La sperimentazione filosofica di una maestra alla prova dell’INVALSI

by gabriella

Adriana Presentini, La forza del moscerino. Una favola morale… con più punti di vista.

«ad una domanda di senso, o valoriale, non c’è mai una e una sola risposta [..] la risposta giusta lo è nella misura di una condivisione su base dialogica, oltre ad essere ‘verità provvisoria’ del gruppo, sempre suscettibile di essere di nuovo oggetto di indagine e discussione».

Adriana Presentini

La storia

Sara la formica e le sue sorelle tornavano a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Sara spingeva un chicco di grano, Mara una briciola di pane e Lara, la più forte, una spiga d’orzo tutta intera.
Arrivarono all’entrata del formicaio, ma lì trovarono una sorpresa: l’ingresso era ostruito da una pietra grigia, enorme e liscia. Sara girò intorno al grande sasso per cercare un buchetto da cui entrare, ma fu tutto inutile: non c’era nemmeno un passaggio piccolo piccolo! La pietra copriva perfettamente l’entrata.

Le tre sorelle si misero a spingere la pietra con tutte le loro forze, ma il sasso non si spostò nemmeno di un pochino così. Spinsero da destra, da sinistra, da dietro, da davanti, di lato, di traverso… Ma la pietra liscia era troppo pesante e non si mosse di un millimetro. Le formiche erano sudate e stanche, mentre l’entrata della loro casa era sempre chiusa.

In quel momento un ronzio leggero fece alzare la testa alle tre sorelle. Era un moscerino, che si fermò proprio in cima al sasso.

“Posso aiutarvi?” chiese.

“Non credo” rispose Sara.

“Se non riusciamo a spostare questo sasso noi tre robuste formiche, non vedo che cosa potrebbe fare un esserino deboluccio come te!”

Il moscerino sorrise: “Beh, per esempio, potrei dire alla chiocciola di svegliarsi e spostarsi da qui!”

Poi si posò sul sasso liscio e chiamò ad alta voce:

“Chiocciola! Chiocciola! Svegliati! Stai dormendo sul formicaio delle mie amiche formiche!”

A quelle parole, dal sasso (che non era un sasso) uscirono un lungo collo e un paio di occhietti ancora addormentati. “perdonatemi!” si scusò la chiocciola sbadigliando.

“Non me n’ero accorta! Me ne vado subito!”

Così dicendo, si mosse e con calma spostò il suo guscio e liberò l’ingresso del formicaio.

Il questionario a risposta multipla

Le domande seguenti si riferiscono al racconto che hai appena letto. Cerca di rispondere a tutte le domande rileggendo il racconto se necessario.A1. Sara, Mara e Lara sono
A. tre amiche
B. tre formiche
C. tre bambine
D. tre mosche
A2. Che cosa trasportano Sara, Mara e Lara?

A. Erbe, grano e foglie
B. Vermetti, spighe e briciole
C. Grano, pane e orzo
D. Pane, foglie e chicchi

A3. Da che cosa si capisce che Lara era la più forte?
A. Era la più grande delle tre
B. Lavorava più di tutte
C. Portava il suo carico da sola
D. Spingeva il carico più pesante

A4. L’ingresso era “ostruito” significa che l’ingresso
A. era stretto
B. era enorme
C. era nascosto
D. era chiuso

A5. Indica quale caratteristica non ha la pietra del racconto.
A. Grigia
B. Pesante
C. Ruvida
D. Grandissima

A6. Qual è il primo tentativo che fa Sara per entrare nel formicaio?
A. Fa rotolare la pietra per liberare l’ingresso
B. Cerca un passaggio girando intorno alla pietra
C. Scava un buco sotto la pietra
D. Cerca di sollevare la pietra

A7. Leggendo”Spinsero da destra, da sinistra, da dietro, da davanti, di lato, di traverso…”, che cosa ti
viene da pensare?
A. Le formiche hanno fatto tutti gli sforzi possibili
B. Le formiche si arrampicano da tutte le parti
C. Le formiche hanno lavorato senza mai fermarsi
D. Le formiche sono insetti sempre in movimento

A8. Cosa vuol dire che la pietra “non si mosse di un millimetro”?
A. La pietra non si spostò molto
B. La pietra si spostò di un millimetro
C. La pietra non si spostò per niente
D. La pietra si spostò di poco

