Georg Simmel, Excursus sullo straniero

by gabriella

Simmel (1858-1918) nel 1914

L’Excursus sullo straniero è un classico della sociologia dei gruppi elaborato da George Simmel, il più filosofo dei sociologi.

L’autore vi delinea un profilo in cui lo straniero è un membro del gruppo (ingroup) caratterizzato dalla non appartenenza (outgroup); è quindi l’incarnazione stessa dell’ambiguità, del limite, della frontiera.

Quale appartenente alla comunità, lo straniero è una figura del «terzo» che impedisce alla comunità di giocare il facile gioco della tautologia (A=A) identificandosi con il “dentro” e opponendosi al “fuori”; è qualcuno che rompe il sogno dell’omogeneità naturale di un Noi identico a stesso, ponendosi a cavallo tra l’amico e il nemico.

Il testo seguente, tradotto da Antonina M. Meta Galioto da G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen rdie Formen der Vergesellschaftung, München-Leipzig, Duncker-Humblot, 1923, è tratto da Enrico Pozzi (a cura di), Lo straniero interno, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, pp. 25-29.

Se il migrare, come distacco da ogni punto spaziale dato, costituisce il termine di paragone rispetto al fissarsi in un tale punto, allora la definizione sociologica dello « straniero » rappresenta, per così dire, l’unità di tutte e due le definizioni – certamente rivelando anche qui che il rapporto verso lo spazio è solo, da una parte, la condizione mentre, dall’altra parte, è il simbolo dei rapporti verso le persone.

Qui lo straniero non viene inteso, nel senso finora spesso accennato, come il viandante, che viene oggi e domani se ne va, ma come quello che viene oggi e poi domani rimane – per così dire il viaggiatore potenziale, il quale, nonostante non abbia continuato a spostarsi, non ha ancora superato del tutto quel sentimento del distacco proprio di colui che arriva e riparte.

Georg Simmel (1858-1918)

Egli è fissato all’interno di un determinato ambito spaziale – o un ambito, i cui limiti determinati sono analoghi a quelli spaziali; la sua posizione però viene essenzialmente determinata dal fatto che egli non vi appartiene sin dall’inizio, dal fatto che egli inserisce in tale spazio delle qualità che non ne derivano e non possono derivarne.

L’unità di vicinanza e di lontananza, che ogni rapporto tra gli uomini sottintende, ha raggiunto qui una costellazione, che si può formulare nel modo più breve in questo modo: la distanza all’interno del rapporto significa che la persona vicina è lontana, l’essere straniero, invece, significa che la persona lontana è vicina.

E questo perché l’essere straniero è naturalmente un rapporto tutto positivo, una particolare forma di azione reciproca: gli abitanti di Sirio non sono per noi stranieri, nel senso vero e proprio – perlomeno non nel senso sociologico del termine che viene preso in considerazione ma essi non esistono affatto per noi, essi si trovano concettualmente al di là di quello che chiamo lontananza e vicinanza.

Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai numerosi «nemici interni» – un elemento, la cui posizione immanente e di membro include contemporaneamente lo stare «al di fuori» e «di fronte».

La maniera in cui momenti di ripulsa e di distanza creano qui una forma di «insieme» e di unità ad azione reciproca può essere accennata tramite le seguenti argomentazioni, che però debbono non essere affatto intese come esaustive.

Il cambiavalute ebreo

Il cambiavalute ebreo

In tutta la storia dell’economia lo straniero appare ovunque come commerciante, oppure il commerciante come straniero.

Finché esiste una economia volta essenzialmente al soddisfacimento del proprio bisogno, o finché una cerchia spazialmente ristretta scambia i suoi prodotti, non è necessario che vi sia, all ‘interno, un intermediario; un commerciante è utile solo per merci che vengono prodotte completamente al di fuori della cerchia. A meno che delle persone non migrino all’estero per acquistare tali generi di necessità – in tale caso esse sono, in quelle aree nelle quali si recano, commercianti «stranieri» – il commerciante deve essere uno straniero; per un altro non vi è possibilità di esistenza.

