Giovanna Lo Presti, L’insegnante e il “senso dell’accovacciato”. Verso lo sciopero del 14 novembre

by gabriella

Traggo da La poesia e lo spirito la riflessione-réportage di Giovanna Lo Presti che ha il merito di cogliere con lo stesso colpo d’occhio la crisi abissale dell’istruzione pubblica italiana e il quadro dei suoi effetti sulla cultura professionale docente.

Come risalta dalla ricognizione della collega, la professione insegnante, da tempo in crisi di identità, sembra incapace di trovare nelle risorse culturali di cui pure rivendica il possesso, gli strumenti critici per reggere all’urto della decostituzionalizzazione della scuola e della campagna ideologica che l’accompagna.

stand-up-for-your-rightsRinunciando al proprio ruolo di intellettuale, l’insegnante medio è così divenuto incapace di cogliere i processi di disgregazione della scuola ma anche, conseguentemente, di pretendere il rispetto del suo status di professionista (come ama definirsi oggi).

Stand up for your rights! Dà un’occhiata alla realtà e sciopera il 14 e il 24 novembre.

Il “senso dell’accovacciato” e la “schiena dritta” di Giovanna Lo Presti

C’è stato il gioco delle tre carte. 1. “Sull’abrogazione della norma che prevedeva l’aumento dell’orario a 24 ore a parità di salario per gli insegnanti c’è stata una convergenza di tutto l’arco parlamentare”: Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura della Camera (qui). 2. “Non ci sarà nessun aumento dell’orario dei professori”. La rassicurazione arriva dal ministro Francesco Profumo (qui). 3. Nella serata del 9 novembre il Governo ammette che la norma contenuta nel ddl Stabilità sull’aumento dell’orario d’insegnamento è tutt’altro che superata (qui). Infine l’11 novembre anche la Commissione Bilancio abroga il provvedimento (qui). E’ il risultato della mobilitazione degli insegnanti. E il Governo risponde con gran faccia tosta: restituisce con una mano e toglie dall’altra! Infatti alla scuola verrebbe ancora ridotto il MOF (Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa): si finirebbe col bloccarla del tutto [bisognerà ricordarlo ai partiti che sostengono il governo e che hanno votato in estate la spending review, NDR]. Occorre scioperare il 14 e dire che il MOF non si tocca, occorre tenere alta la guardia fino all’approvazione definitiva della Legge di stabilità e rendersi conto che il provvedimento è solo accontonato. Sta al mondo della scuola cogliere questa occasione per una battaglia culturale nel Paese, con studenti e famiglie, che faccia vera informazione e riporti orgoglio e dignità all’insegnamento e alla scuola pubblica.

Verso lo sciopero del 14 novembre, assemblee nelle scuole

Sono reduce da un’assemblea di insegnanti di Torino: in questi giorni la mobilitazione è incentrata sul possibile aumento delle ore di cattedra da 18 a 24 settimanali, a parità di retribuzione – naturalmente. L’enormità del provvedimento ha destato dal loro torpore anche quei docenti che sino ad ora se ne sono stati tranquilli, e che, in questi ultimi anni, si sono limitati a mugugnare in sala insegnanti. Geremiadi infinite su condizioni di lavoro sempre più difficili, su retribuzioni sempre più insoddisfacenti, su tagli alle risorse sempre crescenti, su una precarietà destinata a divenire condizione stabile e generalizzata. Geremiadi che soltanto in modo episodico sono uscite dalla sala insegnanti per divenire protesta consapevole e pubblica.

E questo, a mio parere, è il primo problema della scuola italiana: sono troppo pochi gli insegnanti che, nell’ultimo quarto di secolo, si sono sentiti offesi e maltrattati in quanto lavoratori e che hanno abbandonato la lamentela per mettere in campo una protesta. La lamentela è quella di chi si limita a dire: “Ahi, mi hanno fatto male!”; la protesta è quella di chi individua responsabilità, valuta i danni e le conseguenze, indica possibili rimedi.

