Kierkegaard

by gabriella
Soren Kierkegaard (1813 - 1855)

Søren Kierkegaard (1813 – 1838)

L’esistenza non può essere pensata senza movimento e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni. Trascurare il movimento non è propriamente un capolavoro, e introdurlo come passaggio nella logica, e con esso il tempo e lo spazio, non è che una nuova confusione.

Infatti, nella misura in cui il pensiero è eterno c’è una difficoltà per l’esistente. L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere a che fare con essa. Se li penso li abolisco e quindi neanche li penso più. Sembra pertanto che sia esatto dire che c’è qualcosa che non si lascia pensare: l’esistere. Ma la difficoltà ritorna, e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l’esistenza […]. L’esistere è per l’esistente il suo supremo interesse e l’interessamento ad esistere è la sua realtà. Ciò in cui consiste la realtà non può essere esposto nel linguaggio dell’astrazione. La realtà è un inter-esse tra l’unità ipotetica dell’astrazione di essere e pensiero […].

Dio non pensa, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione […].

Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica

Vita di Søren

Nella vita di Søren Kierkegaard c’è un grande scarto tra la esiguità degli avvenimenti esteriori e la complessità di un’esperienza interiore che rimane in più punti indecifrabile, nonostante le migliaia di pagine del Diario e i numerosissimi spunti autobiografici presenti nelle opere. Il filosofo stesso ha voluto che così fosse:

«dopo la mia morte, nessuno troverà fra le mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che propriamente ha riempito la mia vita».

Certamente la vita di Kierkegaard, nato a Copenhagen il 5 maggio 1756, ultimogenito di Michael, un pastore protestante e della cameriera che diventò sua seconda moglie, fu condizionata dal clima e dalle vicende familiari, particolarmente dalla severa educazione religiosa ricevuta dal padre «l’uomo più malinconico che io abbia mai conosciuto» – e dalle sue debolezze vissute con acutissimo senso di colpa: quando una serie di lutti colpisce la famiglia Michael, l’attribuisce infatti ad una punizione divina per una bestemmia pronunciata da ragazzo e per il tradimento della prima moglie con la futura madre del filosofo.

Iscrittosi alla facoltà di teologia nel 1830 e formatosi in ambiente hegeliano, con maestri orientati ad accordare filosofia e religione, ragione e fede, già nel 1835 si dice convinto che

«la filosofia e il cristianesimo non si lasciano mai conciliare».

Regine Olsen

Regine Olsen

Nell’agosto 1838, alla morte del padre, Kierkegaard prende con se stesso l’impegno di completare gli studi universitari: nel luglio 1840 si licenzia in teologia ed entra in Seminario. Nel settembre 1841 ottiene il grado di magister artium della facoltà di filosofia con la tesi Sul concetto di ironia con riferimento costante a Socrate. Giusto un anno prima si era fidanzato con una giovane di famiglia borghese, Regine Olsen, con la quale rompe però bruscamente. Il tema di Regine, profondamente amata eppure abbandonata, ritorna quasi ossessivamente in tutta l’opera di Kierkegaard, senza che tuttavia si possa avere certezza circa i motivi dell’abbandono. La consapevolezza, o il timore, della propria inadeguatezza ai compiti della vita matrimoniale; l’oppressione della colpa del padre e sua; il senso di avere un “destino” diverso e assolutamente singolare, confluirono probabilmente nella decisione.

La rottura del fidanzamento segna una svolta nella vita di Kierkegaard che, grazie alla cospicua rendita ereditata dal padre, avvia un’esistenza dedita esclusivamente alla scrittura, pubblicando in rapida successione, dal 1843 al 1850, tutte le sue grandi opere pseudonime, a cominciare da Aut-aut (Enten-Eller). Kierkegaard intende la sua opera come un servizio di testimonianza reso all’Idea, al cristianesimo. Oltre all’attività “privata” della scrittura, ciò lo impegna anche in battaglie pubbliche che segnano a fondo la sua vita e il suo già difficile equilibrio. A partire dal 1846, si trova esposto agli attacchi del «Corsaro», un giornale che ne mette alla berlina con articoli e vignette il pensiero, il temperamento, l’infelice aspetto fisico. Al fondo della polemica, che amareggia profondamente Kierkegaard, c’è il contrasto politico tra l’orientamento radicale del giornale e il conservatorismo del pensatore danese che si professa difensore della monarchia e dell’ordine costituito.

