Karl Polanyi, La fallacia economicista

by gabriella

Karl-PolanyiTratto da K. Polanyi, The Livelihood of Man (1971) trad. it. La sussistenza dell’uomo, Einaudi, Torino, 1983, pp. 28-36 e 42-47.

Il passo cruciale fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (come la terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (come il lavoro).
Eppure non fu mai escogitata finzione più efficace […].
La vera portata di un passo del genere può essere valutata se teniamo presente che «lavoro» e «terra» non sono altro che modi alternativi di definire, rispettivamente, l’uomo e la natura. La finzione della merce affidò il destino dell’uomo e della natura al giuoco di un automa che si muoveva nelle sue guide ed era governato dalle sue leggi.

Karl Polanyi

Gli sforzi compiuti per giungere ad una visione più realistica del problema generale posto alla nostra generazione dalla sussistenza umana si imbattono fin dall’inizio in un ostacolo formidabile: un’abitudine mentale inveterata caratteristica delle condizioni di vita di quel tipo di economia che il secolo XIX ha creato in tutte le società industrializzate. Questa mentalità si esprime nel modo di ragionare legato alle pratiche di mercato. In questo capitolo sarà nostro compito rilevare preliminarmente le falla cui quel modo di pensare ha dato origine e, incidentalmente, spiegare alcune delle ragioni per cui queste fallacie hanno influenzato così capillarmente il pensiero delle nostre società.

Definiremo dapprima la natura di questo anacronismo concettuale, poi descriveremo lo sviluppo istituzionale da cui ha avuto origine e ci occuperemo dell’influenza che esso ha su tutta la nostra concezione morale e filosofica. Individueremo i riflessi di questo atteggiamento mentale nei campi organizzati della conoscenza, quali la teoria economica, la storia economica, l’antropologia, la sociologia, la psicologia e l’epistemologia, che costituiscono le scienze sociali. Un’analisi del genere non dovrebbe lasciare alcun dubbio quanto all’impatto del pensiero economicistico su quasi tutti gli aspetti dei problemi che ci stanno dinanzi, soprattutto di quello consistente nello stabilire la natura delle istituzioni economiche, delle politiche e dei principi che si sono rivelati i nelle forme di organizzazione della sussistenza nel passato.

Sintetizzare l’illusione fondamentale di un’età in termini di un errore logico raramente si rivela un modo di procedere adeguato; eppure dal punto di vista concettuale è per forza di cose impossibile descrivere altrimenti l’illusione economicistica. L’errore logico era di tipo comune e innocuo: si riteneva in qualche modo che un fenomeno vasto e genericofosse identico ad una specie che si dà il caso ci sia familiare. Considerato in questi termini, l’errore consisteva nello stabilire un’uguaglianza fra l’economia umana in generale e la sua forma di mercato (un errore che può essere stato facilitato dalla fondamentale ambiguità del termine economico su cui ritorneremo in seguito). La fallacia è palese: l’aspetto fisico dei bisogni dell’uomo fa parte della condizione umana; nessuna società può esistere senza possedere un qualche tipo di economia sostanziale. Il meccanismo offerta-domanda-prezzo (comunemente denominato mercato), d’altra parte, è un’istituzione relativamente moderna avente una struttura specifica, che non è facile costituire né far funzionare. Restringere la sfera del genus economico agli specifici fenomeni di mercato vuol dire eliminare dalla scena la maggior parte della storia umana. D’altra parte, stiracchiare il concetto di mercato fino a farvi rientrare tutti i fenomeni economici vuol dire attribuire artificialmente a tutti gli oggetti economici le caratteristiche peculiari che accompagnano il fenomeno del mercato. Il pensiero perde fatalmente di chiarezza.

I pensatori realisti hanno invano enunciato la distinzione fra l’economia in generale e le sue forme di mercato; questa distinzione fu ripetutamente oscurata dallo Zeitgeist economicistico. Questi pensatori sottolinearono il significato sostantivo dell’economico. Essi identificarono l’economia con l’industria anziché con gli affari; con la tecnologia anziché con il ritualismo; con i mezzi di produzione anziché con i diritti di proprietà; con il capitale produttivo anziché con quello finanziario; con i beni capitali anziché con il capitale; in breve, con la sostanza economica anziché con la sua forma e la sua terminologia di mercato. Ma le circostanze erano più forti della logica, e forze storiche preponderanti erano all’opera per saldare insieme questi concetti disparati.