A9. Perché le formiche “erano sudate e stanche”?
A. Perché avevano fatto molta fatica
B. Perché avevano fatto molta strada
C. Perché avevano preso troppo sole
D. Perché avevano spinto le provviste

A10. Perché le tre sorelle a un certo punto alzano la testa?
A. Vogliono vedere quanto è alta la pietra
B. Sentono il rumore di un insetto in volo
C. Vogliono vedere il moscerino
D. Sentono il ronzio di una mosca

A11. Perché le formiche non accettano subito l’aiuto del moscerino?
A. Perché pensano che non possa far nulla
B. Perché non si fidano di lui
C. Perché preferiscono fare da sole
D. Perché non l’hanno mai visto prima

A12. Cosa impediva alle formiche di entrare nel formicaio?
A. Una pietra
B. Una palla liscia
C. Una lumaca
D. Un guscio vuoto

A13. Come puoi definire ilo moscerino?
A. Forte
B. Intelligente
C. Scherzoso
D. Superbo

A14. In base a quello che dice il testo, quando avvengono il fatti raccontati nella storia?
A. La mattina presto
B. A mezzogiorno
C. Verso sera
D. Di notte

A15. Che cosa vuol farti capire il racconto?
A. Il mondo degli insetti è molto interessante
B. Non sempre le cose sono quello che sembrano
C. I moscerini sono più intelligenti delle formiche
D. Non sempre l’unione fa la forza

A16. Questo racconto si intitola “La forza del moscerino” perché il moscerino
A. è forte
B. riesce a spingere via il sasso
C. ha una voce forte
D. capisce che cos’è il sasso.

Il lavoro di riflessione filosofica sul testo (proposto alla classe all’indomani delle prove)

7 Maggio 2010, Prima conversazione: “La sapienza del moscerino”

I bambini, divisi in coppie, hanno riletto il testo ed elaborato le seguenti domande:
Lorenzo e Alessio (Tirex):
-Come mai il moscerino vuole essere più intelligente delle formiche?
Andrei S. e Chakira (Tigri dai denti a sciabola):
-Come mai le formiche non vedono la chiocciola?
-Come mai il moscerino ha visto la chiocciola?
Riccardo e Rawene (Draghi):
-Come mai il moscerino è intelligente e le formiche no?
-Come mai il moscerino ha riconosciuto la chiocciola?
Santiago e Michael (Gli orchi verdi):
-Come mai il moscerino capisce che il sasso è una chiocciola?
-Come mai la chiocciola si addormenta sul formicaio?
Giada, Marco, Claudia (Squali bianchi):
-Come mai la chiocciola si è posata sul formicaio?
Alessandra e Andrei M. (Tigri del Bengala):
-Come mai il moscerino sapeva che era una chiocciola?
Alessandro e Martina P. (Leoni della savana):
-Come mai il moscerino sapeva che il sasso non era un sasso ma era una chiocciola?
Martina R. e Gianmarco (Colibrì):
-Cosa ci insegna la favola?
-Come ha fatto il moscerino a scoprire che il sasso era una lumaca?
Marta e Klaudio (I Piragna):
-Come mai il moscerino conosce la lumaca?
-Da dove viene il moscerino?

Dopo aver registrato su un cartellone le domande delle coppie di b., si apre la discussione per decidere quale sarà la domanda di studio, quella cui ci proponiamo di rispondere.

In breve si mette in evidenza che una serie di domande sono molto simili, e riguardano tutte la conoscenza o il riconoscimento della chiocciola sotto le spoglie di un sasso da parte del moscerino.
In particolare prendiamo, come rappresentante del gruppo di ben otto domande (quindi di 16 bambini), la domanda di Alessandra e Andrei M.: Come mai il moscerino sapeva che era una chiocciola?

Inoltre faccio notare a tutti che le due domande di Andrei S. e Chakira, complementari fra loro, parlano di una cosa un po’ diversa dal conoscere o dal sapere: parlano del “vedere”. Comunque propongo di includerle nell’insieme delle altre che riguardano la sapienza del moscerino, per poter partire con la conversazione.

