Il bullismo

by gabriella

Il bullismo è un fenomeno sociale che solo di recente ha attirato l’attenzione dei ricercatori.

In particolare, nelle scuole inglesi il fenomeno è monitorato dagli anni ’80.

Con il termine bullismo, dall’inglese bullying (prepotenza, vessazione) si identificano tutti quegli atti che mirano deliberatamente a far male o a danneggiare un coetaneo e che si ripetono nel tempo, protraendosi per settimane, talvolta mesi o anni

Indice

1.  Identikit del fenomeno
2. Il bullismo per la psicologia
3. Il profilo psicologico del bullo: gli esempi deamicisiani di Franti e Maria Vinini
4. Il bullismo come fenomeno sociale

 

 

1. Identikit del fenomeno

Che cos’è

Le caratteristiche dell’azione del bullo sono:

  • L’intenzionalità della condotta vessatoria: il bullo agisce deliberatamente con la precisa finalità di arrecare danno e procurare sofferenza fisica o psicologica, alla vittima;
  • La persistenza nel tempo di tali atti: sebbene anche un singolo episodio grave possa essere considerato una forma di bullismo, solitamente le prevaricazioni sono frequenti e ripetute;
  • L’asimmetria di potere: tra il soggetto bullo e la vittima intercorre una relazione asimmetrica, all’interno della quale il bullo mantiene stabilmente una posizione up, la vittima rimane down, senza avere la forza di reagire per porre fine alla situazione di disagio.

 

Come si manifesta:

  • Bullismo fisico: colpire con pugni e calci, appropriarsi degli effetti personali di qualcuno o danneggiarli;
  • Bullismo verbale: deridere, insultare, prendere in giro ripetutamente qualcuno, fare affermazioni razziste;
  • Bullismo indiretto: diffondere pettegolezzi fastidiosi o false dicerie sul conto di qualcuno;
  • Bullismo relazionale: escludere uno o più coetanei dai gruppi di aggregazione.

 

2. Il bullismo per la psicologia

L’uso scientifico del termine “bullismo” è stato introdotto in Svezia, nel 1972, nell’ambito di una ricerca sull’aggressività, con significato del tutto analogo a quello di mobbing.

cutrettola

Il termine mobbing (dall’inglese mob, folla), coniato nel 1962 da Lorenz nel contesto della nascente etologia, indicava

l’attacco collettivo di una moltitudine di animali più deboli nei confronti di un animale più forte, il predatore.

Lorenz, insomma, ha utilizzato il temine per riferirsi a un tipo di comportamento animale, in particolare a quello di un piccolo uccello, la cutrettola, che attacca in gruppo per allontanare un uccello più grande, il falco, dal proprio territorio.

Il termine ha dunque acquisito maggiore potenza metaforica per esprimere con tutta la forza dell’immagine dell’assalto e dell’accerchiamento in gruppo, la situazione di terrore psicologico dovuta all’isolamento della vittima di fronte all’ostilità degli altri.

bulli

bullismo, in tanti contro uno

E’ importante sottolineare la qualità di fenomeno relazionale del bullismo.

Il bullo infatti non agisce isolato, ma può contare sulla cooperazione diretta dei compagni, o quanto meno sul loro “sostegno” indiretto, spesso espresso attraverso un tacito consenso o la più totale indifferenza che, tanto quanto la partecipazione attiva, hanno l’effetto di mantenere nel tempo i comportamenti bullistici.

Nella dinamica del bullismo possiamo così individuare diverse figure che, attivamente o in maniera passiva, partecipano alle violenze.

Oltre al bullo e alla vittima troviamo i gregari, ossia gli “aiutanti” del bullo che insieme a lui o su suo mandato mettono in atto le violenze, gli spettatori e gli esterni, quella maggioranza silenziosa che non interviene a porre fine alle aggressioni, e il difensore, generalmente uno studente nella classe che, in maniera isolata, sostiene e cerca di proteggere le vittime (da Atti del seminario internazionale di Cagliari, 14-15 nov. 2008., citato da G. di Michele, La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla, Roma, Minimum Fax, 2010, p. 224).

De Amicis, la classe di Enrico

Franti e il maestro

Come indica la genesi della terminologia scientifica, il bullismo riguarda, perciò, sempre il gruppo e il suo funzionamento.

È erronea, perciò, l’idea che il bullismo sia una forma di violenza inflitta da un individuo o da un piccolo gruppo in un contesto amicale o a una classe scolastica percepiti come armonici e innocenti.

Il bullismo riguarda più la classe di Enrico che Franti, mentre lo stesso Franti (a differenza di quanto pensava De Amicis) non è “cattivo”, è il cattivo.

Ciò significa che il bullismo non é il comportamento di un cattivo soggetto, ma il comportamento di qualcuno che in gruppo e davanti al gruppo si comporta da cattivo soggetto.