1. L’economia e il mercato

quesnayIl concetto di economia fu generato dai fisiocratici francesi contemporaneamente all’emergere dell’istituzione del mercato in quanto meccanismo offerta-domanda-prezzo. Il nuovo fenomeno, senza precedenti, era costituito dall’interdipendenza di prezzi fluttuanti, che influenzavano direttamente moltitudini di uomini. Questo mondo nascente di prezzi era portato dalla diffusione relativamente recente del commercio – un’istituzione molto più antica dei mercati e indipendente da essi – nelle articolazioni della vita quotidiana.

Naturalmente i prezzi esistevano già, ma non costituivano in alcun modo un loro sistema. La loro sfera era, per forza di cose, limitata al commercio e alla finanza, poiché solo i mercanti e i banchieri impiegavano regolarmente il denaro, essendo una parte molto maggiore dell’economia rurale e praticamente priva di scambi – nel vasto, inerte corpo della vita di vicinato che si svolgeva nel feudo e nell’economia domestica, il flusso dei beni aveva dimensioni esigue. È vero, nei mercati urbani la moneta e i prezzi erano noti, ma il motivo reale del controllo di questi prezzi era quello di mantenerli stabili. Non già la loro occasionale fluttuazione, bensì la loro stabilità predominante ne facevano un fattore sempre più importante nella determinazione dei profitti del commercio, poiché questi ultimi derivavano da differenze fra prezzi relativamente stabili in punti distanti, e non da anomale fluttuazioni dei prezzi nei mercati locali.

Ma la mera infiltrazione del commercio nella vita quotidiana non avrebbe necessariamente creato un’economia, nel senso nuovo e caratterizzante del termine, se non fosse stato per una serie di ulteriori sviluppi istituzionali.Fra questi vi era in primo luogo la penetrazione del commercio estero nei i mercati, che li trasformò gradualmente da mercati locali strettamente controllati in mercati che determinavano i prezzi, con vari gradi di libertà di fluttuazione da parte di questi ultimi. Con l’andar del tempo questo sviluppo fu seguito dall’innovazione rivoluzionaria dei mercati a prezzi fluttuanti dei fattori di produzione, lavoro e terra. Questo mutamento fu, per natura e conseguenze, il più radicale di tutti. Eppure fu solo dopo un certo tempo dal suo inizio che i diversi prezzi, che ora includevano i salari, i prezzi dei viveri e la rendita, mostrarono un’interdipendenza apprezzabile e produssero le condizioni che costrinsero gli uomini ad accettare la presenza di una realtà sostantiva fin lì ignorata. Tuttavia questo campo emergente di esperienza era l’economia, e la sua scoperta – una delle esperienze emotive e intellettuali che hanno plasmato il nostro mondo – fu per i fisiocratici un’illuminazione e ne fece una setta filosofica.

Adam-Smith-The-Wealth-of-NationsAdam Smith apprese da essi la teoria della «mano invisibile», ma non seguì Quesnay sulla via del misticismo. Mentre il suo maestro francese si era limitato a rilevare l’interdipendenza di alcuni ricavi e la loro generale dipendenza dai prezzi del frumento l’allievo, che lo superò vivendo a contatto dell’economia meno feudale e più monetarizzata dell’Inghilterra, riuscì ad includere i salari e la rendita nel gruppo dei «prezzi» e quindi ad intravedere per la prima volta l’immagine della ricchezza delle nazioni come integrazione delle multiformi manifestazioni di un sottostante sistema di mercati. Adam Smith divenne il fondatore dell’economia politica poiché comprese, per quanto imperfettamente, che questi differenti tipi di prezzi tendevano all’interdipendenza in quanto erano determinati da mercati concorrenziali.

