Pablo Pineda e l’educabilità dei ragazzi disabili

by gabriella

Pablo Pineda

Pablo Pineda è nato a Malaga nel 1974

Pablo Pineda è un insegnante a attore spagnolo nato nel 1975 con la sindrome di Down. E’ stato il primo ragazzo europeo con Trisomia 21 a laurearsi (in Scienze della formazione).

Con il video Si podemos, girato con il gruppo di ragazzi down dell’Obra social di Madrid, la sua storia ha superato i confini della Spagna. Dall’età di sedici anni conduce trasmissioni televisive, rilascia interviste, gira film. La sua interpretazione in Yo tambien, una storia d’amore tra un ragazzo down e una ragazza normodotata, è stata premiata al Festival internazionale del film di San Sebastiàn. [Sottotitoli miei, traduzione di Greta Dormentoni. Attivarli cliccando sull’icona ]

In questa intervista, pubblicata da El Pais, il 12 dicembre 2003 e tradotta in italiano dal blog di Gigi Cortesi, Pablo Pineda ricostruisce la propria infanzia e la propria educazione. Il sevillano, ora trentanovenne, noto per essere stato il primo portatore di sindrome di Down a laurearsi, vi descrive la sua lotta per l’abbattimento del pregiudizio e dell’esclusione verso i ragazzi down, combattuta con il coraggio e l’abnegazione di chi ha qualcosa di più importante di se stesso a cui pensare [per approfondire, L’intelligenza].

La prima notizia che la mia era la sindrome di Down la ebbi a sei o sette anni. Un professore universitario che portava avanti il Progetto Roma¹, don Miguel Garcia Meleto, nell’ufficio del rettore mi domandò: ‘sai che cos’è la sindrome di Down?’. Io, innocentemente, gli dissi di si, anche se non ne avevo idea. Lui lo notò e si mise a spiegarmi che cosa fosse, anche se non era un genetista, ma un pedagogista. E io, siccome sono puntiglioso e ho una certa acutezza mentale, gli chiesi: ‘don Miguel, sono stupido?’ .

D.  Perché glielo domandò?

Non so. E’ difficile saperlo. Chissà, se a sei anni ti associano ad una sindrome, tu lo associ al fatto di essere stupido o no. Lui mi disse che non ero stupido, e io gli domandai: “potrò continuare a studiare?”. Lui mi disse: “Si, certo”. Poi cominciò il processo della strada ; i bambini cominciarono a dirmi: “Poverino è malato”. E io mi infuriavo, perché non ero malato.

D. Però si vede che il suo viso è diverso.

Questo si. Che avevo gli occhi più distanti, che le mani non erano uguali. Non avevo mai visto altri bambini con la sindrome, però avevo la pulce nell’orecchio. Avevo una certa inquietudine. E questa cosa della sindrome che caspita sarà? In casa i miei genitori non avevano mai commentato nulla, però dopo quella prima notizia domandai a mia madre: “E’ vero che sono Down?”.

Ero con mio fratello Pedro, il maggiore, che a quell’epoca studiava medicina, e cominciò a spiegarmi  cosa fosse la genetica, i geni; così mi resi conto. E tornai a fare loro la stessa domanda che feci al professore: “Posso continuare a studiare?” “Certo”, dissero tutti e due, “senza problemi”. Mi piaceva stare a scuola con i miei compagni. Quindi per un certo periodo, non mi interessò saperne di più; fino a quando studiando per diventare insegnante, a 21 anni, entrai nell’ambito dell’educazione speciale: lì mi rendo conto di che cosa è questo handicap. Anche se nel descriverla, i libri dicevano che era una malattia, parlavano della cultura del deficit, e di tutti i problemi che ne derivano. La sindrome era descritta come qualcosa di molto negativo. Quando incominciai a leggerlo mi dissi: io non sono così.