Bene, le 24 ore di Profumo hanno funzionato come acceleratore e nucleo di condensazione, hanno destato dal sonno molti docenti dormienti; che però già ieri, 5 novembre, in seguito a vaghe rassicurazioni di ritiro del terribile provvedimento, dimostravano di aver ripreso a dormire, visto che l’assemblea torinese era molto meno affollata rispetto a quella di quindici giorni prima.

Fra l’altro, la novità positiva del vedere finalmente un gruppo consistente di docenti precari impegnati in una protesta di ordine generale deve essere – purtroppo – qualitativamente ridimensionata dal fatto che i precari sono quelli che, di necessità, continuano a vedere l’innalzamento dell’orario a 24 ore come una minaccia concreta, destinata a riproporsi al primo rinnovo contrattuale. Quindi, mentre il docente a tempo indeterminato non si sente più il fiato sul collo, il precario – e giustamente – continua a vedere minacciata, in tempi brevi, la sua già incertissima possibilità di lavorare. Se a questo si aggiunge il pericolo imminente di un concorso che potrebbe ulteriormente compromettere la stabilizzazione lavorativa di persone vicine ai quarant’anni, si comprende come mai i precari siano ancora in prima fila contro la Legge di stabilità.

Il delirio di onnipotenza e la sindrome del primo della classe

Ieri, in quel teatro particolare che è un’assemblea pubblica, ho visto recitare da attori nuovi lo stesso copione frusto che, con poco successo di pubblico, viene messo in scena da anni. Due, in particolare, le tare genetiche dell’insegnante che si trasmettono di generazione in generazione e che anche ieri hanno trovato voce: il delirio di onnipotenza e la sindrome del primo della classe. Sono tare, bisogna dirlo, favorite da quell’ambiente lavorativo sui generis che è la scuola.

La prima, il delirio di onnipotenza, ha portato una giovane insegnante ad alzare la mano ed intervenire dicendo che non se la sente di scioperare il 14 novembre perché non vuole togliere ai suoi studenti la possibilità di imparare, non vuole negar loro quella lezione cui hanno diritto. Non so cosa insegni la signorina in questione, ma non credo si tratti di materia esoterica che abbisogni di complicati rituali che, se interrotti per una giornata, fanno fallire la trasmissione del prezioso sapere. Il grado di sopravvalutazione di sé e del proprio ruolo che un intervento di tal fatta esprime è spaventoso. Si tratta comunque – e per questo merita attenzione – di un intervento tipico: non so quanti colleghi ho sentito affermare che non potevano far sciopero proprio quel giorno o partecipare all’assemblea sindacale perché avevano l’interrogazione, il compito in classe, il recupero etc. etc. Sulla buona fede della maggior parte di loro non scommetterei nemmeno un euro, mentre la giovane insegnante mi pareva in buona fede, forse ancora per poco. [Se  per delirio di onnipotenza intendi l’individualismo sconsiderato di chi non si rende conto di operare e trarre vantaggio da una sinergia collettiva e dall’atteggiamento impolitico di chi non si render conto che responsabilizzarsi verso gli studenti oggi vuol dire prima di tutto scioperare per difenderla, allora sono d’accordo. NDR]

Veniamo alla perniciosa sindrome del “primo della classe, che è quella da cui senz’altro è afflitto il giovane collega che è intervenuto esortando tutti a individuare un metodo di valutazione che sceveri il grano dal loglio, il bravo dal cattivo docente. Siamo l’unico Paese europeo, proclama, che non ha ancora un sistema di valutazione efficiente! Non lasciamo in mano all’Invalsi (e qui ha ragione) la valutazione di studenti, insegnanti, scuole – troviamo noi un sistema che metta in rilievo il merito!

Argomentazioni apparentemente di buon senso, ma in realtà viziate dal fatto di aver introiettato, al limite in modo “migliorista”, la patacca ideologica della meritocrazia. Ammesso e non concesso che si riesca correttamente ad individuare gli insegnanti “migliori”, ci si deve chiedere quale effetto potrebbe avere, in un lavoro collettivo com’è quello dell’insegnare, il premio dato ai meritevoli. I quali meritevoli, va da sé, non potrebbero essere che una piccola parte della categoria. E degli altri, dei non meritevoli, cosa ce ne facciamo? Pensano, i “primi della classe”, che il premio al merito innescherebbe automaticamente un processo di emulazione dei meno bravi nei confronti dei più bravi? Pensano anche che, nel più endemicamente corrotto dei Paesi possibili, coloro che verranno identificati come “meritevoli” siano davvero i più bravi?