La polemica più violenta e battaglia estrema della sua vita è intrapresa però da Kierkegaard contro la Chiesa luterana danese, interprete di un cristianesimo burocratizzato e mondano. Un cristianesimo da benpensanti che tradisce, a suo giudizio, l’autentico spirito cristiano che è

«lotta aperta con il mondo»,

via “aspra” e “stretta”, percorribile da pochi, è sofferenza segnata da un amore di Dio che è “nemico mortale” della naturalità immediata dell’uomo.

Il 2 ottobre 1855, Kierkegaard ha un malore mentre cammina per la strada, trasportato al Friedriks Hospital, muore il successivo 11 novembre, all’età di 42 anni. Pochi mesi prima Regine, ormai sposata con Friedrich Schlegel, aveva voluto rivederlo, dovendo partire con il marito per un lungo viaggio, e lo aveva aspettato sulla via per dargli il suo «Dio ti benedica, possa andarti tutto bene» al quale il filosofo, quasi impietrito, aveva risposto con un leggero cenno del cappello in segno di saluto.

 

La comunicazione d’esistenza tra scrittura e vita

enten eller

Enten Eller (Aut aut) di Victor Eremita

Tutta la mia feconda attività di scrittore si riduce a quest’unico pensiero: colpire alle spalle.

Søren Kierkegaard, Discorsi edificanti

Il rapporto con la scrittura e le scelte fatte dal filosofo nell’affrontare la stesura e la pubblicazione delle sue opere si intrecciano profondamente con la sua vita. Lo stesso può dirsi per il suo stile che rifiuta la suddivisione in paragrafi e capitoli del pensiero astratto e morto (la filosofia accademica), e ricerca una scrittura filosofica capace di riprodurre la mobilità, la concretezza, la vicinanza alla vita del dialogare socratico – senza peraltro riuscirci sempre.

Kierkegaard pubblica con il proprio nome solo gli scritti di carattere direttamente religioso, dai Discorsi edificanti agli interventi polemici sul «Momento»; mentre tutte le grandi opere filosofiche, da Aut aut (Enten- Eller, 1843) edito da Victor Eremita; Timore e tremore, di Johannes de Silentio, e La ripresa di Constantin Constantius (1843); Briciole di filosofia, di Johannes Climacus, e II concetto dell’angoscia, di Vigilius Haufnien- sis (1844); Stadi sul cammino della vita (1845), editore Hilarius Bogbinder; Postilla conclusiva non scientifica (1846) di Climacus; La malattia mortale (1849) e Esercizio del cristianesimo (1850) di Anti-Climacus escono pesudonime. A queste bisogna aggiungere la grande massa delle carte non destinate alla pubblicazione, la cui parte più importante e costituita dal Diario.

La pseudonimia, in Kierkegaard, è in realtà, come dice egli stesso, un rapporto «non casuale» con l’intera sua produzione. L’artificio letterario tipicamente romantico dello pseudonimo diviene in Kierkegaard un vero e proprio “teatro delle maschere” che il filosofo mette in scena e guida con regia puntigliosa. Sceglie per gli pseudonimi nomi bizzarri e al tempo stesso allusivi, vere e proprie cifre di interpretazione dell’opera di cui figurano autori, fa dialogare le sue maschere fra loro da un’opera all’altra, le incastra una nell’altra come in un gioco di scatole cinesi. Scopo fondamentale di questa complessa macchina è realizzare quella comunicazione indiretta che il filosofo ritiene l’unica in grado di parlare della verità: non si tratta infatti per Kierkegaard di trasmettere una dottrina compiuta, ma di realizzare una comunicazione d’esistenza, che attivi nell’interlocutore un «poter fare», una comunicazione che trasforma. Solo la comunicazione autentica, infatti, rende libero l’altro. Ne sono strumenti essenziali la pseudonimia e l‘ironia.