Andrei S.: Il moscerino volava e ha visto la chiocciola dall’alto.
Michael: secondo me la chiocciola era amica del moscerino, così si conoscevano già.
Alessandro: io sono d’accordo con Andrei S.
Claudia: anche io.
Adriana (maestra): quindi dall’alto si vede meglio?
Marta: No, perché si può vedere bene anche da vicino.
Adriana: e quindi come mai il moscerino la vede?
Marta: lui la vede e le formiche no perché stavano pensando al lavoro.
Klaudio: Sono d’accordo con Marta: non si può vedere dall’alto….se qualcuno è nello spazio non può vedere.
Adriana: il moscerino si trovava in alto perché volava, ma non lontano nello spazio.
Andrei S.: ma se il moscerino è troppo vicino, non può riconoscere la chiocciola, invece se è lontano, dall’alto la può vedere tutta.
Riccardo: sono d’accordo con Andrei S., se uno è più lontano può vedere una cosa tutta intera.
Chakira: Come mai quando sei lontano vedi le cose piccole?
Andrei M.: sono d’accordo con Andrei S.: se sei in aereo vedi tante case, le vedi tutte intere, ma più piccole.
Klaudio: se noi andiamo più in alto, sembra come una pozione magica, che le cose enormi sono rimpicciolite…
Giada: se sei in alto vedi le cose più piccole perché c’è tanto spazio in mezzo.
Martina R.: ma le formiche che ne sapevano cos’era una chiocciola?…..io penso che loro non lo sapevano, perché allora, se le cose grandi si vedono meglio da lontano, mentre le formiche arrivavano al formicaio, da lontano, potevano vederla che era una chiocciola.
Adriana: è vero , ma se noi camminiamo sulla terra, può esserci un ostacolo che non ci fa vedere davanti.
Andrei S.: Allora il moscerino la può vedere perché in mezzo all’aria non c’è niente, e lui vola in alto.

Intervengo per chiedere a tutti se sono d’accordo su questa risposta”provvisoria”: Il moscerino vede la chiocciola perché può vedere dall’alto.

Martina: cosa vuol dire “provvisoria”?
Adriana: : vuol dire che per ora questa risposta ci va bene, poi però possiamo ripensarci, se per esempio qualche bambino trova un’altra risposta che ci convince di più, allora possiamo cambiarla.

11 Maggio 2^ conversazione: “La morale della favola secondo i bambini”

Adriana (maestra): Ora vorrei provare insieme ad affrontare la prima domanda dei Colibrì “Cosa ci insegna la favola?”, perché, dal momento che a questa stessa domanda, secondo i signori dell’INVALSI, avete risposto in un modo sbagliato, mi piacerebbe approfondire il vostro pensiero. Però, visto che fra le vostre domande ce n’era un’altra condivisa da due coppie, se volete discuteremo di quella (Come mai la chiocciola si è posata sul formicaio). I bambini, a maggioranza, hanno scelto di discutere su cosa ci insegna la favola.