Questa posizione dello straniero si accentua quando egli, anziché lasciare il luogo delle sue attività, si fissa in esso. Infatti, in innumerevoli casi anche questo gli sarà possibile solo quando potrà vivere del commercio di intermediazione.

Una cerchia economica chiusa in qualche maniera, con il terreno diviso e attività artigianali sufficienti rispetto alla richiesta, concederà anche al commerciante una sussistenza; infatti solo il commercio rende possibile delle combinazioni illimitate, e in esso l’intelligenza trova sempre ampliamenti e possibilità di nuovi sfruttamenti, difficilmente realizzabili dal produttore originario con la sua mobilità limitata, con la sua dipendenza da una clientela che aumenta soltanto lentamente.

Il commercio può sempre assorbire un maggior numero di persone rispetto alla produzione primaria; perciò esso è il settore più adatto per lo straniero, che in certa misura penetra come supemumerarius in una cerchia, nella quale le posizioni economiche di fatto sono già occupate. L’esempio classico è dato dalla storia degli ebrei europei.

Lo straniero non è per la sua natura un proprietario terriero, intendendo ciò non solo nel senso fisico, ma anche nel senso simbolico di possedere una risorsa vitale, che è fissata, se non in un luogo spaziale, almeno in un luogo ideale dell’ambito sociale.

Anche nei rapporti più intimi da persona a persona, lo straniero può sviluppare tutte le attrazioni e i significati possibili. Ma, finché è sentito come straniero, egli non è un «proprietario di terre» per l’altro. Così tale, dipendenza dal commercio di intermediazione e, spesso, come in una sublimazione di esso, dal puro commercio monetario, dà allo straniero il carattere specifico della mobilità, nella quale, avendo luogo all’interno di un gruppo circoscritto, vive quella sintesi di vicinanza e di lontananza che determina la posizione formale dello straniero: infatti la persona mobile per eccellenza viene ogni tanto in contatto con ogni singolo elemento, ma non è legata organicamente con nessuno di essi tramite vincoli parentali, locali e professionali.

Un’altra espressione per questa costellazione deriva dall’oggettività dello straniero. (esteriorità, terzietà) Siccome non è radicato nelle singole componenti o nelle tendenze unilaterali del gruppo, si trova di fronte a tutti con il comportamento particolare dell’«oggettivo», che non significa solamente una semplice distanza e la non-partecipazione, bensì una formazione particolare di lontananza e di vicinanza, di indifferenza e di impegno.

Giudici stranieri

Giudici stranieri nel Medioevo

Rimando all’esposizione che – nel capitolo «Sovraordinazione e subordinazione» – tratta delle posizioni dominanti dello straniero nel gruppo, il cui esempio tipico è stata la prassi di quelle città italiane che chiamavano i loro giudici da fuori, perché nessun cittadino era libero da parzialità per quanto riguardava gli interessi della sua famiglia e della sua fazione.

Dall’oggettività dello straniero dipende, anche se non esclusivamente, il fenomeno già accennato in precedenza: a chi migra vengono spesso fatte le rivelazioni più sorprendenti, fino alla confessione di cose altrimenti tenute nascoste alle persone vicine.

L’oggettività non vuol dire affatto non-partecipazione – poiché si trova generalmente al di là di ogni comportamento soggettivo e oggettivo – ma è una specifica forma positiva di partecipazione – cosi come l’oggettività di una osservazione teorica non significa affatto che lo spirito sia una tabula rasa passiva, nella quale le cose incidono le loro qualità, ma l’attività piena dello spirito che agisce a seconda delle sue proprie leggi, soltanto escludendo gli spostamenti e le accentuazioni accidentali, le cui diversità individuali-soggettive fornirebbero, dello stesso oggetto, immagini tutto differenti.

