma ambiziosissimo, per non dire titanico: eppure è esattamente quanto ci si richiede, se vogliamo recuperare un orizzonte di speranza e di pace per la civiltà occidentale.

Diversamente, non ci resta che andare verso le tenebre di una guerra infinita, assoluta, contro u nemico altrettanto assoluto e infinito, di cui cambieranno volta per volta i connotati, ma che continuerà ad ossessionarci e a imprigionarci nella logica perversa di una violenza istituzionalizzata e metabolizzata, fino a divenire parte integrante della nostra intima essenza.

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