Ciascun pseudonimo, distanziando l’autore dal suo contenuto, acquista l’autonomia necessaria per rappresentare una possibilità d’esistenza, così l’universo degli pseudonimi finisce per delineare una sorta di mappa o di geografia dell’esistenza tracciata dall’interno di figure e individualità determinate.

L’obiettivo è in primo luogo polemico nei confronti di una situazione comunicativa che Kierkegaard giudica radicalmente falsa, una  falsità che non dipende dalla maggiore o minore verità dei contenufi dei messaggi, ma dal  rapporto tra “emittente” e “ricevente” che si istituisce nella comunicazione sociale. La situazione comunicativa è essa stessa comunicazione, come e chi comunica è in primo luogo importante, non che cosa. Nella “modernità” regna l’anonimato, anche quando compare la firma dell’autore in testa al frontespizio, perchè il filosofo, il pastore, il giornalista, non sono mai «in carattere», cioè non «reduplicano» il loro messaggio nell’esistenza:

«reduplicare è essere ciò che si dice». Così, il filosofo (Hegel) costruisce il grandioso palazzo del suo sistema, quanto a lui, «abita nel fienile».

Socrate (470-69 - 399 a. C.)

Socrate (470-69 – 399 a. C.)

Cristo

Cristo

I grandi maestri di comunicazione sono invece Socrate e Cristo:

«il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un pensatore esistente, non uno speculante’che dimentica ciò che è l’esistere»,

mentre in Cristo troviamo la verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradossò che costituisce l’essenza del cristianesimo.

All’anonimato del mittente corrisponde quello del ricevente, che lo sviluppo della stampa ha trasformato nell’Io impersonale che si chiama pubblico, «un astratto che non esiste», ma che nella realtà corrisponde all’essere “come gli altri” in cui ogni individualità è persa in cambio della rassicurazione, poiché

«la maggior parte degli uomini non ha paura dì avere un’opinione errata, bensì di averne una da soli».

L’estensione della comunicazione non genera maggiore chiarezza e consapevolezza,

«perché più cresce la comunicazione, più tremenda diventa la confusione, più disumano e sovrumano è il compito che si pone per il singolo».

Poichè solo la comunicazione autentica rende liberi, il mondo contemporaneo ha bisogno di un Socrate che comunichi in questo modo – «tutta la mia vita di scrittore è una domanda ai contemporanei» -, la cristianità, infatti – come già notava Spinoza – è un’«enorme illusione», perché tutti sono cristiani ma poi «conducono la loro vita in tutt’altre categorie».

 

Le possibilità e la scelta: vita estetica e vita etica

Don-Giovanni

Don Giovanni, lo stadio estetico

I fondamentali «stadi sul cammino della vita», i modi di esistere che marcano un itinerario individuale, sono l’estetico, l’etico e il religioso. Aut-aut esprime, già nel titolo, l’alternativa fra le prime due possibilità.

La vita estetica

L’esteta vive immediatamente il rapporto con la vita come godimento e come rappresentazione del godimento. La sua sfera è il gioco, l’immaginazione, e la sua esistenza è vissuta come un teatro. La differenza fra la vita estetica e la vita etica viene definita nel modo più chiaro dal giudice Wilhelm, il personaggio che incarna in Aut-aut il paradigma dell’etico:

«l’estetico che è nell’uomo è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è; l’etico è ciò per cui egli diventa ciò che diventa».