L’oggettività può essere chiamata anche come libertà: l’uomo oggettivo non è legato da vincoli di nessun genere, che potrebbero pregiudicare la sua ricezione, la sua comprensione e la sua valutazione del dato. Questa libertà, che fa vivere e considerare allo straniero il rapporto di vicinanza come nelle visioni prospettiche a volo d’uccello, contiene certamente moltitudine di possibilità pericolose. Da sempre, in caso di rivolte di ogni genere, il partito attaccato sostiene che ci sarebbe stata un’istigazione dall’esterno tramite emissari stranieri e fomentatori.

Nella misura in cui ciò risponde a verità, si tratta pur sempre di una esagerazione del ruolo specifico dello straniero: egli è il più libero, praticamente e teoricamente, ha una visione generale delle relazioni in modo più spregiudicato, le misura a ideali più reali e oggettivi e non è legato nel suo agire all’aggregazione, alla pietà, ai precedenti [nei casi in cui questo viene affermato falsamente da parte delle persone attaccate, ciò deriva dalla tendenza dei ceti superiori a discolpare i ceti più bassi: quegli stessi che fino ad allora si erano trovati con loro in stretto rapporto. Infatti, fingendo che i ribelli non siano veramente colpevoli, ma siano solo fomentati, fingendo cioè che la ribellione non parta più da loro, i medesimi attaccati discolpano loro stessi, negando, in linea di principio, ogni reale motivo di rivolta].

Alla fine la proporzione di vicinanza e lontananza, che dà allo straniero il carattere dell’oggettività, acquista un lato pratico nel carattere più astratto del rapporto verso di lui, cioè nel fatto che con lo straniero si hanno solo certe qualità più generali in comune, mentre il rapporto con le persone legate più organicamente si basa sull’uguaglianza di differenze specifiche rispetto a ciò che è solamente generale.

È secondo questo schema che si svolgono generalmente tutti i rapporti, in qualche maniera personali, in svariati ordinamenti. Su di essi non decide solo il fatto che esistono comunanze tra gli elementi oltre a differenze individuali, le quali influenzano il rapporto o si tengono al di là di esso. Quella stessa comunanza viene influenzata essenzialmente, nel suo incidere sul rapporto, dal fatto di sussistere soltanto tra gli elementi di tale rapporto, e di essere così generale verso l’interno, ma verso l’esterno specifica e incomparabile – oppure di essere comune per la sensazione degli elementi stessi, soltanto perché è generalmente comune a un gruppo, a un tipo o all’umanità. In quest’ultimo ha luogo, in proporzione all’ampiezza della cerchia che riveste lo stesso carattere, un indebolimento dell’efficacia del carattere comune; esso funziona però come base unitaria degli elementi, ma non riferisce gli elementi l’uno all’altro, e proprio questa uguaglianza potrebbe unificare ogni elemento con tutti gli altri possibili.

Anche questo è evidentemente un modo in cui un rapporto include contemporaneamente la vicinanza e la lontananza: nella misura in cui i momenti di uguaglianza possiedono un carattere comune, al calore del rapporto creato da essi, si aggiunge un elemento di freddezza, un senso di casualità proprio di questo rapporto, e le forze unificatrici hanno perso il loro specifico carattere centripeto. Questa costellazione sembra possedere, nel rapporto con lo straniero, una predominanza in confronto alle comunanze individuali degli elementi inerenti soltanto al rapporto in questione. Lo straniero ci è vicino nella misura in cui sentiamo tra lui e noi delle uguaglianze di natura nazionale, sociale, professionale o generalmente umana; ci è lontano nella misura in cui vanno al di là di lui, e di noi, collegandoci solo perché collegano in generale moltissime persone.

In questo senso anche nei rapporti più stretti entra facilmente un elemento di estraneità. I rapporti erotici respingono decisamente, quando sono nella fase della prima passione, tale pensiero generalizzante: si ritiene che un amore come quello che si sta vivendo non sia mai esistito, nulla è paragonabile né con la persona amata né con il sentimento che proviamo per questa persona. Un estraniamento inizia normalmente – se come causa o come effetto è difficilmente definibile – nel momento in cui nel rapporto svanisce il suo senso dell’unicità; uno scetticismo verso il suo valore in sé per noi si congiunge al pensiero che alla fine con esso si compirebbe solamente un destino umano generale, un avvenimento che c’è già stato mille volte, e che, se non si fosse incontrata per caso proprio questa persona, una qualsiasi altra persona avrebbe acquistato lo stesso significato per noi.