In ogni caso a me sorgeva spontanea una risposta da dare al giovane collega (che non ho dato, come non ho replicato alla crocerossina dell’insegnamento, onde evitare un inutile vespaio e sperando ancora in un esito positivo dell’assemblea): per milleduecento euro al mese chiunque accetti di entrare in una classe e qualunque cosa faccia, fosse pure l’evitare che gli studenti si azzuffino, è pagato troppo poco. Prima di passare a questioni di dettaglio, qual è quella dell’individuazione degli insegnanti “miglioripretendiamo, a gran voce, condizioni di lavoro dignitose e retribuzioni adeguate al compito delicato che ci tocca svolgere. Prima questo, poi, ragionando molto bene sulle modalità, quello. E’ una questione di priorità logiche: a nessuno verrebbe in mente di misurare le prestazioni di un centometrista dopo averlo malnutrito per mesi e costretto a gareggiare in un pantano. [sacrosanto: bisogna sempre ricordare a questi colleghi dalla memoria corta che oggi si pretende di valutare ciò che è stato tagliato, per organici e orario scolastico, tre anni fa e sta ancora tentando di riorganizzarsi. NDR]

Ultimi, ma non meno importanti, c’erano i numerosi teorici della “visibilità. Il rosario di iniziative snocciolate all’insegna della VISIBILITA’ è stato numeroso e presentato con un certo entusiasmo. Che questo sia il trionfo della spettacolarizzazione della vita, un combattere con le stesse armi del proprio avversario e sul suo stesso terreno, sembra essere una riflessione di pochi. Mettiamoci la maglietta verde, come i colleghi spagnoli! Saliamo sulla gru! Facciamoci vedere in piazza mentre correggiamo i compiti! Costruiamo una manifestazione simile a quella del “Se non ora quando”! Proprio l’esito di quella più che riuscita giornata, invece, ci dovrebbe portare a riflettere: cosa si è sedimentato, dell’enorme manifestazione delle donne, ad una settimana, ad un mese di distanza?

Non è la “visibilità” che va perseguitata ma la permanenza e l’allargamento della mobilitazione, il contagio positivo della protesta, l’espandersi a macchia d’olio dello scontento accompagnato dalla consapevolezza di ciò che significa, per un’intera società, la crisi dell’istruzione pubblica. Se la protesta si diffonderà, la visibilità verrà da sé. I lavoratori della scuola sono quasi un milione – ed accanto a loro, se la protesta sarà convincente, ci saranno molti studenti e molti genitori. Se una parte consistente di questi saranno per le strade e nelle piazze, fuori dai recinti scolastici, la visibilità sarà garantita.

Per l’istruzione in Italia si spende, grosso modo, un punto di PIL in meno rispetto ai principali Paesi europei: un punto di PIL vale 15 miliardi di euro, il doppio, cioè, degli 8 miliardi di euro che sono stati sottratti alla scuola dalla “riforma” Gelmini. Quindi, per allinearci con quell’Europa che tanto piace ai nostri governanti, lo Stato dovrebbe restituire alla scuola almeno 23 miliardi.

Scandalosa la condizione della scuola: parola di ministro

Spiace quasi ripetersi ma è notorio che gli stipendi degli insegnanti italiani sono bassi, anzi “scandalosamente bassi” per usare le parole di un ex ministro dell’Istruzione, Tullio De Mauro, che così si espresse, a suo tempo:

L’ho detto prima di entrare al governo e continuerò a dirlo finché avrò voce, con dati statistici alla mano: il livello delle retribuzioni degli insegnanti italiani è assolutamente scandaloso nel confronto internazionale; lo era prima e lo è tanto più negli ultimi anni, quando la mole di lavoro e anche l’impegno sono diventati enormi“.

Era il maggio del 2000.

Spiace ripeterlo, ma nei giorni in cui Profumo e il suo governo preparavano il lancio delle 24 ore a parità di salario, da più parti si commentava il rapporto Eurydice, che metteva in luce il sostanziale allineamento degli orari di lavoro dei docenti italiani rispetto ai loro colleghi europei.