Kierkegaard rappresenta l’estetico in figure, in modelli puri: sono i due miti letterari di Don Giovanni e di Faust e il personaggio del seduttore Johannes, che il filosofo crea inserendovi elementi della propria esperienza autobiografica. Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata, che allinea le proprie conquiste l’una accanto all’altra come un’indefinita successione di istanti; è la pura forza dell’eros, il cui medio espressivo ideale è la musica di Mozart. Faust, nell’interpretazione di Kierkegaard, incarna invece il gioco della conoscenza, il potere dissolutore del dubbio radicale; il patto demoniaco stretto con Mefistofele costringe Faust alla ricerca inesausta della conoscenza assoluta, e quindi a dubitare di tutto, a non potersi mai arrestare ad alcunché.

Johannes, infine, si colloca, nell’arco della seduzione estetica, al polo opposto rispetto a Don Giovanni: il suo diario — il Diario del seduttore che rese celebre Kierkegaard — racconta la trama sottile in cui egli avvolge la giovane Cordelia per conquistarla e poi abbandonarla. La seduzione diviene qui scrittura, forma letteraria. Johannes non gode del possesso, ma unicamente della rappresentazione della conquista; anzi, evita il possesso,  perché la riuscita della seduzione implica la fine al piacere, implica in qualche modo l’impegnarsi con la realtà, mentre ciò che interessa è l’idea, l’immaginazione. Non appagandosi che in idea, non traducendosi mai in realtà, il desiderio di Johannes può rimanere indefinitamente aperto [Don Giovanni –  Mozart, direttore Roger Norrington, 1993].

L’esteta è privo di un contenuto reale della propria soggettività: è qualcosa solo nell’immaginazione, perché non ha mai scelto se stesso nella realtà. Egli vive nell’orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della realizzazione. La sua personalità è parcellizzata, dispersa nella molteplicità, l’unità del suo Io è illusoria ed evanescente. Non si rivela mai al mondo, non getta mai la maschera: si rappresenta e si mostra come un enigma, del quale rimane egli stesso costantemente prigioniero. La sua vita è priva di durata, perché si esaurisce nella fissità di istanti successivamente dileguanti. Egli rimane dunque sempre ciò che già è, senza poter mai divenire.

Così è visto l’esteta dal giudice Wilhelm, cioè nell’ottica della vita etica, dalla quale appare anche un’altra categoira costitutiva della vita estetica: quella della disperazione. 

«Ogni concezione estetica della vita è disperazione, e ciascuno che vive esteticamente è disperato, che lo sappia o no», osserva il giudice Wilhelm.

La disperazione nasce appunto dal fatto che l’esteta resta costantemente nell’ambito delle infinite possibilità, permanentemente affacciata sul nulla.

 

Dall’estetico all’etico: la scelta

enten-ellerSe la disperazione è ciò che caratterizza la vita estetica, la vita etica inizia invece nella scelta. L’atto della scelta è quel movimento attraverso cui si istituisce la personalità morale, poiché in essa non viene scelto un oggetto, buono o cattivo, ma la persona stessa nel suo valore assoluto. Nell’atto della scelta l’Io diventa Sé, la personalità si istituisce, dal piano della possibilità si passa a quello della realtà, cioè dal non-essere all’essere. La scelta caratterizza l’etico al punto che non è possibile parlare di scelta estetica, poiché l’estetico consiste appunto nel non scegliere. La non-scelta ignora il principio di contraddizione, è l’indifferenza che annulla le distinzioni: l’etica, in quanto si fonda sulla scelta, assume invece la disgiunzione, l’aut-aut, come atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato.

L’illusione di libertà che caratterizza l’estetico rivela allora la sua inconsistenza, perché mentre l’individuo rifiuta o rimanda la scelta,

«altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso».

Solamente nella scelta divengono possibili l’esperienza della libertà e la conoscenza di sé. Chi si è scelto è ciò che è divenuto. La scelta si configura come un rivelarsi a sé e al mondo, uscendo così dalla maschera e dell’apparenza. Ciò che infine caratterizza l’etico rispetto all’estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha consistenza temporale, ha durata, ha sviluppo. Solo nell’etica vi è storia, perché la scelta ha istituito la personalità e ha fissato il punto che dà senso al passato, al presente, al futuro. L’esteta invece non ha memoria, perché non ha storia, e ripete se stesso in istanti sempre uguali, senza mai potersi fermare nella profondità del proprio sé.