E qualcosa di ciò non può mancare a nessun rapporto per quanto stretto, perché ciò che è comune a due persone non è forse mai comune solo a esse, ma appartiene a un termine universale, che comprende tante altre cose, tante possibilità di uguaglianza; per quanto esse possano realizzarsi raramente, per quanto spesso noi possiamo dimenticarle, qua e là si introducono come ombre tra le persone, come una nebbia che sfugge a un tentativo di definizione, che prima dovrebbe coagularsi in una fisicità solida per potersi chiamare gelosia.

Forse in qualche caso si tratta della estraneità più generale, per lo meno quella più insuperabile, rispetto a quella causata da differenze e incomprensioni: esiste un’uguaglianza, un’armonia, una vicinanza, ma con il sentimento che questa non è proprietà esclusiva vera e propria di questo rapporto, bensì un elemento più generale, che potenzialmente vale tra di noi e per un numero indeterminato di tante altre persone e, perciò, non procura a quell’unico rapporto che si è realizzato alcuna necessità interna e esclusiva.

D’altra parte esiste una specie di «estraneità» in cui proprio la comunanza è esclusa sul terreno di un elemento più generale che include le parti: a questo proposito è, ad esempio, tipico il rapporto dei greci con il βαρβαρος, e tutti i casi in cui agli altri vengono negate le caratteristiche generali, sentite come propriamente e semplicemente umane. Solo in questo caso, il termine «straniero» non ha alcun senso positivo, il rapporto verso di lui è un non-rapporto: egli non è ciò che qui qui viene considerato un membro del gruppo stesso. Come tale egli è piuttosto contemporaneamente vicino e lontano, come è implicito nel fatto di fondare il rapporto su una uguaglianza soltanto generalmente umana. Tra quei due elementi si determina invece una tensione particolare, nel modo in cui la coscienza di avere in comune solo ciò che è generale accentua particolarmente quello che non è comune.

Ma nel caso dello straniero nei confronti del paese, della città, della razza ecc. non è di nuovo un qualcosa di individuale, ma è un’origine estranea, comune o possibilmente comune a tanti stranieri. Per questo gli stranieri non vengono sentiti neppure propriamente come individui, ma come stranieri di un certo tipo; l’elemento lontananza nei loro confronti non è meno generale di quello della vicinanza.

Questa forma è per esempio alla base di un caso così specifico come la tassa sugli ebrei nel Medioevo che veniva richiesta a Francoforte, ma anche altrove. Mentre la Beede pagata dai cittadini cristiani cambiava a seconda dello stato del patrimonio, l’imposta per ogni singolo ebreo era calcolata una volta tutte. Questa regolamentazione si basava sul fatto che l’ebreo aveva una azione sociale in quanto ebreo, e non come portatore di certi contenuti.

In materia fiscale, ogni altro cittadino era proprietario di un certo patrimonio e la tassa poteva seguire i mutamenti della sua condizione. L’ebreo però era in primo luogo ebreo e con questo la sua posizione fiscale acquisiva un elemento invariabile; questo fatto emerge in modo più evidente non appena cadono perfino queste definizioni individuali, la cui individualità era limitata tramite la rigida non-modificabilità, e gli stranieri pagano un’imposta personale uguale tutti.

Con tutta la sua aggregazione inorganica, lo straniero è però un membro organico del gruppo la cui vita unitaria include il condizionamento particolare di esso; solo che noi non sappiamo definire la strana unità di questa posizione se non dicendo che essa è composta in una certa misura sia di vicinanza che di lontananza, vicinanza e lontananza che in una qualche quantità caratterizzano ogni rapporto, e formano, in una proporzione particolare e con tensione reciproca il rapporto specifico e formale verso lo «straniero».

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