Rawene: secondo me ci insegna l’intelligenza.
Adriana: spiegati meglio
Rawene: il moscerino è intelligente.
Santiago: ci insegna che prendere in giro gli altri, quando uno crede di sapere già una risposta, non è bello.
Andrei S.: Sono d’accordo con Rawene perché le formiche non hanno saputo che quella era una lumaca.
Adriana: allora vuoi dire che se uno non sa una cosa non è intelligente?
Klaudio: no, non è vero, perché quando noi non sapevamo che cos’era il diviso, allora non vuol dire che eravamo stupidi, perché non l’avevamo studiato.
Adriana: quindi non sei d’accordo con Andrei S.?
Klaudio: no.
Andrei S.: Ma io dicevo un’altra cosa. Non intendo che se qualcuno non sa qualcosa è tonto. Intendo solo che il moscerino conosceva quella cosa.
Adriana: Quindi non si tratta di intelligenza.
Andrei S.: si tratta che è avvantaggiato.
Adriana: allora la favola cosa ci vuole insegnare?
Andrei S. : ci insegna che quando non sai qualcosa devi pensare un piano…
Chakira : io sono d’accordo con Klaudio, per me non è che il moscerino è più intelligente.
Andrei M. : ci insegna che non dobbiamo prendere in giro gli altri.
Claudia: sono d’accordo con Santiago e con Andrei M.
Martina R.: per me ci insegna che non dobbiamo arrenderci…Le formiche si arrendono.
Chakira: ci insegna tante cose nuove perché il moscerino, quando le formiche hanno detto di no, lui non ha detto niente ma le ha aiutate uguale. Si può aiutare anche senza dire niente. Quando ci ha fatto imparare il “per” la maestra Michela ci ha aiutato….
Alessandra: ci insegna che non bisogna mai prendere in giro nessuno e mai arrendersi per nessuna ragione.
Klaudio: arrendersi per le formiche è un’azione molto brutta, perché ce la potevano fare se andavano indietro, per allontanarsi e capire cos’era…
Lorenzo: ci insegna che non si prende in giro.
Gianmarco: Non bisogna offendere gli altri o trattarli male.
Rawene: ci insegna ad aiutarci…il moscerino aiuta le formiche.
Michael: che non ci si arrende.
Marta: per me ci insegna che bisogna credere agli altri.
Martina P.: secondo me è come dice Martina R….ci insegna a non arrendersi.
Alessio: per me invece sono d’accordo con Rawene, bisogna aiutare gli altri..
Marco: sono d’accordo con Gianmarco perché le formiche hanno fatto male a non credere al moscerino…
Giada: per me ci insegna che prima di dire delle cose di dobbiamo sempre pensare.
Alessandro: sono d’accordo con Giada, e bisogna fare come ha fatto il moscerino.
Martina R. : dobbiamo anche fidarci degli amici.
Riccardo: io penso come Giada, che non si devono dire delle cose senza pensarci bene prima.
Alessandro: io credo che invece di prendere in giro gli altri e non credergli, bisogna dargli almeno una possibilità.
Andrei M.: sono d’accordo: non bisogna dire al moscerino: “Tu non sai fare niente”..
Andrei S. : sì, sono d’accordo con Santiago, che non si deve prendere in giro…
Chakira: per me ci insegna che non devi prendere in giro le persone più grandi di te perché dopo si offendono…
Andrei S.: ma il moscerino non è più grande!
Klaudio: delle volte anche i più piccoli possono essere grandi….mio fratello è più piccolo ma delle volte è forte più di me…
Rawene: non bisogna dire ai piccoli: “Non ci devi aiutare” perché forse lo sanno fare meglio….
Lorenzo: anche io penso come Klaudio. Mica i più piccoli sono sempre deboli!..
Claudia: io credo che questa storia ci vuol far capire che non bisogna offendere i più deboli.
Alessandra: sono d’accordo anch’io con Klaudio: i piccoli a volte possono essere forti.
Andrei S.: sì, è vero anche per me i piccoli poi possono essere più forti da grandi.
Alessandro: i piccoli possono essere più forti da grandi ma anche da piccoli…..
Rawene: per esempio se un bambino piccolo, incontra uno grande e lo vuole aiutare, forse tutti e due insieme ce la possono fare…
Adriana: ah, vuoi dire che la forza del più piccolo insieme a quella del più grande diventa importante per superare un problema?
Rawene: sì, e anche che il più piccolo quindi è forte….
Giada: secondo me ce la puoi fare se usi anche la forza che hai in te.
Adriana: cosa intendi dire? Spiegati meglio.
Giada: .Se ci metti tutta la tua forza, anche quella che è dentro di te.
Adriana: e come potresti chiamare questo tipo di forza?
Giada: …quella del corpo che ce l’hai tu.
Martina R.: c’è anche la forza dell’intelligenza.
Adriana: che intendi?
Martina R.: quando uno è intelligente, che sa pensare bene alle cose…..ti serve anche per aiutare…
Rawene: serve per essere forti.
Giada: la forza che hai in te non è come quella dei grandi che sono più forti, ce la può avere anche un piccolo….
Adriana: qualcun altro vuole provare a dire che tipo di forza è quella di cui ha parlato Giada? …io ho capito che Giada non si riferisce a quella forza che i grandi possono avere perché sono più grandi e quindi hanno muscoli più forti….come altro possiamo chiamare, invece, la “forza che hai in te”?

A questo punto i bambini provano a lanciare varie definizioni di questo tipo di forza, ma più che altro, mi accorgo, stanno incominciando ad imbastire una nuova conversazione su questo argomento. Perciò, dato il pochissimo tempo a nostra disposizione, propongo loro di rimandare questa nuova discussione sulla forza che è in te, e di chiudere mettendoci d’accordo su quale sia l’insegnamento della favola.