Lo stesso rapporto Eurydice evidenzia anche due anomalie tutte italiane: la fortissima femminilizzazione della professione (il dato statistico relativo al 2009 è del 75, 8% di donne insegnanti, contro il 60% circa degli altri paesi europei) e l’età media molto alta degli insegnanti (il 57, 8% degli insegnanti delle superiori ha più di cinquanta anni, mentre soltanto lo 0,5% è sotto i trent’anni).

Mettiamo accanto a questi dati la riforma pensionistica Fornero e il futuro concorso a cattedre di Profumo – e ci viene voglia di esclamare, come quel personaggio de Il fu Mattia Pascal: “C’è logica?”. Se più della metà dei docenti delle superiori ha più di cinquant’anni, mediamente la “riforma” li terrà in servizio una decina d’anni; in che modo il governo prevede di stabilizzare le masse di precari che nella scuola lavorano da anni? Non certo attraverso un ridicolo concorso che, se mai passasse l’innalzamento a 24 ore, dovrebbe fare i conti con la cancellazione di almeno 24.000 posti di lavoro (e mi limito alle stime sindacali, che mi paiono piuttosto prudenti). Quindi 22.000 posti in più (quelli del concorso) e 24.000 posti in meno (quelli tagliati dalla Legge di stabilità): a che pro spendere quindi i molti soldi richiesti dall’effettuazione del concorso? C’è logica?

Sembrerebbe di no, ma temo che una logica ci sia: poiché si tratta di una logica semplice, sgradevole ed evidente, in pochi la vogliono vedere. Ce lo ha insegnato La lettera rubata – il miglior posto per nascondere qualcosa è quello in maggior evidenza. La logica, brutale, dell’articolo 3 della Legge di stabilità è la stessa che ha fatto sì che la politica scolastica in Italia, a partire dai primi anni Novanta, l’abbia fatta più il Ministero dell’Economia e delle Finanze che non il Ministero della Pubblica Istruzione.

Togliere ai poveri per dare ai ricchi

I primi anni Novanta sono quelli in cui vide la luce quella politica di concertazione che, complici gli imbelli sindacati firmatari dell’accordo [più complici che imbelli, NDR], è stata la principale causa di una clamorosa redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto. L’erosione continuativa dei redditi da lavoro dipendente ha inizio in quel momento; così come, parallelamente, ha inizio quella precarizzazione del lavoro di cui oggi vediamo gli ultimi, ma non ancora definitivi, esiti. È passata, sempre in quegli anni, la favola della bassa produttività dei lavoratori italiani, che ha retto nonostante le analisi volte a dimostrare il contrario, e cioè che, se il lavoro in Italia è meno produttivo che altrove, ciò dipende non dai lavoratori: la nostra classe imprenditoriale, sempre più avida, sempre più sfrenata ha preferito i guadagni facili della speculazione finanziaria agli investimenti in ricerca e in innovazione; il lavoro non è più stato considerato un valore sociale, ma una merce.

Da qui quella logica del lavoro usa-e-getta, che in prima battuta, è stata definita “flessibilità”, con gran lodi degli opinionisti e degli intellettuali di regime. Oggi i disastri della precarietà hanno rivelato il vero volto della “flessibilità”. Eppure, nonostante l’emergenza sociale costituita dai bassi redditi e dalla crescente disoccupazione (drammatica se tocca i più giovani, drammaticissima se tocca chi ha più di quarant’anni) la via che il nostro governo percorre è sempre la stessa: togliere ai poveri per dare ai ricchi.

A pieno titolo la questione scolastica si inserisce in questo disegno che ho tratteggiato. A cosa serve la scuola in una società civile? A trasmettere sapere a tutti i bambini, a tutti i ragazzi, a tutti i giovani. La scuola della Repubblica italiana, quella che dovrebbe rispettare il dettato della Costituzione, è una scuola fortemente egualitaria: i “capaci e meritevoli” vengono tirati in ballo, nella nostra Costituzione, soltanto per dire che, qualora siano privi di mezzi, lo Stato contribuirà a favorire la loro frequenza scolastica. Altro che l’inno alle “eccellenze” che oggi viene intonato da destra e da sinistra (intendo sinistra parlamentare, quella che, di sinistra, mantiene soltanto il nome, per giunta a mezzo servizio con il centro).