D. Pensò che fosse una sindrome di Down un po’ speciale?

Esattamente. Pensai anche che forse ero io speciale, e che altri affetti da sindrome di Down che avevo conosciuto, nemmeno loro erano come li descrivevano i libri. La letteratura ci descrive peggio di come siamo e ci esclude. Circa la capacità motoria, ti spiegano tutto ciò che dovrebbero invece trattare come capacità mentale. Il mentale si vende sempre peggio del corporeo. Dicono che siamo deficienti, che siamo ritardati. E che non c’è nessuna soluzione, il che è la cosa peggiore. Si limitano alle alterazioni visibili e associano il mentale con la pazzia, perché una volta non si distingueva tra deficienza mentale e malattia mentale. E tuttavia si confonde…Così quando la gente vede un handicappato mentale dice: questo è pazzo. Handicap si associa alla pazzia.

D.  Le costava studiare più degli altri?

No. Bè, c’è da dire che i numeri e la matematica non mi piacciono per nulla; però ciò non è qualcosa di straordinario, né caratteristico della sindrome di Down.

D.   Suppongo che l’adolescenza dovette essere una tappa più dura che l’infanzia.

Sono passato per periodi differenti. Quando incominciai, in prima liceo, nessuno si aspettava un affetto dalla sindrome di Down nell’istituto, e la gente mi guardava come dicendo : che ci fa questo, qui. Fecero una cosa illegale, i professori dovettero votare per la mia ammissione nell’istituto. Così che fu duro. Però poco a poco mi levai  quell’aurea di magia o di tenerezza e conquistai i miei compagni, perché ero ben cosciente che dovevo farlo. Con i compagni sapevo che dovevo agganciarli parlando, mettendomi in mezzo a loro e fu ciò che feci. E reagirono molto bene; la prima liceo fu una bella esperienza. E i professori, al di là del fatto che avessero votato, li conquistai quasi tutti, anche se fu per la didattica. Ponevo domande in classe, mi interessavo, e ciò li destabilizzava. Poi, in seconda, fu il peggio. Chissà perché i bambini di 14 anni continuano ad essere bambini e invece quelli di 16 fanno i duri, sono crudeli, e allora cominciarono a guardarmi di traverso, a non parlarmi. La vita era impossibile.

D.  E che fece?

All’inizio ne fui sorpreso. Mi scoraggiai e pensai di gettare la spugna. Non sapevo nemmeno come raccontarlo ai miei genitori, così che tacqui e tenni tutto per me. Quelli della prima erano professori giovani, ma in seconda erano più anziani e non credevano in me. Dicevano che quel ragazzo non poteva imparare, che non sapevano come fare per insegnarmi, che non avrei imparato nulla, che la matematica mi costava tantissima fatica. Non vedevano nessuna luce ed io cominciai a deprimermi.

D.   Che materie preferiva?

– Adoravo la storia e le scienze sociali. Leggevo riviste. E mi piaceva pure il greco. Il professore era molto giovane, appena arrivato nell’istituto, e mi piaceva tantissimo come insegnava.

D.  Siamo arrivata alla terza. Che succede allora?

Che tutto ritorna positivo. Ho molti amici, facciamo dei viaggi.

D. Quando si accettò del tutto?

Presto. Diedi conferenze, e in una di quelle, quando avevo 14 anni, una signora mi chiese se mi sarei mai sottoposto alla chirurgia estetica per cambiare i tratti del mio volto. E le risposi: “No, ci sono molto affezionato”. E rincarai:  “Non le piace come sono? Sono stato molto esigente con me stesso”.

Uno dei problemi dei Down è che si tende a trattarli come bambini. Quella lotta per crescere, a volte si deve fare contro la propria famiglia. Per esempio, il mio fisico è lo stesso da anni, non vedo cambiamenti in me. Quando mi chiedono quanti anni ho e rispondo 29 dicono che non li dimostro. Ciò mi dà fastidio. So che è per il fisico, ma non mi piace che mi trattino come un bambino; è molto difficile però. E’ vero che la gente pensa che sei un bambino per sempre. Forse a qualche handicappato succede. Preferiscono non crescere, come tanti altri bambini, ed essere Peter Pan per non confrontarsi con un mondo che suppongono ostile. A me non successe. Quando avevo 14 o 15 anni era tanta la mia autostima che tutto ciò che fosse autocommiserazione non mi piaceva per nulla. Volevo uscire da tutto ciò, dimostrare chi ero e che lo potevo fare.