Qui la celebre scena di bullismo descritta da De Amicis in Cuore. Utile, per approfondire le rappresentazioni letterarie del bullo, da Dickens a De Amicis a Musil e molti altri, il testo di E. Badellino e F. Benincasa, Bulli di carta, Torino, SEI, 2010 [“tutto solo in fondo al banco”, p. 38; “Non sono stata io”, p. 49].

 

3. Il profilo psicologico del bullo: gli esempi deamicisiani di Franti e Maria Vinini

Edmondo de Amicis offre diverse rappresentazioni del bullo in Cuore, 1886 (Franti) e in Un dramma nella scuola, 1892 (Maria Vinini).

Nel caso di Franti, De Amicis non si accorge che Franti è il cattivo, cioè un individuo che nel gruppo (la classe di Enrico) gioca un preciso ruolo, per ragioni che l’autore non indaga [si veda la critica all’assenza di spessore socio-psicologico del personaggio di Franti nel celebre Elogio di Franti inserito da Umberto Eco in Diario minimo].

L’approfondimento del profilo psicologico del bullo interviene invece con la pubblicazione, sei anni dopo, del racconto Un dramma nella scuola, nel quale la bulla, Maria Vinini, viene descritta come una ragazza di rara crudeltà, incapace di empatia e soggetta ad attacchi di autentica furia quando contrariata.

La sociopatia e l’incapacità di Maria di sopportare qualunque frustrazione (il richiamo della maestra, il rimprovero della direttrice) hanno chiaramente per sfondo la sofferenza psicologica della ragazzina trascurata che, nel caso in questione, assume i tratti di un autentico disturbo narcisistico di personalità.

Emerge così dal caso di Maria, l’affinità psicologica che lega il bullo al bullizzato, quella fragilità e sofferenza emotiva che mette in comunicazione il prepotente che si sente un niente [vedi Loser] e il ragazzino fragile che diventa facile bersaglio del bullizzamento.

In questo contesto, Maria è un caso estremo di disagio psichico, ma non tutti i bulli soffrono di disturbi gravi della personalità, più spesso i bulli sono adolescenti insicuri, emotivamente immaturi ed incapaci di considerare empaticamente la loro vittima e di rendersi lucidamente conto delle conseguenze dei loro comportamenti.

La capacità di provare sentimenti, infatti, non è innata come si crede, ma ha bisogno di essere educata e laddove questo non avviene non si sviluppa adeguatamente [si veda U. Galimberti, Professore, ma cosa me ne faccio di Dante?]

Inoltre, considerando isolatamente il bullo e dimenticando il ruolo del gruppo davanti al quale il prepotente mette in scena la rappresentazione di sé che lo fa sentire più forte, si dimentica che il bullismo non è una problematica psicologica, ma riguarda invece la psicologia sociale e lo studio delle dinamiche di gruppo. Togliendo il gruppo siamo infatti di fronte all’aggressione o alla semplice violenza personale, non al bullismo.

4. Il bullismo come fenomeno sociale

Poiché il bullismo è un fenomeno sociale, la stabilità nel tempo dei luoghi dove si generano le relazioni tra le persone è una condizione essenziale per la sua emersione: uno dei contesti in cui, per definizione, queste condizioni sono presenti, è la scuola.

La coabitazione prolungata in una classe o in un istituto favorisce la creazione di ruoli sociali definiti e distinti per bulli e vittime. Per ruolo sociale di intende un modello di comportamento, stabile e ripetuto, che attua le aspettative sociali.

Perché esiste il bullismo? Sposo interamente la risposta offerta da Girolamo De Michele in La scuola é di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla(2010):

Il bullismo esiste perché nella società esistono relazioni che generano violenza, aggressività, conflitto: perché tali relazioni hanno una loro ragione di esistere o perché non ci sono strumenti educativi adeguati, perché la famiglia, come istituzione, fatica a svolgere il proprio compito educativo, o forse perché tale ruolo della famiglia del passato è frutto più di un abbaglio illusorio che di una reale rappresentazione di quello che la famiglia era.

Ma soprattutto perché la precarietà della condizione sociale che viviamo da anni produce una precarietà affettiva ed emotiva che si manifesta sotto forma di ansia, panico, insicurezza, incapacità di rapportarsi al futuro: le “passioni tristi identificate da Miguel Benasayag e Gérard Schmidt (L’epoca delle passioni tristi, 2003, Milano, Feltrinelli, 2004) due psichiatri che operano nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza. E questa instabilità emotiva, questo panico sociale, questo perenne perturbamento si scarica in forme aggressive e violente: ‘il carattere ansiogeno, i passaggi violenti all’atto (compresa, naturalmente la violenza su di sé), un sentimento di emergenza, di crisi, di destabilizzazione. Ma, al tempo stesso, come ignorare il fatto che nella nostra società si sta imponendo un vero e proprio quotidiano della precarietà?’

In conclusione, il bullismo non è un fenomeno recente, ma ci sono epoche nelle quali è più difficile crescere e conquistare la maturità emotiva. La nostra sembra essere una di queste.

Per queste ragioni, la prevenzione o il contrasto del bullismo a scuola rappresentano una risorsa oltre che una necessità.