Adriana: Allora come vogliamo concludere?…che cosa ci insegna la favola?
Dopo una concitata confabulazione, mi sembra di capire che la maggioranza è d’accordo su: “I piccoli a volte sono più forti dei grandi”….ma c’è una minoranza, o piuttosto varie piccole minoranze che sostengono ancora le altre interpretazioni. Perciò propongo di scriverle tutte:
1- I più piccoli a volte possono essere i più forti. (Klaudio e altri)
2-Quando non sai qualcosa devi pensare un “piano” (Andrei S.)
2- Non bisogna arrendersi.(Martina R.)
3- Non si deve denigrare o sottovalutare gli altri (molti bambini l’hanno espresso sotto la forma “non si deve prendere in giro”)
4- Ce la puoi fare se usi tutta la forza che hai in te. (Giada)
5-Dobbiamo fidarci degli amici. (Martina)
6-Invece di prendere in giro gli altri bisogna dargli almeno una possibilità. (Alessandro)
7-Prima di dire delle cose ci dobbiamo sempre pensare.(Giada)
8-La generosità: il moscerino aiuta le formiche anche se loro non gli danno fiducia (Chakira)
9-Bisogna credere agli altri (Marta)

14 Maggio 3^ Conversazione: “ La forza che è in te”

Riprendiamo la discussione a partire dall’idea di Giada, che esiste una “forza che è in te” diversa da quella “dei più grandi”.
Santiago: la forza che è in te è la mente e il corpo, però per fare una cosa importante la devi svuotare tutta, sennò non ci riesci…
Klaudio: per me è quella del cuore, perché quando uno si arrabbia con un altro, poi gli fa vedere cosa sa fare lui, e allora ci vuole la forza del cuore….
Santiago: come il moscerino….
Adriana (maestra): e cioè?
Santiago: …che le formiche l’hanno offeso allora si è arrabbiato e ha visto la roccia e si è accorto che era una chiocciola….
Andrei S.: ma il moscerino non è sicuro che si arrabbia…..secondo me la forza che è in te è quando tu provi a tirar fuori la forza della testa.
Marta: per me è quella dell’intelligenza.
Alessandra: forse potrebbe essere la forza del cervello…pensi e pensi..e puoi trovare come spostarlo (il sasso del racconto)…
Martina R.: esiste anche la forza dell’immaginazione. E quindi uno si immagina qualcosa, per esempio il moscerino ha immaginato che quella roccia poteva essere una chiocciola che si era addormentata.
Alessandra: forse è la forza di conoscenza….che magari il moscerino ha guardato dall’alto e ha riconosciuto la chiocciola.
Santiago: esistono tanti tipi di forza, se si mischiano tutti i tipi di forza forse di possono risolvere anche problemi differenti.

Adriana: puoi spiegare meglio?
Santiago: se si uniscono le due forze dell’intelligenza e della riconoscenza…..
Adriana: che cosa intendi per “forza della riconoscenza”?
Santiago: quando uno riconosce una cosa.
Adriana: ah…allora questo si dice : “riconoscimento”. La riconoscenza significa un’altra cosa, è come la gratitudine.. (brusio interrogativo fra i bambini)…la  gratitudine è quando si riconosce a qualcuno che ti ha fatto un piacere, o che ti ha fatto del bene, si dice anche che uno è “riconoscente”. Invece il riconoscimento è quando si riconosce una cosa per quello che è …Dunque, Santiago, che cos’è per te la forza del riconoscimento?
Santiago: è quando uno capisce che cos’è quella cosa.
Rawene: per me la forza che è in te è quella del coraggio, se uno c’ha il coraggio tira fuori tutte le sue forze.
Klaudio: ci può essere anche la forza delle vene, che il sangue che hai tu viene su una parte del corpo e così diventa più forte.
Brusio interrogativo degli altri bambini