D.  In realtà, la sua vita ha dovuto essere difficile, bisogna essere un bravo guerriero per affrontarla.

Si che è duro, se non altro per dimostrare sempre che puoi. Che puoi fare questo o quello, che puoi viaggiare. E’ molto faticoso, ti sfinisce. A volte pensi che i pregiudizi siano diminuiti, ma è solo che sono più sotterranei. Al liceo ci fu una rappresentazione di fine anno. Le ragazze si accaparrarono tutti i premi, meno due che furono uno per un altro ragazzo e l’altro per me. Nel discorso finale il preside disse: “E ora vi parlerò di un ragazzo che tutti conoscete, che ha fatto un grande sforzo, al quale però nessuno ha regalato nulla. Questo ragazzo si chiama Pablo Pineda”. Quando pronunciò il mio nome, tutto il teatro si alzò in piedi ad applaudire. Rimasi di sasso.

D.  A cosa le serve questa attenzione che risveglia?

Per me non è nulla, per la collettività tutto. Lo faccio per la collettività. Debbo farlo, mi sento debitore di questa collettività fin da quando ero bambino. Fin dal programma “Oggi parla Pablo”, quando avevo 8 anni e apparsi per la prima volta in televisione, e là dissi che bisognava far frequentare la scuola ai Down con gli altri bambini e lasciarli giocare insieme durante la ricreazione.

D. E’ curioso che nel tempo lei si sia diventato la stella della sua famiglia. Si lo è. Ho due fratelli che percorrono carriere universitarie, e io che sono il minore e Down… Io non credo nel destino e tutto il resto; però, senza dubbio, fin da piccolo mi resi conto che il fatto di essere segnato dalla sindrome di Down mi obbligava a qualcosa. Non essere normale ti segna, la società ti domanda qualcosa per quello. A me è successo.

D.  Una signora molto informata sulla sindrome di Down mi diceva che non tutti i Down sono uguali, e questo spiegava perché lei ha potuto studiare.

Questo è un discorso che non sta in piedi. Sì, perchè risulta che le differenze non si spiegano geneticamente, si spiegano culturalmente. Lì è dove si evidenzia la differenza tra un Down che può arrivare a studiare e un altro no. Invece ci dividono in bambini-mosaico, o Down per traslocazione, o puri; queste sono le tre classificazioni di Down esistenti, geneticamente parlando.

D. La signora di cui le parlavo mi disse che per essere arrivato all’università lei deve essere mosaico.

Sì, o bassorilievo…io sono puro, sono normale. Dicono che i mosaico hanno più capacità che gli altri, ma risulta che io non sono mosaico…Così che il mio caso lascia ben chiaro che il fatto genetico non spiega la differenza. Me l’hanno detto più volte che debbo essere mosaico, che non si spiegano in altro modo la mia riuscita. A volte la comunità scientifica e la gente sono ottusi, e non capiscono nulla di ciò che la genetica non spiega.

D.  Ma ciò non è ammettere, a priori, che non c’è quasi nulla da fare per voi?

Certo, come se non potessimo essere stimolati, come se non potessero insegnarci. In questo modo non si assumono le loro responsabilità. E come lo spiegano? Dicendo poi che quello era mosaico. Un altro argomento è dire che la mia sindrome è lieve, o che sono al limite. Invece no, sono puro.

D.  La prima volta che parlai con sua madre mi resi conto che non era una madre comune.

Non lo è. Nulla di tutto ciò sarebbe successo se lei non avesse agito come fece. E da una madre non comune nasce un Down che per molti non è comune.

D.   Ma nell’ambito del Progetto Roma, che è europeo, quanti sono andati all’università come lei?

Solo io. Ma anche fra i normali ci sono differenze e non tutti arrivano all’università, lo stesso succede a noi. Ognuno arriva dove arriva. E ciò mi da una responsabilità molto grande. Qualche tempo fa, dei genitori che andavano ad un congresso internazionale del Progetto Roma mi dicevano: “Pablo tu sei un pilastro fondamentale del progetto”. Me lo hanno detto molte volte, che ho segnato un percorso.