Il giudice Wilhelm oppone il matrimonio alla conquista dell’esteta. Questa infatti cerca disperatamente di alimentare il desiderio con la riproposizione della novità, vista ogni voltà come l’unica e la migliore, mentre il matrimonio sostituisce l’intesa al mistero, il possesso alla conquista:

«il veramente grande non è il conquistare, ma il possedere»

perché nel possesso si è presso di sé, mentre nella conquista si è fuori di sé. Per questo l’etico non annulla ma è superiore all’estetico, perché lo ricomprende in una superiore bellezza in cui

«l’individuo ha in se stesso il suo fine».

 

Lo scacco dell’etica: il peccato e l’angoscia

Rembrandt,

Rembrandt, Sacrificio di Isacco, 1635

In Aut-aut, la scelta dà vita al Sé, perché senza scelta il singolo rimane un puro Io immediato, ma nella scelta l’io non si inventa, sceglie qualcosa che già esiste: l’individuo ideale, posto come scopo a tutti i singoli uomini. Lo scacco dell’etica consiste però nel fatto che essa

«addita l’idealità come scopo e presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungerlo».

Ma così non è perché l’uomo esiste nel tempo come gravato ineliminabilmente dal peccato, come singolo e come specie. La vera scelta etica deve quindi passare attraverso l’accettazione della colpa e il pentimento: il limite superiore della sfera etica è dunque marcato dal rapporto con Dio. Questa critica all’eticità di Aut-aut che conduce all’analisi della sfera religiosa è impostata da Kierkegaard in due opere del 1843-44, Timore e tremore e Il concetto dell’angoscia. Il timore e tremore è quello di Abramo al quale, secondo il racconto biblico (Genesi, 22), Dio chiede di sacrificare il figlio Isacco ed è dunque stretto nella contraddizione tra il comando morale umano (etica) e la volontà di Dio (religione). Egli deve scegliere, ma la sua scelta è operata nella solitudine perché non può essere condivisa con nessuno. Nulla inoltre gli garantisce che uccidendo suo figlio compirà un atto di fede e non un omicidio. La scelta di Abramo avviene dunque nel paradosso e nell’assurdo.

Mentre in Timore e tremore, Kierkegaard esplora la contraddizione tra etica e religione, il tema de Il concetto dell’angoscia è la dimensione dell’angoscia come costitutiva dell’esistenza dell’uomo. Il peccato originale presuppone infatti il peccato come possibilità che si è attualizzata in Adamo e rivive poi in ogni uomo. Il peccato è una rottura rispetto a una condizione di innocenza, intesa come ignoranza, cioè come la condizione della naturalità precedente alla sua mediazione nello spirito in cui l’uomo non è ancora consapevole del bene e del male. Già nell’innocenza, l’esistenza è attraversata dall’angoscia, quale possibilità del male [il male e il bene, infatti, sono posti dal peccato, condizione mediata dello spirito]: l’angoscia, infatti,

è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità,

Modernità

Modernità: la vertigine della libertà come possibilità per la possibilità

cioè il sentimento che deriva all’uomo dalla libertà di potere. Kierkegaard riflette con ciò non solo sull’esistenza umana, ma specificamente sulla condizione moderna, nella quale l’entusiasmo per la rottura dei limiti dell’ancien régime e per l’inedita possibilità di scegliere e inventarsi la propria vita si sposano con l’angoscia della responsabilità e il senso della perdita per le possibilità non scelte. L’angoscia non ha infatti come oggetto qualcosa di determinato, ma il nulla. Essa è la

«vertigine della libertà».

 Essa è dunque ineliminabile, insopprimibile come la possibilità da cui si genera ma, poiché è il sentimento che intuisce l’illusorietà di tutte le scelte finite,

«più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo».