Adriana: sì, è vero, Klaudio sta parlando di una cosa scientifica, succede proprio così, quando si deve fare uno sforzo muscolare, per esempio per correre veloci, il sangue affluisce ai muscoli interessati allo sforzo.
MartinaR.: esiste la forza della sapienza?
Adriana: chi vuole rispondere?
Martina R.: io credo che esiste, è quando uno per esempio è con la sorellina e si perde, però se ha la forza della sapienza sa ritrovare la strada e possono tornare a casa.
Marta: esiste anche la forza degli occhi…è quando uno si fa capire con gli occhi.
Chakira: quando hai la forza nel cuore puoi anche farcela, per esempio oggi abbiamo giocato alle “missioni speciali” e Andrei S. era il cattivo, allora io ho sentito una forza nel cuore e l’ho sconfitto.
Claudia: io penso come ha detto Klaudio: la forza viene dal sangue.
Andrei S.: forse il moscerino ha usato le forze combinate.
Santiago: voglio parlare della forza degli occhi. A me mi è successo che a volte puoi vedere il passato….una volta il babbo mi diceva una cosa e io mi sono immaginato come era successo…
Adriana: allora è come la forza dell’immaginazione di cui parlava Martina.
Santiago: sì.
Klaudio: la forza degli occhi è anche quando concentri gli occhi su una cosa che non si capisce tanto…
Alessandra: con le forze unite si può anche creare un’altra forza più potente.
Michael: c’è anche la forza della magia.
Chakira: alla città della domenica ho visto un coccodrillo vero e non ci vado più…
Adriana: che c’entra con la forza?
Chakira: è perché ho provato la forza della paura….e anche della meraviglia. Ma la forza della paura è stata più grande perché ho detto al babbo che non ci voglio tornare….
Riccardo: La forza delle emozioni!!!
Adriana: perché è una forza?
Riccardo: le emozioni ti fanno fare delle cose anche se qualche volta non le vuoi fare.
Andrei S.: la forza delle emozioni è anche quando la puoi usare per fare le cose.
Santiago: la forza delle emozioni può anche contagiare qualcuno….se io sono allegro posso contagiare gli altri….
Brusio di …allegria..(Santiago è famoso per il fatto che fa sempre ridere tutti)
Klaudio: c’è anche la forza dei cinque sensi…
Adriana: accidenti!…sapete che a tutti questi tipi di forza non ci avevo mai pensato?….è molto interessante…
Rawene: quando unisci tutte le tue forze puoi superare anche cose molto difficili.
Klaudio: non sono d’accordo perché se qualcuno ha ancora più poteri di te, tu non ce la fai.
Santiago: sono d’accordo con Rawene perché, come ha detto Klaudio, anche i piccoli possono essere più forti, e quindi se un piccolo riunisce i suoi tipi di forza può vincere un potente.
Andrei S.: io sono d’accordo con Klaudio.
Riccardo: io penso come Rawene.
Lorenzo: sono d’accordo con Santiago.
Alessandro: anche io.
Adriana: e quindi siete d’accordo con quello che ha detto anche Rawene.
Chakira: io sono d’accordo con tutti e due perché mi piacciono questi due pensieri, e poi non lo so, mi sembrano giusti tutti e due…
Giada: anche io sono d’accordo con Santiago e Rawene.
Rawene: se uno è più forte di un altro e chiama il suo amico, tutti e due insieme possono superare anche quello che ha più poteri.
Andrei M.: un genitore, se unisce le sue forze, magari però non ce la fa ….
Adriana: a fare cosa?
Andrei M.: ….che ne so…a fare il genitore.
Martina R: credo che c’è una forza… che dobbiamo credere in noi, perché se non ci crediamo non ci riusciamo mai…
Klaudio: delle volte i piccoli possono essere più forti di quello che pensiamo.
Andrei S.: ma già l’abbiamo detto.
Adriana: ma stavolta Klaudio ha aggiunto un altro piccolo pensiero, ha detto “di quello che pensiamo”…non è proprio la stessa cosa, non credete?
Martina R. : sì, è diverso, non ha detto che possono essere più forti di un grande, ha detto che possono essere più forti anche se noi non ci crediamo…..Come le formiche e il moscerino…
Michael: per esempio può essere che c’è qualcuno che pensa di essere più forte e invece non è vero: l’altro è più forte di lui.
Adriana: vogliamo trovare una conclusione della nostra conversazione?
Alessandra: ho pensato che quando vuoi credere in te, chiudi gli occhi e metti le mani sul cuore.
Adriana: ma cosa serve per credere in se stessi?
Michael: l’intelligenza.
Giada: il cuore e la testa.
Martina: dobbiamo essere fiduciosi in noi.
Adriana: e cosa ci serve per avere fiducia in noi?
Marco: secondo me ci serve la testa…di pensare bene.
Marta: il cervello.
Alessio: bisogna usare il nostro corpo, tutto quanto, anche il cuore e la mente, così otteniamo la forza.
Martina R.: ci serve anche l’aiuto …
Giada: anche che gli altri non ci prendano in giro.
Santiago: ho un’idea: unendo tutte le forze del corpo esce fuori la vera forza!
Adriana: possiamo concludere lasciando una domanda aperta, sulla quale potremmo riprendere la discussione in seguito.
“Cosa ci serve per avere fiducia in noi?”
Il lavoro è continuato in classe, dove ho proposto ai bambini di rappresentare pittoricamente “La forza che è dentro di te”. Per questo laboratorio ho approntato un sottofondo musicale (da Jan Garbarek: The legend of the seventh dream). Ognuno ha potuto scegliere la tecnica che preferiva, poi ho invitato i bambini a dare un titolo esplicativo al loro “quadro”.
I titoli -e le spiegazioni che qualcuno ha voluto fornire delle proprie opere-, sono risultati un ulteriore sviluppo dell’argomento, tanto che ho voluto trarne un “copione” di una possibile performance teatrale che proveremo a mettere in scena all’inizio del prossimo anno scolastico.