D.   I suoi genitori l’hanno spinta perché facesse le cose da solo, consultarono i medici quando era piccolo?

Quando cominciammo, più che consultare i medici, erano loro che dicevano ai medici che cosa bisognava fare. Essi dicevano, questo bimbo non potrà imparare che le cose più semplici e i miei genitori non gli davano retta: tu occupati delle tonsille, che io mi occupo della sua educazione. Mai credettero che non potessi imparare, mai credettero al mio medico, e con tutto che era molto buono e mi voleva molto bene, ma la sua mentalità era di quell’epoca. I miei genitori pensarono sempre che dovevo essere autonomo e mi educarono per quello. Don Miguel Lopez Meleto è stato uno stimolo. Quando ero bambino, mi faceva delle piccole cattiverie. Dirmi per esempio che sarebbe venuto a prendermi e poi non venire. Lasciandomi solo, per vedere che facevo. Pensa che tipo. E io, oltre a maledire tutta la sua parentela e svenire dalla fame, dovevo arrangiarmi, prendevo un autobus.. Che avventura. Tutti, i miei genitori, mio fratello, mio zio, facevano i turni per spiarmi dietro un giornale, come dei detectives. Pure quando cadevano quattro gocce e domandavo a mio padre di accompagnarmi a scuola, mi diceva: “Mettiti l’impermeabile e vattene in autobus”. I miei genitori sono stati forti, non hanno mai ceduto, non gli ho mai trovato un punto debole.

D.  Non è stato quindi superprotetto.

Ebbi però una figura protettrice. Era mia zia Encarna. Non aveva figli e mi amava molto. Fino a farmi male, nel senso che quando andavo a casa sua mi spalmava il burro sul pane, per esempio. Se mi sapeva solo in casa, mi diceva di andare a dormire da loro, non pensava che potevo dormire da solo. Quando morì fu una mazzata, però fu anche un momento di riflessione; smettevo di avere qualcuno che mi proteggesse in quel modo. Poco dopo la sua morte i miei genitori dovettero viaggiare, e quello fu per me una lezione di autonomia. Finalmente! Perché mia zia mi adorava, ma era un elemento destabilizzante. Non a caso quando essa morì sfruttai quell’autonomia. Dovevo fare acquisti, maneggiare denaro. Fu un grande cambiamento, cominciai a prepararmi la cena: l’uovo fritto, l’insalata, la bistecca, Cose facili, ma normalmente un Down non le fa; se ha dei genitori protettivi non lo fa. Perché c’è il fuoco, l’acqua che bolle, eccetera.

D.  Lei ha un buon vocabolario.

Ho letto moltissimo, Giornali, riviste, periodici. Tutto.

D.  E racconti?

Mia madre mi dice: “Devi leggere dei racconti invece di leggere le riviste”. Ma le riviste mi piacciono troppo. Non so, ma ho molta memoria e associo ciò che è successo un giorno con ciò che è successo a me lo stesso giorno. I racconti non mi dicono nulla. Preferisco ascoltare Los 40 Principales² che leggere una novella. Sembra una stupidaggine; di più, è una stupidaggine dire una cosa così, però che c’è di male? Perché Los 40 Principales è ciò che ascolta la gente della mia età, il mondo reale; è la musica che ascoltano i giovani. E i racconti non lo sono. I giovani non leggono i racconti, e forse proprio per questo, non li leggo nemmeno io. Cosa voglio? Ma essere un giovane, rivendico il mio diritto ad essere giovane. Questo è un argomento di discussione con i miei genitori, un dibattito filosofico. Quell’anno problematico al liceo, quella lotta con i ragazzi, tutto ciò mi fece maturare. Avevo 15 anni e l’influenza dei genitori ha molto peso a quell’età; mi introdussero quindi alla musica classica, alla cultura e io rimanevo nella bolla adulta della cultura, nello stereotipo del bravo ragazzo studioso. Quando restai solo in casa, mi dissi: ora devo far uscire la mia parte più giovane, tutto questo deve finire. Finì Beethoven. Mia madre dice che mi sono infantilizzato, che sono regredito, che prima la cultura mi interessava più che ora. Ma non è questo…ciò che sto facendo è mettermi nel mio posto. Mi manca la musica moderna, i gruppi. Il fatto è che studiavo Piaget con il canto gregoriano. Immaginate studiare Piaget con il canto gregoriano! Da morirne, andiamo; da prendere gli appunti e tirarli dalla finestra. Lo sostituii con Los 40 Principales, come mi rianimai! e imparavo più facilmente.