Per vocazione, la scuola che rispetti la Costituzione dovrebbe essere il primo, potente motore di mobilità sociale – ed una forte mobilità sociale non può che tendere ad una società di eguali. La parola “eguaglianza”, così carica di fascino per le masse popolari del Novecento ha oggi perso totalmente il suo appeal. “Diritti”e “giustizia sociale” sono, per le orecchie di molti, gusci vuoti, roba da idealisti. Il sapere è quella cosa con cui non ci si fa un panino, l’ha affermato, or non è molto, un nostro ministro. Insomma, il fronte dell’utilitarismo grezzo, del profitto immediato, della “modernità” assunta acriticamente come valore in sé ha vinto e stravinto.

Società di qualità = scuola di qualità

In una società sempre più ingiusta e diseguale non serve una buona scuola per tutti. In quel “per tutti” sta la differenza: a chi ci governa non interessa che la scuola svolga il suo compito istituzionale, interessa soltanto che restino in piedi strutture che abbiano come fine essenziale quello di contenere masse di bambini e adolescenti. Queste strutture possono anche essere fatiscenti ma, almeno per ora, non le si può abolire; le persone che in esse lavorano, sottopagate, devono essere sfruttate al massimo.

Un venti per cento di esse va tenuto in una condizione di precariato, così li si paga ancora di meno. Che si arrangino. Tanto l’opinione pubblica è contraria agli insegnanti; l’opinione pubblica continua a pensare che abbiano tre mesi di ferie e che lavorino 18 ore a settimana (ah! L’insulto dello scambio iniquo fra l’aumento di un terzo dell’orario di lavoro e l’incremento di quindici giorni di ferie!). Tagliamo, tagliamo pure sulla scuola – si dicono i demolitori – tanto un trenta per cento degli insegnanti che si dà comunque da fare e che ama il proprio lavoro senza condizione c’è; e c’è pure un trenta per cento di pelandroni, che però non osa ribellarsi; e poi il venti per cento dei precari ha già le sue gatte da pelare. Ci vogliamo preoccupare, si dicono nelle stanze del MPI e del MEF, di un potenziale venti per cento di cani sciolti, che ragiona con la propria testa e che proprio per questo non riuscirà ad aggregare una protesta decorosa? Le percentuali precedenti, questa volta me le sono inventate io ma penso abbiano qualche attendibilità.

Il corpo mastodontico della scuola italiana non si muove perché le sue parti ritengono di avere esigenze diverse le une dalle altre: e non si riflette sul fatto che la malattia che ha aggredito la scuola italiana è gravissima. E molti, troppi insegnanti sono ancora contenti di lavorare nella propria “classetta”. Ma presto anche la parte “sana” comincerà a soffrire, perché, mi ripeto, nel progetto sociale che le classi dirigenti stanno mettendo in piedi, una buona scuola per tutti non serve, non è funzionale al sistema, è anzi pericolosa. Anche l’operaio vuole il figlio dottore, si diceva in una canzone d’altri tempi. Chi ci governa vuole dire basta a questa confusione: anzi, vuole far sì che quel figlio dell’operaio divenuto dottore non abbia la possibilità di far studiare il suo, di figlio. La logica- semplice, chiara, autoevidente – è quella di ridurre alla subalternità una massa popolare vastissima, sempre più vasta.

Per questi motivi il governo “tecnico” non è in grado di spiegare come potrà incrementare l’occupazione giovanile e, contemporaneamente, tenere al lavoro gli ultrasessantenni e bloccare il turn over nel pubblico impiego; né ci sa dire come “rilancerà l’economia” se i redditi delle classi lavoratrici vengono erosi progressivamente, né ci può chiarire come, spendendo di meno per l’istruzione o per la sanità, tali servizi possano migliorare. Non siamo di fronte ad inspiegabili arcana imperii, la cui comprensione sta fuori dalla portata di un comune cittadino; abbiamo, semplicemente, a che fare con una banda di grassatori, che tiene il Paese sotto scacco dichiarando ossessivamente che, se non fossero state fatte scelte rigorose ed amare saremmo finiti come la Grecia. Gli unici tutelati sono coloro che fanno parte delle classi privilegiate – questa è la rigorosa e amara verità. Ed è a questo stato di cose che la protesta dei lavoratori della scuola e degli studenti è chiamata ad opporsi.