Epilogo del lavoro di riflessione sul testo. Ultimo giorno di scuola.

Siamo in attesa di partecipare alla tradizionale festa della 5^, che celebra la fine del suo ciclo scolastico.
Decidiamo di utilizzare questa ultima ora di scuola per “provare” la nostra perfomance teatrale dal titolo “La forza che è dentro di te”.
Al rientro in classe dalla palestra , abbiamo ancora qualche minuto prima della festa. E parliamo del nostro lavoro.

Marta chiede:
-Ma allora, màe, qual’ era la risposta “giusta” dei signori Invalsi?
(riferendosi evidentemente alla domanda delle prove INVALSI sull’insegnamento della favola.)
-Beh, rispondo io, I “signori Invalsi” ritengono giusta la risposta n.2 (lettera A), quella che dice: Non sempre le cose sono quello che sembrano”.
Silenzio totale nell’aula. Qualche bambino appare perplesso. Poi subito Santiago si riscuote per dire:
-Ma quali cose non sembrano quelle che sono?
-No, -dico io-, è il contrario: le cose non sono quello che sembrano….La favola, secondo i signori Invalsi, ci insegna a non fidarci dell’apparenza.
Chakira si fa portavoce di un largo brusio interrogativo:
-Che cos’è l’apparenza?
Io: -L’apparenza di una cosa è quello che sembra…..insomma, quello non era un sasso, ma una chiocciola. L’apparenza di quell’oggetto era un sasso, e la realtà era una chiocciola.
Marta: Ma è troppo poco!
Io: che vuoi dire?
Marta: non è tanto interessante. E’ più interessante la nostra! (risposta)
Brusio di approvazione nella classe.
Io: Perché?
Martina R.: mi sembra più giusta che “Il più piccolo può anche essere il più forte” perché sennò come faceva il moscerino a risolvere il problema? E poi anche che ci dobbiamo fidare degli amici e non ci dobbiamo arrendere.
Santiago: è più interessante la nostra perché noi ci abbiamo pensato molto e abbiamo trovato tante cose, anche di non prendere in giro gli altri….
Vorrei sapere qualcosa in più su ciò che pensano della “risposta giusta” dei “Signori Invalsi”, penso che avremmo bisogno di strutturare un’altra conversazione, anche riguardo il binomio “Realtà/apparenza”, ma il tempo a nostra disposizione è finito.

L’anno scolastico è finito.
Come al solito non avevo previsto questo ulteriore sviluppo del lavoro. Perciò mi riprometto di riprendere l’argomento a settembre, insieme alla presentazione alle altre classi della nostra performance “La forza che è dentro di te”.

“I signori Invalsi” , per una nuova filosofia della valutazione

Il lavoro di conversazione filosofica svolto con i bambini, come accade quasi sempre, ha lasciato dei segni anche sul mio pensiero adulto.
Sulle prime, leggendo quel testo e il relativo questionario somministrato agli alunni, benché provassi un forte dubbio circa l’impostazione e relativi criteri del questionario stesso, non avevo focalizzato il problema; o meglio, di fronte a quella domanda in particolare, sulla morale della favola, l’unica cosa che mi era balzata agli occhi era il fatto che non potesse essere “letta” da bambini di 7-8 anni, se non, forse, dopo una riflessione guidata.
Così come mi era balzato agli occhi che le risposte date per giuste dai bambini non erano affatto illogiche, benché considerate sbagliate dagli organizzatori delle prove.