D.   E pensa che, come gli adolescenti, lei si sta confrontando ora con i suoi genitori?

Si. Ho vissuto troppo con gli adulti. Me lo diceva pure il professore di sostegno: “Pablo ti stai isolando”. Perché restavo in casa con i libri e la musica classica. Ora c’è un’altra porta, che io la usi o no. Credo che questo faccia parte della lotta per l’autonomia, per la prima volta mi azzardo ad avere miei propri gusti. Quando vedo i miei nipoti, che incominciano ora con il violino, con il canto, penso: a 15 anni, guarda che sono proprio noiosi. A 15 anni ciò che uno vuole è uscire e divertirsi. Ma non lo dico mai, sto zitto, però lo penso. Se io avessi 15 anni, e mi mettessero in un coro a cantare il miserere….ma questo non vuol dire che io non stia bene con i miei genitori. Ma è un’altra cosa. Loro ci stanno facendo l’abitudine; mi considerano, credo, un caso perso. Prima, se volevo vedere Operazione Trionfo, mi dicevano: “Pablo che fai? Quello è una scemenza”. Ora sanno perfettamente che lo vedo lo stesso.

D.   Prima diceva che il suo professore le diceva che si stava isolando. Fino a dove arrivava la sua confidenza con lui?

Con lui parlavo di tutto, di cose di cui non parlavo con mia madre: di sesso, per esempio.

D.  A che età cominciarono a piacerle le ragazze?

Da sempre. Ero sempre innamorato. Ho avuto molti amori platonici. Quando vedo una ragazza molto bella, mi sto già innamorando. Mi piacciono molto le belle ragazze. Le compagne di classe mi trattavano con molta naturalezza, una mi mise in un gruppo dell’Azione cattolica. Uscivo con loro, dopo la messa ci trovavamo fuori. Un giorno, era il 1992, dopo natale, li aspettai come sempre. Dieci minuti, quindici, mezz’ora, tre quarti d’ora, e non usciva nessuno. Ero molto infastidito, fino a che non apparve qualcuno. “Scusi dov’è la gente?”. Rispose che se ne erano andati da tempo. Me ne andai piangendo a calde lacrime. Arrivai a casa dei miei zii con gli occhi arrossati. “Pablo, hai pianto?”. Da allora lasciai il gruppo. Poi mi misi con i boy scouts. A quell’epoca cercavo sempre amici e volevo sapere cosa succedesse con le ragazze, quale era il loro mondo. Allora mi era sconosciuto il concetto di disillusione. Apparve un’altra ragazza, la incontravo sempre, e mi infatuai. Era molto bella, io ci provai, “Come sei bella”, fino a quando un giorno vidi il fidanzato e amen …..Quando lo riferivo ai miei genitori, mi dicevano: “Ragazzo, Pablo, il fatto è che tu ti fissi con delle ragazze troppo belle”. In quell’epoca era un’innamoramento spirituale più che carnale.

D.   E poi?

Fra gli scouts c’era un’altra ragazza. Ah, mio Dio! La stessa storia. Fino a che durante uno dei campeggi la tensione esplose. C’era il suo fidanzato, era un compagno, e lui scherzando disse: “Così ti piace tizia….”, Fu terribile, piansi, scappai, lei mi venne vicino “Pablo siamo dei buoni amici, non dobbiamo smettere di esserlo”. Come mi sentii male! Fu la cosa peggiore che potesse dirmi. E così mi resi conto che il tema delle ragazze era molto difficile…una difficoltà sconosciuta. Mi resi conto che la sindrome di Down avrebbe segnato la mia vita, che le ragazze non volevano innamorarsi di me perché ero un Down. Io comunque continuo a ribellarmi a questo pensiero. Ma so anche che questa ipotetica fidanzata dovrebbe essere così speciale che poche potrebbero esserlo. Le ragazze normali non mi vogliono; hanno molti pregiudizi, hanno paura, hanno una famiglia. Immaginati ciò che direbbe un padre che sapesse che sua figlia ha un fidanzato con la sindrome di Down…

D. Però lei dice che si ribella contro ciò. Potrebbe essere il suo prossimo obbiettivo incontrare una ragazza appropriata?