Il senso dell’accovacciato

C’è un breve racconto di Lucio Mastronardi, pubblicato nel 1975, che si intitola L’accovacciato. Son tre pagine, all’altezza di quelle memorabili e caustiche del Maestro di Vigevano, in cui si fa lo sberleffo alla “scuola attiva”, al subalterno cinismo della classe docente, alle anguste smanie pedagogiche di dirigenti che si battono per l’“innovazione”. Per chi conosce la scuola e i suoi meccanismi sono pagine che danno da pensare: com’è possibile che la scuola italiana dei primi anni Sessanta presenti le stesse tare della scuola contemporanea?

Torniamo a L’accovacciato: la voce narrante è quella di un giovane maestro che insegna nella scuola in cui è stato studente. Il suo vecchio maestro ha scritto un libro, la sintesi di lunghi anni di lavoro, ed ha deciso di presentarlo ai colleghi nel corso di un “cenacolo pedagogico”. Il vecchio maestro ha più di quarant’anni d’insegnamento:

È un uomo che vive per l’infanzia. Oltre a fare scuola e doposcuola e ripetizioni, ha in piedi parecchie iniziative: filodrammatiche, giornaletti, bar dei piccoli […].

Al momento di presentare il suo libro ai colleghi, afferma di non voler lodi ma “una critica costruttiva”. Ma le lodi giungono generose finché arriva il turno del direttore. Le parole sono pietre:

Per me il suo libro è brutto. Ci manca il senso dell’accovacciato: un’opera dell’infanzia che manca del senso dell’accovacciato è un’opera fallita.

Rapida conversione di parere:

Quello che volevo dire! Mormorarono parecchi maestri.

Il vecchio maestro si difende: ma no, il

senso dell’accovacciato c’è, si leggano bene i capitoli dieci, undici, dodici…

Lo attacca impietosa una vecchia maestra:

cosa ci si può aspettare di buono da un socialista?

NO! non sono socialista, sono socialdemocratico – dice il vecchio maestro.

Non si fa politica qui! – si allarma il direttore.

Alla fine il decreto è inappellabile: anche se il direttore lascia tutti liberi di leggere il libro in classe nessuno lo vuole più leggere: che valore ha un libro in cui manca il “senso dell’accovacciato”? Non lo vuole leggere ai bambini nemmeno il giovane maestro:

“Mentre camminavamo verso il bar, (…) il mio maestro mi diceva: – Neanche tu… Me la sarei mai aspettata da te”.

Lo sventurato risponde con una frase che ho sentito ripetere le mille volte da tanti colleghi, quando si trattava di prendere posizione, di scioperare, di ragionare con la propria testa:

Perché non sono di ruolo…

Non se la prendano i colleghi precari – la figura peggiore ce la fanno i maestri di ruolo, così insipienti e subalterni, pronti ad accettare per buona la prima scempiaggine pseudo-pedagogica, anche quando si presenta in forme ancora più ridicole del pur ridicolo “senso dell’accovacciato”. E ciò che vale nella finzione letteraria è purtroppo vero anche nella vita reale.

Non è mai tardi per inaugurare la linea del giusto orgoglio del proprio lavoro, nella consapevolezza che condizioni di lavoro pessime per noi sono condizioni di studio pessime per i nostri studenti e che, quindi, la nostra lotta ha una forte vocazione sociale. Ha ragione George Steiner, quando afferma che una società che non fa onore ai propri insegnanti, come è quella basata sul profitto sfrenato, è una società difettosa. Siamo ancora in tempo – c’è più tempo che vita – a gettare alle ortiche ogni passato, presente, futuro “senso dell’accovacciato” e a reclamare, con la schiena dritta, una scuola migliore – che è poi come dire una società più giusta.

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