Ivan Illich, Invece dell’istruzione

by gabriella

Ivan_Illich_1974In pagine che sembrano scritte ieri, tanto arretrato è (fortunatamente, in questo caso) il nostro paese in materia di aggiornamento del sistema scolastico, Ivan Illich commenta l’uso delle sue tesi sulla descolarizzazione da parte dei teorici liberali e dei sostenitori delle “scuole libere” (soprattuto alla fine del secondo paragrafo e nel terzo). Lo fa in uno scritto contenuto in una raccolta di cinque saggi, scritti in periodi diversi e tenuti insieme dall’obiettivo di tratteggiare una fenomenologia della soppressione dell’utilità, della convivialità, della creatività, a vantaggio dello scambio, dell’interesse, del lavoro. In una parola, dell’alienazione nella società industriale, posta a confronto con la sua alternativa, sempre possibile.

Come i calvinisti soppressero i monasteri per poi trasformare tutta Ginevra in un unico convento,
così noi dobbiamo temere che la soppressione della scuola
possa dar luogo a un’unica fabbrica mondiale del sapere.

Ivan Illich

Verso la fine degli anni ’60 tenni al Centro intercultural de documentaciòn (CIDOC) di Cuernavaca, Messico, una serie di seminari sul monopolio del modo di produzione industriale e sulle alternative concettuali adatte a un’epoca post-industriale. Il primo settore industriale che analizzai fu il sistema scolastico e il suo presunto prodotto, l’istruzione. Sette saggi che scrissi in quel periodo furono riuniti in volume nel 1971 col titolo Descolarizzare la società (trad. it. Mondadori 1972). Dal modo in cui il libro fu accolto mi accorsi che la mia descrizione delle funzioni latenti involontarie della scuola obbligatoria (il “programma occulto” della scolarizzazione) veniva usata impropriamente non soltanto dai fautori delle cosiddette “scuole libere” ma, ancor più, da maestri di scuola anelanti a trasformarsi in educatori degli adulti. Il saggio che segue è stato scritto a metà del 1971. Vi ribadisco che l’alternativa alla dipendenza di una società dalle proprie scuole non sta nell’escogitazione di nuovi espedienti per far imparare alla gente ciò che secondo gli esperti essa ha bisogno di sa pere; bensì nella creazione di un rapporto radicalmente nuovo tra gli esseri umani e il loro ambiente. Una società tesa al raggiungimento di alti livelli di sapere diffuso e di rapporti personali, libera e insieme critica, non può esistere se non si pone dei limiti pedagogicamente motivati alla propria crescita istituzionale e industriale.

 

Invece dell’istruzione

Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arrampicarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l’uguaglianza ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato; che l’istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto; e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso.

Ci si è improvvisamente resi conto che l’istruzione pubblica attuata mediante la scolarizzazione obbligatoria ha perso ogni legittimità sociale, pedagogica ed economica. Pertanto, i critici del sistema scolastico propongono ora rimedi energici ed eterodossi che vanno dal progetto dei “buoni-studio”, che permetterebbe a ognuno di procurarsi l’istruzione che preferisce sul mercato libero, al passaggio della responsabilità dell’istruzione dalla scuola ai media e all’addestramento sul lavoro. Alcuni sostengono che la scuola dovrà perdere il suo carattere di istituzione ufficiale dello Stato come l’ha perso la Chiesa nel corso degli ultimi due secoli. Altri riformatori propongono di sostituire la scuola universale con vari altri sistemi che, a loro parere, assicurerebbero a tutti una migliore preparazione alla vita propria di una società moderna. Queste proposte di nuove istituzioni educative si possono grosso modo raggruppare in tre categorie: la riforma dell’aula scolastica all’interno del sistema scolastico; la disseminazione di libere aule scolastiche in tutta la società; la trasformazione di tutta la società in un’unica immensa aula scolastica. Ma queste tre prospettive – l’aula riformata, l’aula libera e l’aula universale – rappresentano in realtà tre momenti di un progetto di escalation educativa nel quale ogni fase minaccia un controllo sociale più sottile e più penetrante della precedente.

Io credo che l’abolizione dell’istituzione scolastica sia divenuta inevitabile e che tale fine di un’illusione dovrebbe colmarci di speranza. Ma credo anche che alla fine dell’“era della scolarizzazione” potrebbe seguire l’era di una scuola globale che solo per il nome si differenzierebbe da un manicomio globale o da un carcere globale, e dove istruzione, correzione e adattamento diverrebbero sinonimi. Credo quindi che lo sfacelo della scuola ci debba far guardare al di là della sua fine imminente per valutare quelle che sono le alternative fondamentali in questo campo. Esistono due possibilità: si possono realizzare nuovi tremendi congegni educativi volti a inculcare l’accettazione di un mondo che si viene facendo sempre più opaco e proibitivo per l’uomo, oppure si possono porre le condizioni per un’era nella quale la tecnologia venga usata per rendere la società più semplice e trasparente, si che tutti gli uomini possano tornare a conoscere i fatti e ad adoperare gli strumenti che plasmano la loro vita. Possiamo, in altri termini, disistituzionalizzare la scuola oppure descolarizzare la cultura.

 

Il programma occulto

Per vedere con chiarezza le alternative che abbiamo di fronte, dobbiamo anzitutto distinguere l’apprendimento dalla scolarizzazione, ossia discernere quello che è il fine umanistico dell’insegnante dall’effetto che esercita l’invariante struttura della scuola. Tale struttura invisibile consiste in un sistematico insegnamento che sfugge a qualunque controllo del docente come dell’autorità scolastica. Trasmette ineluttabilmente un messaggio: che solo grazie alla scolarizzazione un individuo può prepararsi a vivere da adulto nella società, che ciò che non si insegna a scuola vale poco e che ciò che si apprende fuori della scuola non merita d’essere conosciuto. Io lo chiamo programma occulto perché, nel sistema scolastico, esso costituisce la cornice immutabile entro la quale avvengono tutti i mutamenti dei programmi visibili.

Il programma occulto è sempre il medesimo in qualunque scuola e luogo. Esige che tutti i bambini di una certa età si riuniscano in gruppi di una trentina, sottoposti all’autorità di un insegnante ufficialmente abilitato, per 500, 1000 o più ore l’anno. Che il programma esplicito sia rivolto a inculcare i principi del fascismo, del liberalismo, del cattolicesimo, del socialismo o della liberazione non ha importanza, purché all’istituzione sia riconosciuto il potere di stabilire quali attività siano da considerare “istruzione” legittima. Non importa che scopo della scuola sia quello di produrre cittadini sovietici oppure statunitensi, dei meccanici oppure dei medici, purché non si possa essere a pieno titolo cittadino o medico senza aver preso un diploma. Non fa differenza dove avvengano le riunioni – in un’autofficina, in un’assemblea legislativa o in un ospedale – purché valga il principio della frequenza.

La cosa essenziale nel programma occulto è che gli studenti imparino che l’istruzione ha valore se acquisita a scuola attraverso un processo di consumo graduato; che la misura del successo che l’individuo avrà nel mondo dipende dalla quantità di sapere che avrà acquistato; e che imparare cose sul mondo è più importante che impararle dal mondo. L’imposizione di questo programma occulto nell’ambito di un piano scolastico distingue la scolarizzazione da qualsiasi altra forma di istruzione pianificata. Tutti i sistemi scolastici del mondo hanno caratteristiche comuni distinte da quello che è il loro prodotto istituzionale, e tali caratteristiche sono frutto del loro comune programma occulto.

Bisogna rendersi conto chiaramente che il programma occulto trasforma l’apprendimento da attività in merce, il cui mercato è monopolizzato dalla scuola. Il nome che noi diamo a questa merce è “istruzione”, un prodotto quantificabile e cumulativo di una istituzione progettata da professionisti e chiamata scuola, e il cui valore può essere misurato in base alla durata e al costo dell’applicazione allo studente di un procedimento (il programma occulto). L’insegnante provvisto di laurea ha diritto a uno stipendio superiore a quello di chi ha meno ore di credito universitario, indipendentemente dall’attinenza del suo titolo con il compito d’insegnare.

In tutti i paesi “scolarizzati” il sapere è considerato la dote più necessaria per sopravvivere, ma anche una forma di valuta più liquida del rublo o del dollaro. Gli scritti di Karl Marx ci hanno reso familiare l’alienazione dell’operaio dal proprio lavoro nella società divisa in classi; è ormai tempo di riconoscere quello che è lo straniamento dell’uomo dal proprio sapere, quando quest’ultimo diventa il prodotto di un servizio professionale e l’uomo il suo consumatore.

Quanta più istruzione un individuo consuma, tanto maggiore è il “patrimonio di sapere” che acquista e tanto più in alto egli sale nella gerarchia dei capitalisti di sapere. L’istruzione determina così una nuova struttura classista in una società dove ai grandi consumatori di sapere – cioè a quelli che hanno acquisito più grossi patrimoni di sapere – si riconosce un più alto valore per la società stessa. Nel portafoglio del capitale umano di una società essi rappresentano titoli di tutto riposo, ed è a loro che si riserva l’accesso agli strumenti di produzione più potenti o più rari.

Il programma occulto, dunque, definisce e misura qual è l’istruzione e a quale livello di produttività il suo consumatore ha diritto. E l’elemento che serve a razionalizzare la crescente correlazione tra posti di lavoro e privilegi connessi, che presso certe società si traducono in reddito personale e presso altre in diritto a servizi che fanno risparmiare tempo, a un’ulteriore istruzione o a prestigio. (Un aspetto, questo, di particolare importanza ove si consideri che, come ha dimostrato fra gli altri lo studio di Ivar Berg, non esiste alcuna corrispondenza tra scolarizzazione e competenza professionale).

comeniusL’idea di far passare ogni individuo per una serie di fasi di “illuminazione” affonda le sue radici nell’alchimia, la Grande Arte del tardo Medioevo. Jan Amos Comenio (1592-1670), il vescovo moravo pedagogista e sostenitore dell’ideale della “pansofia”, è a ragione considerato uno dei padri della scuola moderna. Fu tra i primi a proporre da sette a dodici classi di istruzione obbligatoria. Nella sua Didactica magna definiva le scuole meccanismi “per insegnare qualunque cosa a chiunque” e abbozzò il progetto di una catena di montaggio per la produzione di sapere, che a suo avviso avrebbe consentito di ottenere un’istruzione migliore e più a buon mercato e reso possibile a tutti l’accesso alla piena umanità. Ma Comenio non fu solo un precursore degli specialisti in efficienza; era anche alchimista, e si servì del linguaggio tecnico della sua arte per spiegare i principi dell’educazione dei fanciulli. Gli alchimisti pretendevano di raffinare i metalli vili facendone passare le essenze distillate per sette successivi stadi di sublimazione, nell’intento di tramutarli in oro a beneficio proprio e del mondo intero.

Naturalmente, per quanti tentativi facessero, non ci riuscirono mai; ma ogni volta la loro “scienza” trovava nuove spiegazioni dell’insuccesso, e così ci riprovavano ancora.

La pedagogia apri un capitolo nuovo nella storia dell’Ars Magna. L’educazione divenne la ricerca di un processo alchimistico atto a produrre un nuovo tipo d’uomo che fosse capace di integrarsi con l’ambiente creato dalla magia della scienza. Ma per quanto tempo una generazione trascorresse nelle scuole, la maggioranza risultava sempre refrattaria a “illuminarsi” in virtù di questo processo e bisognava scartarla in quanto inidonea a vivere in un mondo fatto dall’uomo.

I riformatori dell’istruzione i quali ammettono il fallimento delle scuole si dividono in tre gruppi. I più rispettabili sono sicuramente i grandi maestri dell’alchimia, che promettono scuole migliori. I più seducenti sono i maghi popolari, che promettono di fare di ogni cucina un laboratorio alchimistico. I più sinistri sono i nuovi architetti, dell’universo, che vogliono trasformare il mondo intero in un enorme tempio del sapere.

Spiccano, tra i maestri dell’alchimia odierni, certi direttori di ricerca stipendiati o sponsorizzati dalle grandi fondazioni, i quali ritengono che le scuole, solo che si riuscisse a migliorarle in qualche modo, anche sul piano economico diverrebbero più funzionanti delle dissestate scuole attuali, e nello stesso tempo potrebbero vendere un più ampio assortimenti di servizi. Quelli che si occupano soprattutto dei programmi li giudicano sorpassati o incongrui: ed ecco allora che li si arricchisce con nuovi corsi preconfezionati sulla cultura africana, sull’imperialismo statunitense, sul movimento di liberazione della donna, sull’inquinamento, sulla società dei consumi. L’apprendimento passivo è sbagliato – e non c’è dubbio che lo sia -: ed ecco che si concede graziosamente agli studenti di decidere che cosa e in che modo vogliono che gli si insegni. Le scuole sono prigioni: dunque si autorizzano i presidi a consentire lezioni all’aperto, spostando i banchi in qualche strada di Harlem all’uopo recintata. Viene di moda l’educazione all’autocoscienza, e subito si introduce in classe la terapia di gruppo. La scuola che avrebbe dovuto insegnare qualunque cosa a chiunque diventa così dispensatrice di tutte le cose a tutti i bambini.

Altri critici sono convinti che le scuole non sanno mettere a frutto la scienza moderna. Alcuni rilevano infatti che con un’adeguata somministrazione di farmaci diventerebbe molto più semplice per l’istruttore il compito di normalizzare la condotta del bambino. Altri vorrebbero trasformare la scuola in una palestra di giochi educativi. Altri ancora elettrificherebbero le aule. Se sono discepoli alla buona di McLuhan, si limitano a voler sostituire lavagne e libri di testo con happenings multimediali; se invece seguono Skinner, garantiscono di saper modificare i comportamenti molto più efficacemente degli insegnanti vecchio stile.

La maggior parte di queste innovazioni non manca, certo, di avere qualche buon effetto. Nelle scuole sperimentali l’assenteismo è diminuito. Col decentramento delle responsabilità di gestione i genitori hanno maggiormente la sensazione di partecipare. I ragazzi che dall’insegnante vengono assegnati a un’attività di tirocinio esterno si rivelano spesso più bravi di quelli che rimangono in classe. Certi bambini newyorkesi grazie al laboratorio linguistico fanno indubbi progressi nella conoscenza dello spagnolo, preferendo di gran lunga giocare con i tasti di un registratore che conversare con i loro coetanei portoricani. Tutti questi miglioramenti non possono però che restare entro limiti ristretti, dato che non toccano in alcun modo il programma occulto.

Certi riformatori vorrebbero slegarsi dal programma occulto delle scuole pubbliche, ma ben di rado ci riescono. Le scuole libere che generano altre scuole libere creano solo un miraggio di libertà, anche se la catena della frequenza è spesso interrotta da lunghi periodi di ozio. La frequenza ottenuta con mezzi di seduzione inculca il bisogno di cura scolastica in modo più persuasivo della frequenza riluttante imposta dalle autorità. L’insegnante permissivo che trasforma l’aula in un ambiente ovattato è facile che tenda i propri allievi incapaci di sopravvivere una volta lasciata la scuola.

L’apprendimento, in queste scuole, continua spesso a essere la solita acquisizione di abilità socialmente apprezzate, ancorché definite in questo caso dal consenso di una comunità invece che dai decreti di un’autorità scolastica centrale. Il nuovo presbitero non è che un ingrandimento del vecchio prete.

Le scuole libere, per essere veramente tali, devono soddisfare due condizioni. Primo, devono essere condotte in modo da impedire che si reintroduca il programma occulto costituito dalla frequenza graduata e da “studenti” che studiano ai piedi di “insegnanti”. Cosa ancor più importante, devono offrire una struttura entro la quale tutti i partecipanti, personale della scuola e allievi, possano liberarsi dai postulati reconditi di una società scolarizzata. La prima condizione figura spesso tra gli obiettivi di una scuola libera; quanto alla seconda, solo raramente se ne ha coscienza ed è difficile che venga posta come obiettivo di una scuola libera.

I fondamenti reconditi dell’educazione

E utile distinguere tra il programma occulto, di cui ho già parlato, e i fondamenti reconditi della scolarizzazione. Il programma occulto è un rituale che può essere considerato l’iniziazione ufficiale al mondo moderno, istituzionalizzata attraverso la scuola. Scopo di questo rituale è nascondere a chi vi partecipa le contraddizioni tra il mito di una società egualitaria e la realtà divisa in classi che esso sancisce. Una volta riconosciuti come tali, i rituali perdono il loro potere, ed è questo che ora comincia ad accadere alla scuola. Nel cerimoniale della scolarizzazione trovano però espressione anche certi postulati fondamentali riguardo al crescere – i fondamenti reconditi – che facilmente potrebbero uscire rafforzati da quanto fanno le scuole libere.

A prima vista ogni generalizzazione nei riguardi delle scuole libere parrebbe avventata. Specialmente negli Stati Uniti, nel Canada e nella Germania del 1971, esse sono i mille fiori di una nuova primavera. Qualche considerazione generale si può invece fare su quelle iniziative sperimentali che si presentano come istituzioni educative. Ma prima conviene esaminare un poco più a fondo il rapporto tra scolarizzazione e educazione.

Spesso si dimentica che il termine “educazione” è di conio recente. Fino alla vigilia della Riforma non lo si conosceva. Di educazione dei fanciulli si parla per la prima volta in lingua francese in un documento del 1498. Era l’anno in cui Erasmo si stabilì a Oxford, Savonarola venne bruciato sul rogo a Firenze e Dùrer incise l’Apocalisse, che con tanta potenza ci comunica il senso di sfacelo incombente sulla fine del Medioevo. In inglese il termine comparve per la prima volta nel 1530, l’anno in cui Enrico VIII ripudiò Caterina d’Aragona e la Chiesa luterana si separò da Roma alla Dieta di Augusta. Nei paesi di lingua spagnola dovette trascorrere ancora un secolo prima che la parola e il concetto divenissero noti: nel 1632 Lope de Vega parla della “educazione” come di una novità. Quell’anno l’Università di San Marcos di Lima celebrava il suo sessantesimo anniversario. Centri d’istruzione esistevano gia prima che il termine “educazione” entrasse nell’uso; ma vi si “leggevano” i classici o il diritto, non si veniva educati alla vita.

Nel XVI secolo, al centro delle dispute teologiche c’era il bisogno universale di “giustificazione”. Questo concetto forniva un fondamento razionale alla politica e offriva la scusa per massacri su vasta scala. Spaccatasi la Chiesa, fu possibile sostenere opinioni largamente divergenti riguardo alla misura in cui gli uomini nascevano peccatori, corrotti e predestinati. Ma all’inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, questa volta intorno all’idea che l’uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una “educazione”. L’educazione venne così a indicare l’opposto dell’attitudine vitale. Venne a indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adoperare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L’educazione si identificò con una merce immateriale che andava prodotta a beneficio di tutti, e a tutti dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa visibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell’uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale.

La scolarizzazione e l’educazione sono correlate tra loro come la Chiesa e la religione o, in termini più generali, come il rito e il mito. Il rito ha creato e sorregge il mito; è mitopoietico, e il mito genera il programma mediante il quale si perpetua. Come concetto che designa tutta quanta una categoria di giustificazione sociale, l’“educazione” è un’idea di cui (al di fuori della teologia cristiana) non esiste alcun equivalente specifico in altre culture. E la produzione dell’educazione mediante il processo di scolarizzazione differenzia le scuole da tutti gli altri istituti d’istruzione esistenti in altre epoche. E questo che va capito, se si vuole cogliere il punto debole della maggioranza delle cosiddette scuole libere, non strutturate o indipendenti.

Per andare al di là della semplice riforma dell’aula, una scuola libera deve evitare di far proprio il programma occulto della scolarizzazione di cui ho parlato. La scuola libera ideale cerca di fornire istruzione e, contemporaneamente, di impedire che essa serva a istituire o legittimare una struttura classista, che divenga argomento per commisurare l’allievo a qualche parametro astratto, e che lo reprima, lo controlli, lo ridimensioni. Ma fin quando la scuola libera cercherà di fornire una istruzione o educazione “generale”, non potrà andare al di là di quelli che sono postulati reconditi dell’educazione.

SchragUno di questi postulati è la “sindrome dell’immigrazione”, come la chiama Peter Schrag, la quale ci porta a trattare tutti come se fossero dei nuovi venuti che debbono subire un processo di naturalizzazione. Solo i consumatori di sapere che siano muniti di regolare diploma possono ottenere la cittadinanza. Gli uomini non nascono uguali, ma lo diventano grazie al periodo di gestazione che trascorrono nel corpo dell’Alma Mater. Bisogna guidarli a staccarsi dal loro ambiente naturale e farli passare attraverso un utero sociale dove si formino quanto basta per divenire idonei alla vita quotidiana. Questa funzione le scuole libere spesso la svolgono meglio delle scuole di tipo meno attraente.

Gli istituti d’istruzione liberi hanno anche un’altra caratteristica in comune con quelli meno liberi: spersonalizzano la responsabilità dell’educazione. Pongono un’istituzione in loco parentis. Perpetuano l’idea che l’insegnamento, quando non avvenga all’interno della famiglia, spetti a un ente, del quale il singolo insegnante non è che un rappresentante. Persino la famiglia, in una società scolarizzata, si riduce a un “ente di acculturazione”. Gli istituti liberi che assumono insegnanti allo scopo di attuare il piano educativo collegialmente elaborato dai rispettivi comitati di direzione sono strumenti di spersonalizzazione degli autentici rapporti umani.

Certo, ci sono molte scuole libere che operano senza ricorrere a insegnanti forniti di titolo legale. Così facendo, esse costituiscono una seria minaccia per i sindacati degli insegnanti; ma non rappresentano minaccia alcuna per la struttura professionale della società. Una scuola dove la direzione affida a persone di sua fiducia l’incarico di attuare il proprio disegno scolastico, anche se tali persone non abbiano alcun diploma, abilitazione o tessera sindacale, non contesta affatto la legittimità della professione d’insegnante, così come una maitresse che agisca in un paese dove per operare legalmente è richiesta una licenza della polizia, non contesta la legittimità sociale della più antica professione del mondo per il fatto di metter su un bordello privato.

Nella grandissima maggioranza, coloro che insegnano nelle scuole libere non hanno alcuna possibilità di insegnare per conto proprio. Essi eseguono il compito collegialmente assegnato all’insegnamento per conto della direzione, la funzione meno trasparente dell’insegnamento per conto degli allievi, la funzione più mistica dell’insegnamento per conto della “società” in generale. La prova migliore è che di regola gli insegnanti delle scuole libere dedicano ancor più tempo dei loro colleghi professionisti a riunioni di comitati in cui si progetta come la scuola dovrebbe educare. E sono queste interminabili riunioni che spingono molti generosi insegnanti, allorché si rendono conto della loro illusione, a passare prima dalle scuole pubbliche a quelle libere e poi ad andarsene anche da queste.

Tutti gli istituti d’istruzione proclamano che loro scopo è quello di formare i giovani in funzione di qualcosa, in vista del futuro. Ma non li lasciano liberi di dedicarsi a tale compito finché non abbiano acquisito un alto grado di assuefazione al modo di essere degli anziani: formazione per la vita, anziché nella vita quotidiana. Queste poche scuole libere sanno evitarlo. Nondimeno esse sono tra i centri più importanti da cui 5 irradierà un nuovo stile di vita: non tanto per l’effetto che avranno i giovani che ne verranno fuori, quanto perché gli anziani forniti di crismi ufficiali appartengono spesso a una minoranza radicale e la loro preoccupazione per il modo in cui crescono i figli li rafforza nel nuovo stile.

La mano invisibile in un mercato dell’istruzione

La categoria più pericolosa, tra i riformatori dell’istruzione, e’ costituita da coloro i quali affermano che in un mercato libero il sapere si potrebbe produrre e distribuire molto più efficacemente che in un mercato monopolizzato dalla scuola. Costoro rilevano che è facile apprendere un’arte da un modello della medesima quando il discente è realmente interessato ad acquisirla, che un sistema di assegni individuali potrebbe conferire un più uguale potere d’acquisto in materia d’istruzione, e chiedono che vengano tenute accuratamente distinte tutte quelle procedure che servono a misurare e certificare il sapere acquisito. Tutto ciò mi pare ovvio; ma sarebbe un errore credere che la creazione di un mercato libero del sapere costituirebbe un ‘alternativa radicale.

Indubbiamente la creazione di un mercato libero sopprimerebbe quello che ho chiamato il programma occulto dell’attuale sistema scolastico, cioè la frequenza imposta a determinate età lungo un corso graduato. Così pure, un mercato libero darebbe a tutta prima l’impressione dì contrastare quelli che ho chiamato i fondamenti reconditi di una società scolarizzata: la “sindrome dell’immigrazione”, il monopolio istituzionale dell’insegnamento e il rituale dell’iniziazione lineare. Ma nello stesso tempo un mercato libero dell’istruzione fornirebbe all’alchimista infinite mani invisibili per sistemare ciascun individuo nelle molteplici anguste caselle che una tecnocrazia più complessa è in grado di predisporre.

Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d’imparare ad assistere la nonna, l’adolescente impara a picchettare l’ospedale che non vuole accoglierla). Questo atteggiamento potrebbe facilmente sopravvivere ad una abrogazione della scuola, come in America l’appartenenza a una chiesa continuò ad essere un requisito per accedere a una carica pubblica anche molto tempo dopo l’approvazione del Primo Emendamento. E ancor più evidente che un’abolizione dell’istituzione scolastica potrebbe benissimo lasciar sussistere le batterie di esami che misurano i complessi “pacchi” di sapere, e, con esse, la pulsione a obbligare ognuno ad acquisirne un determinato quantitativo. La misurazione scientifica del valore di ogni persona e il sogno alchimistico della “educabilità di tutti alla piena umanità” verrebbero così finalmente a coincidere. Sotto le sembianze di un mercato libero, il villaggio globale si tramuterebbe in un gigantesco utero dove dei pedagoghi-terapisti controllerebbero la complessa placenta da cui trarrebbe alimento ogni essere umano.

Attualmente le scuole limitano all’aula la competenza dell’insegnante. Impediscono che egli accampi pretese sull’intera vita di un uomo. La fine della scuola abbatterebbe questo limite e darebbe una parvenza di legittimità alla perpetua usurpazione pedagogica dell’intimità di ogni in-dividuo. Darebbe il via a una mischia per il “sapere”su un mercato libero, che sfocerebbe nel paradosso di una democrazia volgare anche se apparentemente egualitaria.

Mantrin - consigliere

Mantrin – consigliere

Le scuole non sono affatto le sole o più efficienti istituzioni che pretendano di tradurre conoscenze, comprensioni e sapienza in tratti comportamentali la cui misura apre le porte del prestigio e del potere. Né sono le prime istituzioni di cui ci si è serviti per convertire l’istruzione nell’acquisto di particolari diritti. Il sistema cinese del mandarinato, per esempio, è stato per secoli uno stabile ed efficace incentivo all’istruzione, a beneficio di una classe relativamente aperta i cui privilegi dipendevano dal possesso di un sapere misurabile. La promozione al rango di dotto non conferiva automaticamente il diritto ai posti maggiormente ambiti, ma forniva un biglietto per la pubblica lotteria nella quale si sorteggiavano le cariche tra i detentori del titolo di mandarino. Prima di cominciare a far guerre con le potenze europee, la Cina non aveva mai avuto scuole, e tanto meno università. Per tremila anni fu l’accertamento del sapere misurabile acquisito individualmente ciò che permise all’impero cinese – unico Stato nazionale che non abbia avuto né una vera chiesa né un sistema scolastico – di selezionare la propria élite di governo senza creare una vasta aristocrazia ereditaria. L’accesso a questa élite era aperto ai familiari dell’imperatore e a tutti coloro che superavano le prove di accertamento.

Voltaire e i suoi contemporanei elogiavano il sistema cinese di promozione mediante prove d’istruzione; e nel 1791 in Francia, per l’accesso all’amministrazione pubblica, furono istituiti degli appositi esami, successivamente aboliti da Napoleone. Sarebbe affascinante immaginare cosa sarebbe successo se per propagare gli ideali della Rivoluzione si fosse scelto il sistema del mandarinato anziché quello scolastico, che inevitabilmente dette sostegno al nazionalismo e alla disciplina militare. Nella realtà dei fatti, Napoleone rafforzò la scuola di tipo politecnico, residenziale. Il modello gesuitico della promozione rituale per gradi, all’interno di una istituzione chiusa, prevalse sul sistema del mandarinato e fu il metodo preferito dalle società occidentali per conferire legittimità alle proprie élites. I presidi divennero gli abati di una catena mondiale di monasteri dove ognuno s’affaccendava ad accumulare il sapere richiesto per entrare nel sempre obsolescente paradiso in terra.

Come i calvinisti soppressero i monasteri per poi trasformare tutta Ginevra in un unico convento, così noi dobbiamo temere che la soppressione della scuola possa dar luogo a un’unica fabbrica mondiale del sapere. A meno di rivedere il concetto di istruzione o sapere, l’abolizione della scuola non potrebbe che portare a un accoppiamento tra il sistema del mandarinato – che distingue l’istruzione dalla certificazione – e una società impegnata a somministrare terapie a ogni uomo finché non sia maturo per l’età dorata.

La contraddittorietà delle scuole come strumento di progresso tecnocratico

L’educazione in funzione di una società fondata sul consumo equivale alla formazione del consumatore. La riforma dell’aula, l’abbattimento delle pareti dell’aula, la diffusione dell’aula sono modi diversi di formare consumatori di merci soggette a invecchiare. La sopravvivenza d’una società nella quale le tecnocrazie possono dare definizioni sempre nuove della felicità umana identificandola con il consumo del loro prodotto più recente, è legata alle istituzioni educative (dalle scuole agli annunci pubblicitari) che traducono l’istruzione in controllo sociale.

Nei paesi ricchi, come gli Stati Uniti, il Canada o l’Unione Sovietica, gli enormi investimenti destinati alla scolarizzazione rendono quanto mai evidenti quelle che sono le contraddizioni istituzionali del progresso tecnocratico. In quei paesi la difesa ideologica del progresso illimitato poggia sull’assunto che gli effetti egualizzanti di una scolarizzazione senza fine possono controbilanciare le conseguenze disegualizzanti della costante obsolescenza. La legittimità della stessa società industriale viene a dipendere dalla credibilità delle scuole, quale che sia il partito al potere, liberale o comunista. E ovvio che, in tali circostanze, il pubblico cerchi avidamente libri come il rapporto di Charles Silberman alla Commissione Carnegie, pubblicato col titolo La crisi nell’aula (New York 1970). Questo tipo di ricerca ispira fiducia per la solida documentazione su cui basa il suo processo alla scuola attuale, ma su una linea del genere gli insignificanti tentativi di salvare il sistema correggendone i difetti più vistosi possono solo creare una nuova ondata di vane aspettative.

Né l’alchimia né la magia né la muratoria sono in grado di risolvere il problema dell’attuale crisi, che non sta “nell’aula” ma nell’istruzione. Occorre descolarizzare la nostra visione del mondo, e per arrivare a questo dobbiamo riconoscere il carattere illegittimo e religioso dell’impresa scolastica in se stessa. La sua hybris sta nel proposito di fare dell’uomo un essere sociale sottoponendolo à un trattamento entro un processo predeterminato.

Per coloro che condividono l’ethos tecnocratico, tutto ciò che è tecnicamente possibile deve essere messo a disposizione almeno di alcune poche persone, che lo vogliano o no. La privazione e la conseguente frustrazione della maggioranza non contano. Se la cobaltoterapia è possibile, la città di Tegucigalpa deve averne l’apparecchiatura in ognuno dei suoi due ospedali maggiori, a un costo che sarebbe sufficiente per liberare dai parassiti una parte notevole di tutta la popolazione dell’Honduras. Visto che si possono raggiungere velocità supersoniche, qualcuno deve viaggiare a queste velocità. Essendo ormai concepibile il volo su Marte, bisogna trovare una giustificazione razionale per farlo apparire necessario. Nell’ethos tecnocratico la povertà si modernizza: non soltanto alcune alternative un tempo esistenti vengono precluse da nuovi monopoli, ma la carenza dei beni di prima necessità viene estesa e aggravata da un crescente divario tra i servizi tecnologicamente realizzabili e quelli effettivamente disponibili per la maggioranza.

Quando un insegnante fa proprio questo ethos tecnocratico, si trasforma in “educatore”. Si comporta allora come se l’istruzione fosse un’impresa tecnologica intesa a render l’uomo atto a qualunque ambiente venga creato dal “progresso scientifico”. Sembra non accorgersi del fatto evidente che la continua obsolescenza di tutte le merci comporta un prezzo elevato: il costo crescente dell’istruirei cittadini a prenderne nozione. Sembra dimenticare che la continua crescita del costo degli strumenti di produzione è pagata a caro prezzo sul piano dell’istruzione: diminuisce infatti l’intensità del fattore lavoro nell’economia, e l’apprendimento sul lavoro diventa impossibile o tutt’al più un privilegio di pochi. In tutto il mondo il costo dell’educare gli uomini in funzione della società cresce più in fretta della produttività globale, e sono sempre di meno coloro che si sentono intelligentemente corresponsabili del bene pubblico.

Ogni incremento della spesa per la scuola rende ovunque macroscopica la futilità della scolarizzazione. Paradossalmente sono i poveri le prime vittime dello sviluppo scolastico. Nello Stato dell’Ontario la Commissione Wright ha dovuto riferire al governo che l’istruzione post-secondaria rappresenta, inevitabilmente e senza rimedio, una tassazione sproporzionata dei poveri per un servizio di cui godranno sempre soprattutto i ricchi.

L’esperienza conferma queste predizioni. Sono parecchi decenni ormai che nell’Unione Sovietica un sistema di quote favorisce l’ammissione all’università dei figli di operai a scapito dei figli di laureati; ciò nonostante, questi ultimi sono proporzionalmente assai più numerosi tra i laureandi russi che tra quelli statunitensi.

Nei paesi poveri, le scuole razionalizzano il ritardo economico di tutta quanta una nazione. La maggioranza dei cittadini è esclusa dagli scarsi mezzi moderni di produzione e di consumo, ma aspira a entrare nell’economia dalla porta della scuola. La legittimazione della gerarchia del privilegio e del potere, un tempo affidata al lignaggio, all’eredità, al favore del re o del papa, alla spietatezza negli affari o sul campo di battaglia, è passata a una forma di capitalismo più sottile: cioè all’istituto gerarchico ma liberale dell’istruzione obbligatoria, che autorizza colui che è ben scolarizzato a considerare colpevole chi resta indietro nel consumo di sapere in quanto dispone di un titolo inferiore. Questa razionalizzazione dell’ineguaglianza non può tuttavia mai quadrare con i fatti, e ai regimi populisti riesce sempre più difficile mascherare il conflitto tra l’ideale conclamato e la realtà.

Per dieci anni la Cuba di Castro ha profuso grandi energie nell’istruzione popolare a ritmo accelerato, utilizzando il materiale umano disponibile, senza il consueto rispetto per le credenziali professionali. Gli spettacolosi successi conseguiti inizialmente da questa campagna, specie nella riduzione dell’analfabetismo, sono stati addotti a prova che il lento tasso di crescita degli altri sistemi scolastici latino-americani sarebbe dovuto alla corruzione, al militarismo e al carattere capitalistico, di mercato, degli ordinamenti economici. Ma ora la logica della scolarizzazione gerarchica comincia a valere anche per Fidel e per il suo tentativo di produrre l’Uomo nuovo mediante la scuola. Pur se gli studenti passano metà dell’anno nelle piantagioni di canna da zucchero e aderiscono senza riserve agli ideali egualitari del companero Fidel, ogni anno la scuola produce un nuovo scaglione di sussiegosi consumatori di sapere pronti a passare a più alti livelli di consumo. E anche Castro si scontra con la dimostrazione evidente che il sistema scolastico non ce la farà mai a sfornare abbastanza personale tecnico. I diplomati che vanno a occupare i nuovi impieghi distruggono con il loro conservatorismo i risultati ottenuti dai quadri sforniti di titolo di studio che avevano raggiunto le loro posizioni addestrandosi sul lavoro. Non è certo agli insegnanti che si può addossare la colpa dei fallimenti di un governo rivoluzionario il quale insiste a perseguire la capitalizzazione istituzionale della forza lavoro attraverso un “programma occulto” che è fatto apposta per produrre una borghesia universale.

L’8 marzo 1971 una decisione della Corte suprema degli Stati Uniti ha aperto la strada ad una contestazione anche con mezzi legali della legittimità del programma occulto su cui si fonda il sistema d’istruzione americano. Esprimendo l’opinione unanime della Corte sul caso “Griggs e altri contro la Duke Power Company”, il suo presidente Warren E. Burger ha affermato che

diplomi ed esami sono servitori utili, ma il Congresso ha sancito il ragionevole principio che non devono diventare padroni della realtà.

Il presidente interpretava in tal modo quella che era stata l’intenzione del Congresso nella sezione della Legge sui diritti civili del 1964 dedicata all’uguaglianza delle possibilità; e su questa base ha stabilito che qualunque titolo di studio richiesto ai candidati a un impiego, e qualunque esame cui li si sottoponga, deve “misurare l’uomo in funzione dell’impiego” e non “l’uomo in astratto”. L’onere di provare che i requisiti scolastici siano “una misura ragionevole della prestazione lavorativa richiesta” spetta al datore di lavoro.

Con questa decisione, la Corte ha inteso vietare l’uso di diplomi ed esami come strumenti di discriminazione razziale; ma il ragionamento del presidente vale per qualsiasi caso in cui si subordini l’occupazione al possesso di un pedigree scolastico. Sarà arduo per gli imprenditori sostenere che la scolarizzazione sia un requisito indispensabile per accedere a un’posto di lavoro; è facile infatti dimostrare che tale pretesa è necessariamente antidemocratica perché comporta un’inevitabile discriminazione. La Great Training Robbery, la grande rapina dell’istruzione, così efficacemente denunciata da Ivar Berg, è ormai destinata a subire continue contestazioni da parte di studenti, imprenditori e contribuenti.

Recuperare la responsabilità di insegnare e imparare

Una rivoluzione contro queste forme di privilegio e di potere che si basano sul possesso di un titolo ufficiale di studio deve partire da un modo diverso di concepire l’apprendimento. Ciò vuol dire, soprattutto, intendere in maniera diversa la responsabilità di insegnare e di imparare. Il sapere può essere definito merce solo se lo si considera come il risultato di un’impresa istituzionale o come la realizzazione di obiettivi istituzionali. Se si recupera il senso della responsabilità personale di ciò che s’impara o s insegna, diventa possibile spezzare questo incantesimo e colmare il distacco tra l’istruzione e la vita.

Recuperare il potere d’imparare o d’insegnare significa che l’insegnante il quale si azzarda a intromettersi negli affari privati di un’altra persona si assume anche la responsabilità dei risultati. Parimenti, lo studente che si espone all’influenza di un insegnante deve assumersi la responsabilità della propria istruzione. In questo quadro le istituzioni educative – se proprio sono necessarie – si configurano idealmente come dei centri di servizi dove uno possa trovare l’ambiente a lui adatto e avere accesso a un pianoforte, a un forno, a dischi, libri o diapositive. Le scuole, le stazioni televisive, i teatri e via dicendo sono concepiti principalmente in funzione di un loro uso da parte dei professionisti. Descolarizzare la società significa anzitutto negare lo statuto professionale di quella che è la seconda tra le più antiche professioni del mondo, cioè l’insegnamento. L’abilitazione di Stato degli insegnanti costituisce oggi un’indebita restrizione del diritto alla libertà di parola, così come la struttura corporativa e le pretese professionali del giornalismo costituiscono un’indebita restrizione del diritto alla libertà di stampa. Le norme che impongono l’obbligo di frequenza sono in contrasto con la libertà di riunione. La descolarizzazione della società non è altro che una mutazione culturale, mediante la quale un popolo recupera l’uso effettivo delle proprie libertà costituzionali: è la libertà di apprendere e di insegnare esercitata da uomini che sanno di essere nati liberi, non che vengono educati alla libertà. La maggior parte della gente impara, il più delle volte, quando fa qualcosa che le piace; la maggior parte della gente è curiosa e vuole trovare un significato in tutto ciò con cui viene a contatto; e la maggior parte della gente è capace di rapporti personali autentici con gli altri, quando non sia ottenebrata da un lavoro disumano o spenta dalla scolarizzazione.

Il fatto che nei paesi ricchi la gente non impari molto per conto proprio non è prova del contrario; è piuttosto conseguenza del vivere in un ambiente dal quale, paradossalmente, non si può imparare molto proprio perché è così rigidamente programmato. Gli individui sono costantemente frustrati dalla struttura della società contemporanea, dove i fatti sulla cui base si prendono le decisioni sono diventati quanto mai sfuggenti. Si vive in un ambiente dove gli strumenti utilizzabili per scopi creativi sono ormai articoli di lusso, un ambiente dove i canali di comunicazione sono fatti per permettere a pochi di parlare ai molti.

Una nuova tecnologia, non una nuova educazione

Kenneth-BouldingNegli anni di Kennedy venne fuori una tipica immagine che, attraverso gli scritti di Kenneth Boulding, ha ottenuto largo credito nel pensiero economico: il patrimonio di sapere. Questo prezioso bene sociale sarebbe costituito dall’accrezione cumulativa degli escrementi mentali prodotti dagli individui migliori e più svegli. Si è cioè immaginato, al posto dei mucchi di terra o d’oro dei precedenti capitalismi, un “capitale” anale. Lo custodiscono, anziché i banchieri e gli speculatori, gli scienziati e gli specialisti nell’immagazzinamento e ricupero dell’informazione. Crescendo fino a raggiungere una massa critica, questa accumulazione produce interesse. Un, tipo particolare di esperto in marketing, chiamato “educatore”, distribuisce tale ricchezza incanalandola verso coloro che godono del privilegio di poter accedere ai piani alti di quélla borsa internazionale del sapere che va sotto il nome di “scuola”. Qui, costoro acquistano dei titoli di possesso di sapere, che accrescono il valore sociale del detentore. In certe società questo valore si traduce principalmente in incremento del reddito personale, mentre nelle società dove il capitale di sapere è considerato troppo prezioso per finire come proprietà privata, il valore si traduce in potere, rango e privilegi. Questo singolare trattamento è razionalizzato con le pompose onoranze che si tributano ai custodi di tale patrimonio ogni volta che lo destinano a un nuovo uso.

Questa concezione influisce anche sul nostro modo di pensare lo sviluppo della tecnologia moderna. Un mito contemporaneo vorrebbe farci credere che la sensazione di impotenza oggi avvertita dalla maggioranza della gente sia l’effetto di una tecnologia che non può fare a meno di creare sistemi giganteschi. Ma non è la tecnologia a rendere giganteschi i sistemi, immensamente potenti gli strumenti, unidirezionali i canali di comunicazione: al contrario, se adeguatamente controllata, la tecnologia potrebbe fornire a tutti la capacità di comprendere meglio il proprio ambiente e di plasmarlo con le proprie mani, e consentirebbe a ciascuno una pienezza di intercomunicazione quale non è mai stata possibile prima d’ora. Questo uso alternativo della tecnologia è anche l’alternativa centrale nel campo dell’istruzione.

compiti estiviPer crescere, una persona ha anzitutto bisogno di poter accedere a cose, a luoghi, a processi, a eventi e a documenti. Ha bisogno di vedere, di toccare, di armeggiare, di cogliere tutto ciò che un ambiente significante contiene. Oggi questa possibilità d’accesso è in gran parte preclusa. Divenuto una merce, il sapere ha acquisito le protezioni della proprietà privata, e un principio inteso a salvaguardare l’intimità personale è diventato argomento per escludere da certi fatti chi non possieda le credenziali appropriate. Nelle scuole gli insegnanti tengono per sé il sapere, a meno che non coincida con il programma della giornata. I media informano, ma tolgono di mezzo tutto ciò che ritengono inopportuno riprodurre.

L’informazione è sigillata in linguaggi speciali, e insegnanti specializzati si guadagnano da vivere ritraducendola. I brevetti sono diritto riservato delle aziende, i segreti competenza delle burocrazie, e il potere di escludere gli altri dalle riserve private – siano esse cabine di guida, uffici legali, depositi di rottami o cliniche – è gelosamente custodito da professioni, istituzioni, nazioni. Né la struttura politica né quella professionale delle nostre società, d’Oriente come d’Occidente, resisterebbero alla perdita del potere di escludere intere classi della popolazione da fatti di cui queste potrebbero utilmente avvalersi. L’accesso ai fatti che io auspico va ben oltre la veridicità delle etichette: deve consistere nel contatto con la realtà, mentre da un messaggio pubblicitario noi esigiamo soltanto che non ci inganni. L’accesso alla realtà è un’alternativa di fondo a un sistema che invece pretende di insegnarla.

Abolire il diritto al segreto di gruppo – anche laddove le professioni sostengono che la segretezza giova al bene comune – è, come si vedrà tra poco, un obiettivo politico assai più radicale della tradizionale richiesta di trasferire alla collettività la proprietà o il controllo degli strumenti di produzione. La socializzazione degli strumenti non accompagnata da un’effettiva socializzazione del know-how necessario per il loro uso tende a porre il capitalista di sapere nella posizione prima occupata dal finanziere. L’unico titolo su cui il tecnocrate fonda il suo potere è il patrimonio da lui posseduto in qualche settore della conoscenza ristretto e segreto, e il miglior modo per salvaguar-darne il valore è una grossa organizzazione ad alta intensità di capitale che renda estremamente arduo l’accesso al know-how.

Al discente interessato non occorre molto tempo per apprendere pressoché tutte le abilità di cui voglia servirsi. Questo noi tendiamo a dimenticarlo, in una società dove non c’è campo il cui ingresso non sia monopolizzato da docenti di professione, che perciò tacciano di ciarlataneria l’insegnamento impartito da persone prive di titolo formale. Poche abilità meccaniche impiegate nell’industria o nella ricerca sono così impegnative, complesse e pericolose come la guida di un’auto, che la maggioranza della gente impara presto da un suo pari. Non tutti hanno una inclinazione per la logica superiore, ma quelli che l’hanno fanno progressi rapidi se vengono precocemente allenati a fare giochi matematici. A Cuernavaca un ragazzo su venti è in grado di battermi a Whiff’n’ Proof dopo una quindicina di giorni dacché ha cominciato a impararlo. Al nostro centro CIDOC nel giro di quattro mesi tutti gli adulti motivati, tranne una minuscola percentuale, riuscivano a imparare lo spagnolo abbastanza per svolgere attività universitaria in questa lingua.

Un primo passo per consentire l’accesso alle abilità potrebbe consistere nel fornire vari incentivi agli individui già esperti che fossero disposti a mettere in comune il proprio sapere.

Inevitabilmente ciò andrebbe contro gli interessi delle corporazioni, delle professioni e dei sindacati. Tuttavia un apprendistato multiplo è affascinante: offre a ognuno la possibilità d’imparare qualcosa in pressoché tutti i campi. Non c’è motivo per cui una persona non dovrebbe associare in sé la capacità di guidare un veicolo, di riparare un telefono o un gabinetto, di assistere una partoriente e di fare del disegno architettonico. I gruppi che difendono interessi particolari nonché i loro disciplinati clienti sosterranno naturalmente che il pubblico ha bisogno d’esser tutelato da una garanzia professionale; ma è un discorso che viene ormai regolarmente contestato dalle varie associazioni per la protezione del consumatore. Molto più sul serio dobbiamo invece prendere l’obiezione che alla socializzazione radicale delle abilità viene mossa dagli economisti, e cioè che democratizzando il sapere brevetti, tecniche e via dicendo – si scoraggerebbe il “progresso”. E un’obiezione che si può superare solo mettendo in luce il tasso di crescita delle diseconomie futili che sono generate da tutti i sistemi d’istruzione esistenti.

La possibilità di accedere alle persone disposte a spartire le proprie abilità non basta a garantire l’apprendimento. Tale possibilità è infatti limitata non solo dal monopolio che i programmi scolastici da una parte e i sindacati dall’altra esercitano rispettivamente sui contenuti e sulle modalità dell’istruzione, ma anche da una tecnologia di penuria. Le abilità che oggi contano di più riguardano l’uso di strumenti che sono di per sé rari. Tali strumenti producono beni o rendono servizi che tutti vorrebbero ma di cui pochi soltanto possono fruire, e solo un numero limitato di persone è in grado di usarli. Sulla totalità degli individui affetti da una data malattia soltanto pochi privilegiati beneficiano dei frutti di una tecnologia medica sofisticata, e sono ancora meno i medici che acquisiscono la capacità di servirsene.

Tuttavia i medesimi frutti della ricerca medica hanno dato luogo a un’attrezzatura essenziale che oggi permette, per esempio, ai soldati di sanità di ottenere in condizioni di emergenza, con solo qualche mese d’addestramento, risultati che un medico a pieno titolo non avrebbe neppure immaginato durante la seconda guerra mondiale. A un livello ancora più semplice, qualsiasi giovane contadina sarebbe oggi in grado di diagnosticare e curare la maggior parte delle malattie infettive se i professionisti della scienza medica preparassero dosi e istruzioni specifiche per una determinata area geografica.

Come si ricava da tutti questi esempi, già delle considerazioni educative sono sufficienti per esigere un radicale ridimensionamento della struttura professionale che oggi ostacola il rapporto tra il ricercatore e la maggioranza della gente che vuole accedere alla scienza. Se si prestasse ascolto a questa richiesta, tutti gli uomini potrebbero imparare a usare gli strumenti di ieri, resi più efficaci e durevoli dalla scienza d’oggi, per creare il mondo di domani.

Purtroppo, quella che prevale oggi è la tendenza esattamente opposta. Conosco una zona costiera dell’America meridionale dove la maggior parte della popolazione si guadagna da vivere praticando la pesca su piccole barche.

Il motore fuoribordo è senza dubbio lo strumento che ha cambiato nel modo più drastico la vita di questi pescatori. Ma nella zona da me studiata, il cinquanta per cento dei fuoribordo acquistati tra il 1945 e il 1950 funziona ancora grazie a continui aggiusti, mentre il cinquanta per cento dei fuori bordo acquistati nel 1965 non va più perché questi ultimi sono stati fabbricati in modo da non poter essere riparati. Il progresso tecnologico fornisce alla maggioranza congegni che essa non può permettersi, mentre la priva degli strumenti più semplici di cui ha bisogno.

Il cemento armato, i metalli e le materie plastiche che si usano nell’edilizia hanno fatto grandi progressi dagli anni ’40 e dovrebbero offrire a un maggior numero di persone la possibilità di costruirsi la propria casa. Ma mentre nel 1948 più del 30 per cento delle case unifamiliari degli Stati Uniti erano state fabbricate dal loro proprietario, alla fine degli anni ’60 la percentuale dei costruttori in proprio era scesa a meno del 20 per cento.

La caduta del livello delle capacità dovuta al cosiddetto sviluppo economico è ancor più visibile nell’America Latina. Qui la maggioranza della gente continua a costruirsi la propria casa dalle fondamenta al tetto. Spesso usa il fango in forma di mattoni e la paglia per la copertura, materiali d’insuperata utilità in un clima umido, caldo e ventoso. Altrove si ricava un’abitazione da cartoni, fusti di benzina e altri rifiuti industriali. Invece di fornire alla gente delle attrezzature semplici e dei componenti fortemente standardizzati, durevoli e facili da riparare, tutti i governi si sono messi a produrre in serie edifici a basso costo. E chiaro che nessun paese può permettersi di fornire unità d’abitazione moderne e soddisfacenti alla maggioranza della sua popolazione; e tuttavia non c’è

paese dove questa politica non stia rendendo progressivamente più difficile per la maggioranza l’acquisizione delle conoscenze e delle capacità di cui essa avrebbe bisogno per costruirsi da sola delle case migliori.

“Povertà” autodeterminata

Bob Albrecht - People Computer Company (1978)

Bob Albrecht – People Computer Company (1978)

Considerazioni educative ci permettono di formulare una seconda caratteristica fondamentale che ogni società postindustriale dovrebbe avere: un corredo di attrezzatura di base che per sua stessa natura controbilanci il dominio tecnocratico. Per ragioni educative, dobbiamo mirare verso una società dove il sapere scientifico sia incorporato in strumenti e componenti che possano essere adoperati, per scopi dotati di senso, in unità abbastanza piccole perché siano alla portata di tutti. Soltanto simili strumenti possono socializzare l’accesso alle abilità. Soltanto simili strumenti consentono associazioni temporanee tra coloro che vogliono adoperarli per occasioni specifiche. Soltanto simili strumenti lasciano emergere progetti specifici nell’atto del loro uso, come sa ogni bricoleur. Solo combinando entrambe le condizioni di cui finora ho parlato, l’accesso garantito ai fatti e una limitata potenza della maggior parte degli strumenti, si può concepire un’economia di sussistenza capace di incorporare in sé i frutti della scienza moderna.

Nei paesi poveri, lo sviluppo di una cosiffatta economia scientifica di sussistenza andrebbe senza alcun dubbio a vantaggio della stragrande maggioranza della gente. E anche per i paesi ricchi essa è l’unica alternativa al progressivo aggravarsi dell’inquinamento, dello sfruttamento, dell’opacità. Ma come abbiamo già visto, non si può detronizzare il Prodotto Nazionale Lordo senza sovvertire al tempo stesso l’Educazione Nazionale Lorda, solitamente concepita come capitalizzazione di forza lavoro. Non può esistere un’economia egualitaria in una società dove sono le scuole a conferire il diritto di produrre.

La realizzabilità di un’economia di sussistenza moderna non dipende da nuove invenzioni scientifiche. Dipende soprattutto dal fatto che una società sia capace di concordare limitazioni fondamentali, autodeterminate, antiburocratiche e antitecnocratiche.

Queste autolimitazioni sociali possono assumere varie forme, ma non possono funzionare se non attengono alle dimensioni fondamentali della vita. (La decisione del Congresso degli Stati Uniti di non realizzare l’aereo da trasporto supersonico è uno dei passi più incoraggianti nella direzione giusta.) La loro sostanza dovrebbe essere costituita da cose molto semplici, pienamente comprensibili e valutabili da ogni persona di buon senso (ne sono un buon esempio le questioni in gioco nella controversia del supersonico). Tutte le limitazioni di questo tipo dovrebbero favorire uno stabile ed eguale godimento del sapere scientifico. I francesi dicono che ci vogliono mille anni perché un contadino impari ad accudire una mucca; ma basterebbe meno di due generazioni per aiutare tutti gli abitanti dell’America Latina o dell’Africa a usare e riparare fuori-bordo, autoveicoli semplici, pompe, cassette di medicinali e betoniere, solo che non se ne cambiasse il modello ogni pochi anni. E poiché una vita ricca di godimento è una vita di rapporti costantemente significativi con gli altri in un ambiente significativo, l’eguaglianza di godimento non può che tradursi in eguaglianza di educazione.

Per il momento, un consenso generale sull’austerità è difficile da immaginare. La ragione che di solito si dà per spiegare l’impotenza della maggioranza è formulata in termini di classi politiche o economiche; ciò che di solito non si comprende è che la nuova struttura di classe di una società scolarizzata è ancora più potentemente dominata da taluni interessi costituiti. Certo, un’organizzazione imperialistica e capitalistica della società genera una struttura sociale entro la quale una minoranza è in grado di esercitare un’influenza sproporzionata sull’opinione della maggioranza. Ma in una società tecnocratica il potere d’una minoranza di capitalisti del sapere può impedire che si formi un’autentica opinione pubblica controllando le capacità scientifiche e i mezzi di comunicazione. Le garanzie costituzionali delle libertà di parola, di stampa e di riunione intendevano assicurare il governo del popolo. L’elettronica, i moderni procedimenti di fotocomposizione e di stampa in offset, i calcolatori che operano in tempo reale, i telefoni offrono in teoria un’attrezzatura che potrebbe dare a quelle libertà un senso del tutto nuovo. Ma purtroppo questi strumenti vengono impiegati nei media moderni per accrescere il potere, proprio dei banchieri del sapere, di convogliarBig Brothere i loro programmi preconfezionati, tramite catene internazionali, verso un maggior numero di persone, anziché essere usati per incrementare delle vere reti capaci di offrire eguali occasioni d’incontro fra i membri della maggioranza.

La descolarizzazione della cultura e della struttura sociale richiede che la tecnologia venga usata in modo da consentire una politica partecipativa. Solo sulla base di un accordo della maggioranza si possono fissare limiti alla segretezza e alla crescente potenza, senza ricorrere a una dittatura. Abbiamo bisogno di un ambiente nuovo in cui si possa crescere senza essere divisi in classi: altrimenti avremo uno splendido mondo nuovo in cui saremo tutti educati dal Grande Fratello.

 

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