Benché dunque in origine questa rappresentazione dell’economia in termini di mercato non fosse altro che un modo basato sul senso comune di collegare nuovi concetti a nuovi fatti, per noi può essere difficile spiegarci perché ci volle qualche generazione per capire che quanto Quesnay e Smith avevano effettivamente scoperto era un campo di fenomeni sostanzialmente indipendenti da quell’istituzione del mercato in cui si manifestarono in quel tempo. Ma né Quesnay né Smith miravano a fondare l’economia come una sfera dell’esistenza sociale che trascende il mercato, la moneta o i prezzi; e nella misura in cui si proposero di farlo, non vi riuscirono. Essi tendevano non tanto all’universalità dell’economia quanto alla specificità del mercato. In realtà la tradizionale unità di tutte le sfere di attività umane che ancora informava il loro pensiero li portò a rifiutare l’idea che nella società esistesse una sfera economica separata, benché ciò non impedisse loro di attribuire all’economia le caratteristiche del mercato.

Adam Smith introdusse i metodi economici negli antri dell’uomo primordiale, proiettando la sua famosa propensione al traffico, al baratto e allo scambio perfino nel paradiso terrestre. L’approccio di Quesnay all’economia non era meno catallattico. La sua era l’economia del produit net, un’entità realistica in termini della contabilità del proprietario terriero, ma nient’altro che una chimera nel rapporto fra uomo e natura di cui l’economia è un aspetto. Il preteso «sovrappiù», la cui creazione egli attribuì alla terra e alle forze della natura, non era altro che una trasposizione nell’«ordine della natura» della disparità che ci si aspetta di rivelare fra prezzo di vendita e costo.

Accadde che l’agricoltura si trovò in primo piano perché i redditi della classe feudale dominante erano in discussione, ma da allora in poi la nozione di sovrappiù ricorse ossessivamente negli scritti degli economisti classici. Dal produit net discendono il plusvalore di Marx e i suoi derivati. Pertanto l’economia fu permeata di una nozione estranea al processo complessivo di cui essa fa parte, un processo che non conosce costi né profitti e non è una serie di atti che producono sovrappiù. Né è vero che le forze fisiologiche e psicologiche siano dirette dall’impulso di garantire un sovrappiù rispetto a se stesse. Né i gigli nei campi né gli uccelli cieli né gli uomini nei pascoli, nei campi o nelle fabbriche – dove allevano bestiame, coltivano messi o fanno uscire aeroplani da una catena di montaggio –producono un sovrappiù rispetto alla loro esistenza. Il lavoro, come il tempo libero e il riposo, è una fase dello svolgimento autosufficiente della vita umana. La nozione di sovrappiù fu semplicemente la proiezione del modello di mercato su un ampio aspetto di quell’esistenza: l’economia.
[NOTA] Si veda H.W. Pearson, The Economy Has No Surplus: Critique of a Theory of Development, in Trarle and Markets in the Early Empires, a cura di K. Polanyi, C. Arensberg e H. Pearson, Free Press and Falcon’s Wing Press, Glencoe (III). 1957 [trad. it. L’economia non ha surplus: critica di una teoria dello sviluppo, in Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, 1979].

Se l’identificazione, erronea dal punto di vista logico, dei «fenomeni economici» con i «fenomeni di mercato» fu comprensibile fin dall’inizio, in seguito divenne quasi un requisito pratico per la nuova società e il suo modo di vita che emersero dal travaglio della rivoluzione industriale. Il meccanismo offerta-domanda-prezzo, che appena comparso produsse la profetica nozione di «legge economica», divenne rapidamente una delle forze più potenti che siano mai apparse sulla scena umana. Nel giro di una generazione – diciamo fra il 1815 e il 1845, i «trenta anni di pace» di Harriet Martineau – il mercato che determina i prezzi di cui in precedenza esisteva soltanto qualche campione in vari port of trade e borse valori, dimostrò una capacità impressionante di organizzare gli esseri umani come elementi di materie prime, e di combinarli, insieme alla superficie della madre terra, che ora poteva essere liberamente commercializzata, in unità industriali dirette da privati impegnati soprattutto a comprare e vendere allo scopo di realizzare un profitto. In un periodo estremamente breve la mercificazione, applicata al lavoro e alla terra, trasformò la stessa sostanza della società umana.

L’identificazione di economia e mercato in pratica scaturiva da qui. La fondamentale dipendenza dell’uomo dalla natura e dai suoi simili per assicurarsi i mezzi necessari per la sua sopravvivenza, fu posta sotto il controllo di quella nuova creazione istituzionale estremamente potente, il mercato, che si sviluppò repentinamente da modeste origini. Questo congegno istituzionale che divenne la forza dominante dell’economia – ora giustamente descritta come economia di mercato – dette poi origine ad un altro sviluppo, anche più radicale, e cioè ad un’intera società incorporala nel meccanismo della sua stessa economia: una società di mercato. Da questo favorevole punto di osservazione non è difficile comprendere che quella che abbiamo chiamato fallacia economicistica fu un errore soprattutto dal punto di vista teorico. Sotto tutti gli aspetti pratici, ora l’economia constava effettivamente di mercati, e il mercato racchiudeva effettivamente la società.

Seguendo questa linea di pensiero, dovrebbe anche divenir chiaro che (‘importanza della concezione economicistica risiedeva esattamente nella sua capacità di dar luogo ad un’unità di motivazioni e valutazioni che in pratica avrebbe determinato quell’identità di mercato e società che essa preconizzava come un ideale. Infatti, soltanto se un modo di vita è organizzato in tutti i suoi aspetti rilevanti, incluse le concezioni dell’uomo e della natura della società – in modo da formare una filosofia della vita quotidiana che comprenda criteri di comportamento basati sul senso comune, l’accettazione di rischi ragionevoli e di una morale praticabile – ci è dato quel compendio di dottrine teoriche e pratiche che solo può produrre una società o, il che è equivalente, trasformare una data società nel corso della vita di una o due generazioni. E tale trasformazione fu compiuta, bene o male, dai pionieri dell’economicismo. Ciò equivale a dire che la mentalità legata alle pratiche di mercato conteneva i semi di un’intera cultura –con tutte le sue possibilità e ì suoi limiti – e che la rappresentazione dell’uomo e della società indotta dalla vita in un’economia di mercato scaturì necessariamente dalla struttura essenziale di una comunità umana organizzata mediante il mercato.

2. La trasformazione economicistica

Questa struttura rappresentava una violenta rottura con le condizioni precedenti. I mercati isolati, scarsamente diffusi di un tempo ora si tramutarono in un sistema autoregolato di mercati. Il passo cruciale fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (come la terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (come il lavoro).
Eppure non fu mai escogitata finzione più efficace. Poiché il lavoro e la terra erano acquistati e venduti liberamente, furono inseriti nel meccanismo del mercato. Ora vi era un’offerta e una domanda di lavoro, e un’offerta e una domanda di terra. Di conseguenza, vi era un prezzo di mercato, detto salario, per l’uso della forza lavoro, e un prezzo di mercato, detto affitto, per l’uso della terra. Il lavoro e la terra disponevano di propri mercati, simili a quelli delle merci vere e proprie prodotte con il loro ausilio.

La vera portata di un passo del genere può essere valutata se teniamo presente che «lavoro» e «terra» non sono altro che modi alternativi di definire, rispettivamente, l’uomo e la natura. La finzione della merce affidò il destino dell’uomo e della natura al giuoco di un automa che si muoveva nelle sue guide ed era governato dalle sue leggi. Questo strumento di benessere materiale era controllato esclusivamente dagli incentivi della fame e del guadagno; o, per l’esattezza, dal timore di rimanere senza mezzi di sussistenza o dall’aspettativa di profitto. Fintantoché nessun individuo privo di proprietà poteva soddisfare il suo bisogno di cibo senza aver prima venduto il suo lavoro sul mercato, e fintantoché non si poteva impedire ad alcuna persona dotata di proprietà di acquistare nei mercati meno cari e di vendere in quelli più cari, quella sorta di cieca macina avrebbe continuato a sfornare quantità sempre maggiori di merci a vantaggio della razza umana. La paura della fame per il lavoratore, l’allettamento del profitto per il datore di lavoro, avrebbero mantenuto in moto quel vasto meccanismo.

Una pratica utilitaristica imposta in quel modo all’uomo occidentale ne alterò fatalmente la comprensione di se stesso e della sua società. Quanto all’uomo, fummo costretti ad accettare l’opinione che i suoi moventi possono essere descritti come «materiali» o «ideali» e che gli incentivi sui quali è organizzata la vita di tutti i giorni derivano necessariamente dai moventi materiali. È facile convincersi che in simili condizioni il mondo umano deve effettivamente apparire determinato da moventi materiali. Se, ad esempio, si sceglie un movente qualsiasi e si organizza la produzione in modo da fare di quel movente l’incentivo individuale a produrre, si ha un’immagine dell’uomo completamente assorbito da quel movente. Supponiamo che il movente sia religioso, politico o estetico; supponiamo che esso sia l’orgoglio, il pregiudizio, l’amore o l’invidia; e l’uomo apparirà sostanzialmente religioso, politico, estetizzante, orgoglioso, incline al pregiudizio, ispirato dall’amore o dall’invidia. Altri moventi, al contrario, appariranno remoti e astratti – ideali – poiché non si può affidar loro un ruolo nell’attività essenziale della produzione. Il particolare movente prescelto rappresenterà l’uomo «reale». In realtà gli esseri umani lavorano per le ragioni più varie, sempreché facciano parte di un gruppo sociale definito.

I monaci commerciavano per ragioni attinenti alla religione, e i monasteri divennero i maggiori centri commerciali europei. Il commercio kula delle isole Trobriand, una delle più complicate forme di baratto realizzate dall’uomo è soprattutto un’occupazione estetica. L’economia feudale dipendeva in larga misura dalla consuetudine o dalla tradizione. Sembra che presso i Kwakiutl lo scopo pincipale dell’industria sia quello di rispettare un punto d’onore. Sotto il despotismo mercantile, l’industria era spesso posta al servizio del potere e della gloria. Di conseguenza tendiamo a pensare che i monaci, gli abitanti della Melanesia occidentale, i vassalli, i Kwakiutl, o gli statisti del secolo XVII, erano motivati dalla religione, dall’estetica, dalla consuetudine, dal o dalla politica di potenza, rispettivamente. La società del secolo XIX fu organizzata in modo tale da rendere soltanto la fame o il guadagno i moventi effettivi di partecipazione individuale alla vita economica. Ne risultò l’immagine, completamente arbitraria, dell’uomo governato esclusivamente da incentivi materiali.

Quanto alla società, fu propugnata la dottrina affine che le sue istituzioni erano «determinate» dal sistema economico. Perciò il meccanismo di mercato indusse erroneamente a credere che il determinismo economico fosse una legge generale valida per tutta l’umanità. Naturalmente in un’economia di mercato quella legge è valida. Qui infatti il funzionamento del sistema economico non soltanto «influenza» il resto della società, ma lo determina, così come in un triangolo i lati non soltanto influenzano gli angoli, ma li determinano. Nella stratificazione delle classi, l’offerta e la domanda sul mercato del lavoro erano identiche alle classi dei lavoratori e dei datori di lavoro, rispettivamente. Le classi sociali dei capitalisti, dei proprietari terrieri, degli affittuari, degli intermediari, dei mercanti, dei professionisti, e così via, erano delimitate dai rispettivi mercati della terra, del denaro, del capitale e dei loro impieghi, o dai mercati dei vari servizi. Il reddito di queste classi sociali era determinato dal mercato; il loro rango e la loro posizione, dal loro reddito.

Mentre le classi sociali erano determinate dal meccanismo di mercato in modo diretto, altre istituzioni lo erano in modo indiretto. Lo stato e il governo, il matrimonio e la cura della prole, l’organizzazione della scienza e dell’istruzione, della religione e delle arti, la scelta della professione, le forme di abitazione, la configurazione degli insediamenti, la stessa estetica della vita privata, tutto doveva conformarsi allo schema utilitaristico, o almeno non interferire con il funzionamento del meccanismo di mercato. Ma poiché pochissime attività umane possono essere svolte nel vuoto (perfino un santo stilata ha bisogno della sua colonna), gli effetti indiretti del sistema di mercato finirono praticamente con il determinare l’intera società. Fu quasi impossibile evitare l’erronea conclusione che, proprio come l’uomo «economico» era quello «reale», così il sistema economico era «realmente» la società.

3. I due significati di economico

3.1. La definizione formale e quella sostanziale

Tutti i tentativi volti a chiarire il posto dell’economia nella società devono muovere dal semplice riconoscimento del fatto che il termine economico, come viene comunemente usato per descrivere un tipo di attività umana, consta di due significati. Questi hanno radici separate e indipendenti. Non è difficile individuarle, anche se per ciascuno di essi si dispone di una serie di parole che sono sinonimi in senso lato. Il primo significato, quello formale, deriva dalla natura logica della relazione mezzi-fini, come in economizzare o economico; da questo significato discende la definizione di economico basata sulla scarsità. Il secondo significato, quello sostanziale, rinvia al fatto elementare che gli esseri umani, come tutti gli altri esseri viventi, non possono mantenersi in vita senza un ambiente materiale che li sostenga; è questa l’origine della definizione sostanziale di economico. I due significati, quello formale e quello sostanziale, non hanno nulla in comune. Il concetto corrente di economico si compone quindi di due significati. Mentre quasi nessuno negherebbe seriamente questo fatto, di rado se ne trattano le implicazioni per le scienze sociali (sempre eccettuando quella economica). Ogniqualvolta la sociologia, l’antropologia o la storia trattano questioni che hanno a che fare con la sussistenza umana, il termine economico viene preso per buono. Lo si impiega liberamente, riferendolo ora al suo connotato di scarsità, ora al suo connotato sostanziale, oscillando così fra due poli di significato fra i quali non esiste un nesso.

Il significato sostanziale deriva, in breve, dal fatto che l’uomo dipende palesemente per la sua sussistenza dalla natura e
dai suoi simili. Egli sopravvive in virtù di un’interazione istituzionalizzata fra se stesso e il suo ambiente naturale. Quel
processo costituisce l’economia, che gli fornisce i mezzi per soddisfare i bisogni materiali. Con ciò non si vuoi dire che i
bisogni da soddisfare sono esclusivamente di natura corporea, come i bisogni di cibo e di riparo, per quanto essenziali questi siano per la sua sopravvivenza, poiché una simile limitazione restringerebbe assurdamente il campo dell’economia. I mezzi, e non i bisogni, sono materiali. È irrilevante che gli oggetti utili siano richiesti per evitare la fame o servano a scopi educativi, militari o religiosi. Fintantoché i bisogni dipendono per il loro soddisfacimento da oggetti materiali, il riferimento è economico. Qui economico designa semplicemente il «far riferimento al processo di soddisfazione dei bisogni materiali».

Studiare la sussistenza umana significa studiare l’economia in questo senso sostanziale del termine, ed è in questo senso che economico è impiegato in tutta quest’opera. Il significato formale ha un’origine del tutto diversa. Derivando dalla relazione mezzi-fini, è un universale i cui correlati non sono limitati ad un qualche campo d’interesse per l’uomo. I termini logici o matematici di questo tipo sono detti formali per contrapposizione alla specificità dei campi in cui sono impiegati. Un significato del genere è alla base del verbo massimizzare, più comunemente economizzare o – con un’espressione meno tecnica, ma forse più precisa delle altre – «ottenere il massimo dai propri mezzi».

Naturalmente non vi è nulla ala obiettare contro la fusione dei due significati in un unico concetto, purché si sia consapevoli dei limiti del concetto così ottenuto. Legare la soddisfazione dei bisogni materiali alla scarsità e all’economizzazione e saldarli in liti unico concetto può essere giustificato e ragionevole in un sistema di mercato, quando e dove esso si affermi. Tuttavia, accettare il concetto composto di «mezzi materiali scarsi ed economizzazione» come se avesse validità universale, deve rendere molto più difficile rimuovere la fallacia economicistica dalla posizione strategica che tutt’ora occupa nel nostro pensiero.

Le ragioni di questo fatto sono ovvie. La fallacia economicistica, come l’abbiamo denominata, tende a far coincidere l’economia umana con la sua forma di mercato. Di conseguenza, è necessario chiarire radicalmente il significato del termine economico per eliminare questo pregiudizio. Di nuovo, non si può conseguire questo risultato senza eliminare ogni ambiguità e fondare separatamente il significato formale e quello sostanziale. Combinandoli in un termine d’uso comune, come accade nel concetto composito, si rafforza necessariamente quel doppio significato e si rende quella fallacia pressoché ineliminabile.

Quanto solidamente quei due concetti fossero congiunti si può capire dalla sorte ironica della più controversa fra le figure mitologiche moderne: l’uomo economico. I postulati sui cui si basa questa creazione di stampo scientifico furono
contestati da tutti i punti di vista immaginabili — psicologici, morali e metodologici — eppure il significato dell’attributo economico non fu mai seriamente messo in dubbio. Le argomentazioni investivano il concetto di uomo, non il termine economico.

Non ci si pose mai il proble-ma di capire quale fra le due serie di attributi fosse designata da quell’aggettivo, e cioè se esso designasse gli attributi di un’entità naturale, dipendente per la sua esistenza da condizioni ambientali favorevoli, come le piante e gli animali, o gli attributi di un’entità mentale, soggetto alla norma di ottenere il massimo risultato al minimo costo, come lo sono gli angeli e i demoni, i fanciulli o i filosofi, nella misura in cui li si ritiene dotati di ragione. Piuttosto si dava per scontato che l’uomo economico, quella figura veramente rappresentativa (lei razionalismo del secolo XIX, abitasse un mondo in cui l’esistenza materiale e il principio di massimizzazione erano misticamente intrecciati. 11 nostro eroe era attaccato e difeso come il simbolo di un’unità ideale e materiale che, per questi motivi, veniva sostenuta o rifiutata, a seconda dei casi. Nel corso di questo dibattito secolare non ci si soffermò mai a considerare, neppure incidentalmente, se con l’uomo economico si intendesse designare il significato formale o quello sostanziale di «economico».

3.2 La distinzione nell’economia neoclassica

mengerNaturalmente il riconoscimento della duplice radice del termine economico non è affatto una novità. Si può affermare che l’economia neoclassica si costituì, verso il 1870, sulla base della distinzione fra la definizione di economico in termini di scarsità e quella sostanziale. L’economia neoclassica fu fondata sulla premessa, enunciata da Carl Menger nei Grundsätze nel 1871, che l’economia doveva occuparsi dell’allocazione dei mezzi scarsi allo scopo di provvedere alla sussistenza umana. Fu questa la prima enunciazione del postulato di scarsità o di massimizzazione. Questa succinta formulazione della logica dell’azione razionale riferita all’economia occupa un posto elevato fra le conquiste del pensiero umano. La sua importanza fu accresciuta dalla straordinaria aderenza all’effettivo funzionamento delle istituzioni di mercato che, grazie ai loro effetti massimizzanti nelle attività quotidiane, erano per loro natura riconducibili ad un approccio del genere.

In seguito Menger volle integrare i suoi Grundsätze in modo da non dare l’impressione di ignorare le società antiche, primitive, arcaiche o di altro tipo che le scienze sociali cominciavano a studiare. L’antropologia culturale rivelò una serie di motivazioni differenti dal lucro che inducevano I’uomo a prendere parte alla produzione; la sociologia confutò il mito di una propensione utilitaristica che dava a tutto la sua impronta; la storia antica rivelò l’esistenza di culture elevate e di grande ricchezza che non avevano sistemi di mercato. Sembra che lo stesso Menger abbia sostenuto che gli atteggiamenti economizzanti sono limitati ai criteri di valutazione utilitaristici in un senso che oggi dovremmo considerare indebitamente limitativo nei confronti della logica della relazione fini-mezzi. Può darsi che questa sia stata una delle ragioni per cui egli si mostrò riluttante ad estendere le stie teorizzazioni a paesi diversi da quelli «avanzati», per i quali si può %opporre che tali criteri di valutazione siano validi.

Menger si preoccupò di limitare l’applicazione in senso stretto dei suoi Grundsätze alla moderna economia basata sullo
scambio (Verkehrswirtschaft). Egli si rifiutò di autorizzare la ristampa o la traduzione della prima edizione, che riteneva di dover completare. Egli rinunciò alla sua cattedra presso l’università di Vienna per potersi dedicare esclusivamente a quel compito. Dopo un lavoro di cinquanta anni, durante i quali sembra che egli sia tornato ripetutamente a quel compito, lasciò un manoscritto rivisto che fu pubblicato postumo a Vienna nel 1923. Questa seconda edizione abbonda di riferimenti alla distinzione fra l’economia di scambio o di mercato alla quale i Grundsätze erano destinati, da un lato, e le economie prive di mercato o «arretrate», dall’altro. Menger impiega diversi termini per designare queste economie «arretrate»: zuruckgeblieben, unzivilisiert, unentwickelt.

L’edizione postuma dei Grundsätze include quattro nuovi capitoli completi. Uno almeno di questi è d’importanza primaria per i problemi di definizione e di metodo a cui si applicano gli studiosi che oggi operano in questo campo. Secondo la spiegazione di Menger, ]’economia ha due «tendenze elementari», una delle quali era la tendenza economizzante derivante dal l’insufficienza dei mezzi, mentre l’altra era la tendenza che egli denominò «tecnoeconomica», derivante dai requisiti fisici della produzione indipendentemente dalla sufficienza o dall’insufficienza dei mezzi.

Chiamerò elementari le due tendenze dell’economia di cui ho parlato nelle sezioni precedenti, cioè la tendenza tecnica e quella economizzante. Benché, nella realtà, si manifestino di regola [corsivo mio] insieme e non si rinvengano quasi [corsivo mio] mai separatamente, esse derivano tuttavia da cause diverse e indipendenti [corsivo di Menger]; in alcuni rami dell’attività economica si presentano anche da sole e si possono concepire certi tipi di economie in cui le due tendenze possono in realtà presentarsi regolarmente l’una senza l’altra… Le due tendenze dell’attività economica sono dunque indipendenti l’una dall’altra – sono tendenze elementari – e il loro incontrarsi regolarmente nella realtà è dovuto al fatto che le cause che le determinano sono quasi [corsivo mio] sempre congiunte nell’economia. [NOTA] L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economie Science, Macmillan, London. 1935 (seconda ediz.) [trad. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Utet, Torino, 1947].

Tuttavia la discussione mengeriana di questi fatti elementari è stata dimenticata. L’edizione postuma, dove fu introdotta la distinzione fra le due tendenze dell’economia, non è mai stata tradotta in inglese. Nessuna presentazione dell’economia neoclassica (compreso il Saggio di Lionel Robbins del 1935), [NOTA C. Menger, Grundsätze der Volkswirtschaftslehre, a cura di Karl Menger, Wien, 1923, p. 77 [trad. it. Principi di economia politica, Utet, Torino, 1976, pp. 162-63. (La traduzione citata è stata modificata per tener conto della traduzione in inglese di K. Polanyi)].]
tratta le «due tendenze».

La London School of Economics, per la sua edizione dei Grundsätze pubblicata nel 1933 nella sua collana di volumi rari, scelse la prima edizione del 1871. F.A. Hayek, nella prefazione a questa riedizione, liquidando il secondo manoscritto come «frammentario e disordinato», contribuì ad impedire la conoscenza dell’opera postuma di Menger da parte degli economisti.

Per il momento, comunque –concluse Hayek – i risultati degli ultimi anni di lavoro di Menger vanno considerati perduti.

Circa diciassette anni dopo, quando i Grundsätze furono tradotti in inglese con la prefazione di F.H. Knight (1950), fu scelta nuovamente la prima edizione, che è la metà della seconda. Inoltre in tutto il volume il traduttore ha reso il termine wirtschaftend (letteralmente: impegnato nell’attività economica) con economizing (economizzante). [NOTA] C. Menger, Principles of Economics, tradotto e a cura di James Dingwall e Bert F. Hoselitz; con introduzione di Frank H. Knight, The Free Press, Glencoe (III.), 1950. Si veda K. Polanyi, Carl Menger’s Two Meaning of « Economic», in Studies in Economie Anthropology, a cura di G Dalton, American, Anthropological Association, Washington (DC), 1971.

Eppure, secondo lo stesso Menger, economizzante equivaleva non già a wirtschaftend, bensì a sparend, un termine che egli introdusse esplicitamente nell’edizione postuma allo scopo di distinguere l’allocazione di mezzi insufficienti da un’altra tendenza dell’economia che non implica necessariamente insufficienza.

Grazie ai brillanti ed eccezionali risultati conseguiti dalla teoria del prezzo proposta da Menger, la nuova accezione di«economico», inteso in senso formale ovvero economizzante, divenne il suo significato per antonomasia, mentre il significato di materialità, più tradizionale ma apparentemente più piatto, che non era necessariamente legato alla scarsità, perse il suo status accademico e alla fine fu dimenticato. L’economia neoclassica fu fondata sul nuovo significato, mentre nello stesso tempo svanì la consapevolezza del vecchio significato materiale o sostanziale, che perse la propria identità per il pensiero economico.

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