Infatti,

«solo colui che è formato dall’angoscia è formato mediante la possibilità e soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità».

 

Il pensatore soggettivo e la dialettica dell’esistenza

Georg Wilhelm Hegel

Georg Wilhelm Hegel (1770 – 1804)

Se Timore e tremore e Il concetto dell’angoscia segnano il passaggio dalla riflessione etica a quella religiosa, le ultime quattro opere pesudonime, Briciole di filosofia, Postille conclusiva non scientifica, La malattia  mortale ed Esercizio del cristianesimo sviluppano la “resa dei conti” con al filosofia speculativa e tracciano le linee della nuova filosofia dell’esistenza che pone lo stadio religioso come l’ultima e più alta sfera dell’esistenza stessa.

La Postilla esce con lo pseudonimo di Johannes Climacus, elaborato dal nome dal monaco bizantino Giovanni, autore dell’opera ascetica Scala Paradisi (in greco Klimax tou paradeisou) che indica dunque l’aspirazione, altensione verso l’ascesa: Climacus non è cristiano, ma si pone il problema della verità e del cristianesimo, del rapporto tra ragione e assoluto. Anticlimacus, invece, autore de La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo  è il «cristiano straordinario» che ha già cominciato il movimento dell’ascesa. Kierkegaard si colloca tra i due,

«un po’ più in alto di Climacus, un po’ più in basso di Anticlimacus».

nella posizione di chi ha già compreso che la verità è il rapporto con il trascendente, ma non ha ancora compiuto il passo esistenziale decisivo in questa direzione.

La tonalità polemica antihegeliana traspare già nei titoli delle due opere che polemizano con lo spirito di sistema e la sua pretesa di comprensione razionale della totalità. Per Kierkegaard, infatti,

«un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell’esistenza».

Infatti, nella logica, sfera del pensiero puro, non può esserci movimento, mentre l’esistenza è immersa nel divenire. Seguendo Trendelenburg, Kierkegaard rifiuta di dedurre il divenire dalla dialettica di essere e nulla: nei primi paragrafi della Scienza della logica essere e nulla sono infatti pura quiete dai quali non può sorgere movimento. L’essere non può quindi essere dedotto dal pensiero, in realtà anche il pensiero (per Hegel incondizionato, originario) presuppone sempre qualcosa: l’esistenza, ma il pensiero astratto e oggettivo, nella pretesa di comprendere razionalmente l’esistenza sub specie aeterni la fraintende completamente. L’esistente non si lascia pensare, perché l’esistenza è

«sempre l’esistenza singola, l’astratto non esiste».

Platone (428-27 - 348-47 a. C.)

Platone (428-27 – 348-47 a. C.)

Essa richiede per essere pensata

«un esistente concreto che si rapporti in concreto alla verità»,

un pensatore soggettivo che accolga nel pensiero  la propria costitutiva ambiguità. Che cos’è infatti l’esistenza?

«E’ quel bambino che è generato dal finito e dall’infinito, dal tempo e dall’eternità ed è perciò sempre aspirante»,

come l’Eros del Simposio platonico. La verità, allora, non è qualcosa di oggettivo che debba esser raggiunto, non è identità astrata di pensiero ed essere: è soggettività, cioè appropriazione di una soggettività autentica, l’essere diventati se stessi. Essa non è dunque un dato, ma platonicamente,  un compito che va realizzato.

In ciò Kierkegaard vede i limiti del socratismo. Per Socrate, infatti ognuno porta la verità dentro di sé, tanto che la riappropriazione è un atto di reminiscenza. Per Kierkegaard invece,  il singolo è fuori della verità. L’appropriazione richiede dunque un salto, una discontinuità rispetto all’immanenza che è inautentico, non verità. C’è infatti una differenza assoluta tra Dio e uomo, finito e infinito,

«Dio non pensa, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione […]».

antihegelismo di Kierkegaard

 

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