Ci permettono infatti di affrontare riflessioni sull’uso del potere e della forza fisica, sul senso di solidarietà verso i più deboli e sulla capacità di opporsi al più forte, sulla capacità di far valere idee di giustizia anche se minoritarie (elaborato da stopalbullismo.it). Come osservava Dickens,

«in quei piccoli mondi in cui i bambini vivono la loro esistenza, nulla viene percepito e avvertito più acutamente dell’ingiustizia»,

tocca dunque alla scuola parlarne.

La prima inchiesta italiana

La prima inchiesta in Italia sul bullismo. Tratto da: http://www.edscuola.it/archivio/statistiche/bullismo.html

Fa scrivere al bullo “sono un deficiente”. La punizione al bullo e la sentenza della Cassazione

La cassazione: al bullismo non si può rispondere col bullismo

Il “bullismo” non si combatte con una analoga prova di forza da parte dell’insegnante. È questo il senso della sentenza 34492 di oggi della Cassazione (qui il testo della sentenza) che ha confermato la condanna alla reclusione, per abuso dei mezzi di correzione, nei confronti di una professoressa di una scuola media statale di Palermo, che, per punire un alunno di 11 anni, l’aveva costretto a scrivere per cento volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”. Così facendo, però, secondo gli ermellini non si fa altro che “rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere”.

Assolta in primo grado: comportamento “adeguato”

In primo grado l’insegnate era stata assolta perché il fatto non sussiste. Secondo il giudice, infatti, il comportamento della insegnante fu “adeguato” e motivato con l’intento di interrompere, con un “intervento tempestivo ed energico”, la condotta “bullistica” dell’alunno che avrebbe tenuto un “comportamento derisorio ed emarginante” verso un compagno di classe.

In Appello scatta la condanna ad un mese

Di tutt’altro avviso la Corte d’Appello di Palermo che ricostruendo la vicenda ha escluso il comportamento bullistico ed anche il “tentativo di emarginazione”, concludendo che l’insegnate aveva manifestato “un comportamento afflittivo ed umiliante, trasmodante l’esercizio della sua funzione educativa” costringendo il minore, davanti a tutta la classe, “ad insultarsi” e “imponendogli di far firmare il compito a genitori”.

Una nuova sensibilità

Una tesi sposata dalla Cassazione che, richiamando la riforma del diritto di famiglia e la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del bambino (ratificata nel 1991 dall’Italia), ricorda come il termine “correzione” vada reinterpretato nel senso di “educazione” del bambino, per cui nel processo formativo va eliminato “ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo ed al risultato”.

La violenza non è mai educativa

Dunque, “Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi”, afferma la Cassazione, “e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti”. E sia perché – prosegue la sentenza – “non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono”.

Perciò , la risposta della scuola deve essere “sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno” e in ogni caso “non può mia consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore”.

La lesione va sempre provata

I Supremi giudici, però, hanno concesso alla prof. uno sconto di pena di 15 giorni – rispetto alla condanna d’appello pari a 30 giorni di reclusione – eliminando l’aggravante di aver provocato nell’adolescente un “disturbo del comportamento”, ipotesi avanzata dallo psicologo, ma non provata con certezza.

 

Massimo Gramellini, Il deficiente, La Stampa, 11 settembre 2012

bart_simpsonD’impulso ho reagito con stizza alla condanna a quindici giorni di carcere, confermati dall’onnisciente Cassazione, di una maestra di Palermo colpevole d’avere piazzato un bulletto a scrivere cento volte alla lavagna come Bart Simpson «Io sono un deficiente».

Il bulletto non gode delle mie simpatie. Ha schernito e irriso un compagno fragile e per di più ha scritto «deficiente» senza la «i»: non una, ma cento volte, a conferma che tracotanza e ignoranza si tengono sempre la mano. Poi però ho cambiato idea.

Intendiamoci. La maestra continua a godere della mia umana comprensione e la pena comminatale è spropositata. Eppure i suoi metodi mi sembrano ispirati alla stucchevole legge dell’occhio per occhio, celebrata in migliaia di film e chiacchiere da bar, secondo cui l’unico modo per riequilibrare un’ingiustizia consisterebbe nel compierne un’altra.

Che cosa si spera di ottenere, umiliando un balordo che ha appena umiliato qualcun altro? La sua resa momentanea e puramente tattica, determinata dai rapporti di forza. Ma è una ben piccola vittoria. Perché le umiliazioni, lungi dal guarire i balordi dalla loro balordaggine, finiscono per acuirne quel sordo rancore verso il mondo che è alla base dei comportamenti asociali, ammantandolo oltretutto di vittimismo. Una visita a un ospedale infantile o mezza giornata di lavoro manuale può raddrizzare un cuore storto meglio di una frase scritta su una lavagna. E se poi, come spesso capita, i genitori del bulletto trovassero da ridire sulla punizione, casomai alla lavagna sarebbe giusto mandare loro.

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