Anche se già baciarsi, sarebbe uno scandalo pubblico. Figurati. Gli adulti si scandalizzerebbero, andrebbero a chiamare un poliziotto, succederebbe un putiferio. Mi fa paura. Un paio d’anni fa stavo da solo sulla spiaggia, parlando al cellulare, e dopo cinque minuti avevo già un vigile accanto. “Che ti succede?”. “Nulla”. “ E’ che una persona mi ha riferito che ti eri perso”. Figurati, perché stavo parlando al cellulare… Se mi sto baciando con una ragazza, non viene un vigile, ne arrivano cinque.

D. Le piacerebbe vivere solo?

Per potere potrei, ma si sta molto bene in casa dei genitori, le cose stanno così. L’altro giorno ho visto un reportage sugli universitari e si diceva che la maggioranza vive con i genitori, perché la vita è molto cara e quant’altro… Io mi considero uno dei tanti, ho  gli stessi problemi di qualsiasi universitario. Inoltre ho cominciato a lavorare a febbraio, nell’assessorato sociale del Comune. Mi dedico al settore dei disabili, sono quello che si chiama un mediatore. Arriva gente con  disfunzionalità a chiedermi che può fare, e i loro genitori a consultarmi.

D.  Dopo aver preso una laurea in magistero all’università, ora si sta laureando in psicopedagogia.

E’ un po’ più difficile, più astratto. Soprattutto la parte degli psicologi, come Piaget.  E’ come un deserto. Spero di finire questo corso, allora mi laureerò ufficialmente. Il mio destino vuole andare per di lì, consigliando, orientando. Ora il direttore dell’ assessorato sociale mi ha incluso in un progetto dell’unione europea propedeutico all’impiego con sostegno, e per il quale c’è bisogno di fare un lavoro di sensibilizzazione molto importante, io andrò nelle imprese a quello scopo. Si vuole creare una rete di imprese solidali dove i disabili possano lavorare. In questo lavoro sto con un’équipe prevalentemente femminile, con Inés, Maria, Lola, e altri due ragazzi, Dani e Andrés. E’ un appoggio psicopedagogico, e sono contento, fa sì che mi senta utile.

D.    Leggevo l’altro giorno in un libro che essere Down, come succede per altre cose, ti colloca in una categoria che pesa molto di più che delle potenzialità che abbiamo, dei talenti che si possano avere.

Ti etichettano e da lì non esci. Te lo terrai per tutta la vita. Così come chiamano David Bisbal il Triunfito³, a me, mi chiamano il Down. Ci sono delle consolazioni, come il fatto che il direttore dell’assessorato sociale dica ai miei compagni: “Sfruttate Pablo, ha molte capacità”. Come dire, io vedo che nel lavoro mi considerano utile, e questo mi piace. Ma ciò che più mi ricompensa è dimostrare che siamo capaci di fare, che lo vedano attraverso ciò che io faccio. Certo che tutto ciò si può capire solo se ti interessano gli altri, se sei un progressista.

D.   Lei lo è?

Lo sono.

¹  Il progetto Roma nasce nel 1997 ed è conosciuto in Italia come Progetto Malaga perché frutto di una cooperazione tra l’Università di Malaga

2 ( prof.Miguel Meleto) e il Servizio Neuropsicopedagogico dell’Ospedale “Bambin Gesù” di Roma. Il progetto iniziale si chiamava “Competenze cognitive, culturali e Qualità della vita: un altro modo di educare le persone con sindrome di Down”.

² Los 40 Principales è una delle prime (1966) e più seguite emittenti radiofoniche in Spagna e America Latina con milioni di ascoltatori perlopiù giovani. Trasmette musica e permette tra l’altro al pubblico di votare i suoi cantanti preferiti.

³ El Triunfito è David Bisbal il tipico idolo delle ragazzine, il cui vero nome – Josè Maria- tradisce però la sua nascita nell’Andalusia più profonda, e concorrente con grande successo pare, alla trasmissione canora televisiva spagnola “Operacìon Triunfo”, da lì il soprannome citato da Pineda.

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: