John Locke, Della proprietà

by gabriella

Locke1Dal capitolo V del Secondo Trattato sul governo civile.

  1. (…) Dio, che ha dato il mondo agli uomini in comune ha anche dato loro la ragione, per farne l’uso più vantaggioso alla vita e più comodo. La terra e tutto ciò che vi si trova è data agli uomini per la sussistenza e il conforto della loro esistenza. Ma, sebbene tutti i frutti ch’essa produce naturalmente e gli animali ch’essa nutre, in quanto sono prodotti spontaneamente dalla natura, appartengono agli uomini in comune, e sebbene nessuno abbia originariamente, ad esclusione degli altri uomini, dominio privato su alcuno di essi fin tanto che sono a quel modo nel loro stato naturale, tuttavia, dal momento che sono dati per l’uso degli uomini, vi deve essere necessariamente un mezzo per appropriarsene in una qualche maniera, prima che possano essere in qualche modo di uso o di vantaggio a un singolo. La frutta o la cacciagione che nutre il selvaggio delle Indie, il quale non conosce recinti, e continua ad essere concessionario in comune, deve esser sua, e in tal modo sua, cioè a dire parte di lui, che un altro non può avervi alcun diritto se non quando gli sia utile per la sussistenza della sua vita.

  1. Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone.
  1. Chi si nutre delle ghiande ch’egli coglie sotto una quercia o delle mele che raccoglie dagli alberi di una foresta, certamente se le è appropriate. Nessuno può negare che questo cibo sia suo. Domando allora: quando hanno cominciato ad essere sue? quando le ha digerite? o quando le mangia? o quando le ha cotte? o quando le ha portate a casa? o quando le ha colte? chiaro che se non è il primo atto di raccoglierle quello che le rende sue, nessun altro atto lo potrebbe. E’ quel lavoro che ha posto una differenza tra quei frutti e quelli comuni, in quanto vi ha aggiunto qualcosa di più di quel che ha fatto la natura, madre comune di tutti, e così essi diventano suo diritto privato. (…) È il lavoro ch’è stato mio, cioè a dire il rimuovere quelle cose dello stato comune, in cui si trovavano, quello che ha determinato la mia proprietà su di esse.
  1. Se fosse necessario il consenso esplicito di ogni membro della comunità perché ci si possa appropriare una parte di ciò ch’è dato in comune, i figli o i servi non potrebbero tagliare il cibo che il padre o il padrone ha provveduto loro in comune, senza assegnare a ciascuno la sua parte particolare. Sebbene l’acqua che scorre in una fontana sia di tutti, chi può dubitare tuttavia che quella ch’è in un secchio appartenga esclusivamente a colui che l’ha attinta? Il suo lavoro l’ ha presa dalle mani della natura, in cui era comune e apparteneva ugualmente a tutti i figli di lei, e con ciò se l’è appropriata.
  1. (…) E così, considerata l’abbondanza di scorte naturali che da tanto tempo sono al mondo, e i pochi consumatori, e quanto piccola parte di tali scorte potrebbe l’industria di un uomo raggiungere e accaparrarsi a pregiudizio di altri, specialmente se attinge, entro i limiti stabiliti dalla ragione, da ciò che può servire al suo uso, ben scarsa occasione rimarrebbe per dispute o contese sulla proprietà così stabilita.
  1. Ma poiché ora il principale oggetto della proprietà consiste non nei frutti della terra o negli animali che vivono in essa, ma nella terra stessa, come quella che comprende in sé e porta con sé tutto il resto, mi pare evidente che anche la proprietà della terra sia acquisita allo stesso modo che l’altra. Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune. (…)
  1. Né questa appropriazione di una porzione di terra in base alla coltivazione di essa torna a pregiudizio per altri, poiché ne rimane sempre abbastanza e altrettanto buona, e più di quanta possa servire a chi ne è ancora sprovvisto. Così che, in realtà, per un’appropriazione particolare ne rimane tuttavia sempre per gli altri, perché chi ne lascia quanta possa servire ad altri, fa come se non ne avesse punto presa. Colui a cui rimane un intero fiume a sedare la sua sete, non può ritenersi offeso se un altro beve, sia pure a grandi sorsi, della medesima acqua; e il caso della terra e quello dell’acqua, quando dell’una e dell’altra ve ne sia abbastanza, sono perfettamente identici.
  1. Dio ha dato il mondo agli uomini in comune, ma poiché egli l’ha dato loro a loro vantaggio e onde ne traggano i massimi comodi di vita che possano, è impossibile supporre esser sua intenzione ch’esso debba sempre rimanere comune e incolto. Egli l’ha dato per l’uso degli uomini industriosi e ragionevoli, e il lavoro è il titolo che l’uomo deve presentare per possederlo, e non per il capriccio e la cupidigia dei litigiosi e dei rissosi. Colui a cui rimane per la sua coltivazione una parte di terra altrettanto buona quale è quella che è già stata presa, non ha motivo di dolersi, né deve immischiarsi in ciò che un altro ha già coltivato con il suo lavoro: se lo fa, è chiaro che voleva beneficiare delle fatiche altrui, su cui non ha alcun diritto, e non della terra che Dio gli ha dato da lavorare in comune con gli altri, e di cui rimane una parte altrettanto buona quale è quella che già è posseduta, e più di quanto egli sappia che farsene o la sua industria possa sfruttare.
  1. La misura della proprietà è stata dalla natura ben stabilita in base all’entità del lavoro dell’uomo e dei comodi della vita; non c’è lavoro umano che possa sottomettere o appropriarsi tutto, né fruizione che possa consumare più che una piccola parte, così ch’è impossibile che un uomo per questa via invada il diritto di un altro, o si acquisti una proprietà a pregiudizio del vicino, il quale, dopo ch’egli ha preso la sua parte, avrebbe sempre posto per un possesso altrettanto buono e ampio quanto quello che avrebbe potuto trovare prima. Tra questa misura e quella che limitò il possesso di ciascuno a proporzioni ben modeste e tali che ciascuno potesse appropriarselo senza offendere alcuno, nelle prime età del mondo, quando per gli uomini era maggiore il pericolo di perdersi, allontanandosi dai loro compagni, negli allora vasti deserti della terra, che quello di trovarsi allo stretto per mancanza di spazio da coltivare. La stessa misura può continuare ad ammettersi senza pregiudizio di alcuno per quanto il mondo appaia popolato: (…) poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti, anche se l’invenzione della moneta e il tacito accordo degli uomini a porvi valore, non avessero introdotto per consenso più ampi possessi, e il diritto ad averli; e come ciò sia avvenuto, mostrerò tosto più diffusamente.
  1. Questo è certo, che al principio, prima che il desiderio di possedere più di quanto si abbia bisogno avesse alterato il valore intrinseco delle cose; che non dipende dalla loro utilità per la vita dell’uomo, o avesse convenuto che un piccolo pezzo di metallo giallo, che si conservasse senza guastarsi o deteriorarsi, valesse un grande pezzo di carne o un intero mucchio di frumento, sebbene gli uomini avessero il diritto di appropriare, col proprio lavoro, ciascuno a se stesso, tante cose naturali quante potessero usare, tuttavia ciò non sarebbe stato molto, né avrebbe recato pregiudizio ad altri, quando la stessa abbondanza rimaneva sempre a coloro che avessero impiegato la stessa industria. Al che si aggiunga che chi si appropria terra col suo lavoro, non diminuisce, ma aumenta le scorte comuni dell’umanità, perché le provvigioni che servono per la sussistenza della vita umana, prodotte da un solo iugero di terreno cintato e coltivato, sono – per dirla con un rapporto assai moderato – dieci volte maggiori di quelle che son prodotte da un iugero di terra di eguale fertilità lasciata deserta in comune. E perciò chi recinge una terra, ed ha da dieci iugeri un’abbondanza di comodi della vita maggiore di quella che avrebbe da cento iugeri lasciati allo stato naturale, si può veramente dire che ha dato all’umanità novanta iugeri, perché il suo lavoro lo fornisce attualmente di provvigioni tratte da dieci iugeri, le quali non sarebbero che il prodotto di cento iugeri lasciati in comune. (…)
  1. Da tutto ciò è evidente che, sebbene le cose di natura siano date in comune, tuttavia l’uomo, in quanto è padrone di se stesso, e proprietario della propria persona, e degli atti e del lavoro di questa, ha sempre avuto in sé il primo fondamento della proprietà, e ciò che costituiva la massima parte di quanto egli impiegava per la sussistenza e il conforto della propria esistenza, quando l’invenzione e la tecnica migliorarono i comodi della vita, era assolutamente suo, e non apparteneva ad altri in comune.
  1. A questo modo fu il lavoro, al principio, che conferì un diritto di proprietà ovunque si volesse esercitarlo su ciò che era comune, che per lungo tempo rimase la parte di gran lunga maggiore, ed è tuttora più di quella di cui gli uomini fanno uso. (…)
  1. (…) Ora, su quei beni che la natura ha provveduto in comune, ciascuno, come s’è detto, aveva diritto, per quanto poteva farne uso, e proprietà, per tutto quanto poteva realizzare col suo lavoro: tutte le cose su cui poteva estendersi la sua industria a trasformarle dallo stato in cui la natura le aveva poste, erano sue. Chi raccoglieva cento staia di ghiande o di mele, ne aveva con ciò stesso la proprietà: esse diventavano beni suoi appena egli le aveva raccolte. Doveva soltanto badare a servirsene prima che andassero perdute, altrimenti prendeva più della sua parte e derubava gli altri. Ed era davvero tanto insensato quanto disonesto accumulare più di quanto non potesse usare. Se ne dava una parte a qualcun altro, sì che non andasse in rovina inutilizzata in suo possesso, in questo caso si può dire che ne aveva fatto uso. E se barattava prugne, che sarebbero marcite in una settimana, con noci, che perdurassero buone da mangiare per un anno intero, non faceva ingiustizia: non rovinava le scorte comuni, né distruggeva in nulla la porzione di beni che apparteneva ad altri, fin tanto che nulla andava in rovina inutilizzato nelle sue mani. E ancora, se egli voleva dare le sue noci per un pezzo di metallo, attratto dal suo colore, o cambiare le sue pecore con conchiglie, o la sua lana con pietre luccicanti o con un diamante, e tenerseli per tutta la vita, non violava il diritto altrui, e poteva ammassare quante ne voleva di queste cose durevoli, dal momento che l’eccedere i limiti della giusta proprietà non sta nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzato nel possesso di alcuno.
  1. E così siamo giunti all’uso della moneta, cioè a dire di qualcosa di durevole che si può tenere senza che vada perduto, e che per mutuo consenso si può prendere in cambio dei mezzi di sussistenza per la vita che sono utili, si, ma corruttibili.
  1. E come gradi diversi d’industria conferivano agli uomini possessi in proporzioni diverse, così questa invenzione della moneta diede loro la possibilità di accrescerli ed estenderli; (…).
  1. (…) Appena scoprì qualcosa che presso i suoi vicini avesse la funzione e il valore della moneta, l’uomo cominciò subito a estendere i suoi possessi.
  1. Ma poiché l’oro e l’argento, essendo poco utili alla vita dell’uomo in rapporto al nutrimento, al vestiario e al mantenimento, non ricevono il loro valore che dal consenso degli uomini, il cui lavoro, tuttavia, ne costituisce in gran parte la misura, è chiaro che gli uomini hanno consentito a un possesso della terra sproporzionato e ineguale, dal momento ch’essi, per consenso tacito e volontario, hanno scoperto un modo con cui si può equamente possedere più terra di quanto si possano usarne i prodotti, col ricevere in cambio del soprappiú oro o argento, che possono essere accumulati senza far torto a nessuno, poiché questi metalli non vanno perduti né si deteriorano fra le mani del possessore. Questa partizione di beni nell’ineguaglianza di possessi privati, gli uomini l’hanno resa possibile fuori dai limiti della società e senza contratto, e soltanto mediante l’attribuzione di un valore all’oro e all’argento, e un tacito accordo sull’uso della moneta, perché nei governi sono le leggi che regolano il diritto di proprietà, e il possesso della terra è determinato da costituzioni positive.
  1. E così mi sembra che sia facilissimo intendere come il lavoro abbia dato origine a un titolo di proprietà sui comuni beni di natura, e come la proprietà sia limitata a ciò che possiamo consumare per i nostri usi. Così che non vi poté esser allora alcun motivo di controversia intorno a quel diritto, né alcun dubbio intorno all’estensione del possesso ch’esso conferiva. Diritto e comodità andavano insieme, perché come un uomo aveva diritto a tutto ciò in cui avesse impiegato il suo lavoro, così non era tentato di lavorare per più di quanto potesse usare. Il che non lasciava luogo a controversie intorno al titolo né a violazioni del diritto altrui: si vedeva facilmente quale porzione un uomo tagliava per sé, ed era tanto inutile quanto disonesto tagliarne troppa o prendersene di più di quanto non se ne avesse bisogno.

 

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