Ora, dopo il lavoro di riflessione e discussione con la classe, devo dire che la mia lettura della favola si è ulteriormente arricchita di altre chiavi di lettura, proprio grazie al fatto di avervi posto attenzione attraverso l’ascolto delle opinioni dei bambini.
Se devo dire quale sembra a me la morale della favola, (ossia il meta messaggio attorno al quale l’autore ha costruito la storia), non è certamente quella che “l’apparenza inganna”. Mi sembra che il messaggio ben più significativo sia un altro: e cioè che per risolvere un problema apparentemente irrisolvibile si deve spostare il punto di vista: guardando dall’alto il moscerino “vede” qual è il vero problema.
Certamente questa morale non avrebbe potuto essere oggetto di comprensione da parte di bambini di sette anni, i quali non possono saperne di “punto di vista”, sebbene già nella prima conversazione alcuni di loro siano subito arrivati a considerare il punto di vista “altro” del moscerino come causa della sua forza. Ma non hanno saputo dare un nome a questo fatto (il punto di vista, per l’appunto), e ci sono arrivati nell’ambito di una conversazione, cioè all’interno di uno spazio di ascolto costruito ad hoc, come occasione di riflessione collettiva sul testo. E inoltre è abbastanza ovvio che i bambini, pur avendo subito focalizzato l’attenzione sul motivo della “maggiore forza del moscerino”, non potevano (non potrebbero a questa età) andare oltre nella speculazione: ossia non sono arrivati ad esplicitare la generalizzazione che, a partire dalla diversa visione del moscerino, porta a considerare “la differenza di punto di vista” come possibile concetto chiave sul quale si regge la soluzione del problema. Insomma non possono trarre dallo specifico e dal particolare di questa favola (il moscerino che guarda la scena dall’alto), un concetto generalizzato e generalizzabile come quello che “basta cambiare il punto di vista”.

Ma, a ben guardare, i bambini di questa età, possono forse ritenersi intellettualmente maturi per poter fare generalizzazioni a partire da uno specifico racconto?
E la morale della favola loro richiesta in questa prova, non è forse una generalizzazione a partire dalla specificità e dalla particolarità di un racconto?
Insomma si ritiene che bambini di 7 anni debbano essere in grado di generalizzare passando dal particolare di una favola all’universale dell’insegnamento che vi è inserito.
Se almeno fosse stata una favola di Esopo o Fedro, sarebbe stato un po’ più semplice capirne il senso. Anche perché nelle favole classiche la morale è una e una sola. Non si può sbagliare. Qui invece, in questa favola moderna di S. Bordiglioni (molto apprezzabile per gli spunti di riflessione che offre, debbo dire), mi pare che di eventuali morali possano essercene ben più di una. E nessuna delle risposte proposte ai bambini è dimostrabile essere sbagliata dal punto di vista della comprensione del testo (non era questa la competenza che voleva essere valutata?)
Perché mai sarebbe sbagliata la risposta n. 4 (lettera D)? Non è forse vero che, nel testo, nonostante le formiche uniscano le proprie forze, non riescono a risolvere il problema?.
E perché dovrebbe essere sbagliata la n.3 (lettera C)? ..Certo, abbiamo appurato anche nella nostra conversazione, che non si tratta di “intelligenza”, ma comunque il moscerino non mostra forse di “avere una marcia in più” rispetto alle formiche?

Come dimostra ampiamente il lavoro svolto, se si lasciano riflettere i bambini in un’attività collettiva come quella delle conversazioni filosofiche appena illustrata, allora si può forse aspettarsi (non pretendere!!) che arrivino a capire che non si tratta di intelligenza e che si tratta invece di un altro tipo di forza. Ma neppure di forza muscolare si tratta ….dunque ecco che i miei alunni (gli stessi che hanno sbagliato la risposta sul questionario), si pongono il problema di quali e quanti tipi di forza esistano.
Per quanto concerne la risposta n.1 (scelta solo da una bambina): si può dimostrare che l’autore non voglia (fra le altre cose) farci apparire molto interessante il mondo degli animali?
Poiché ai bambini non è stato chiesto: “Qual è la morale della favola”, bensì “che cosa ha voluto farci capire il racconto”, anche questa risposta, per quanto generica e vaga, non risulta illogica, e non denota affatto la non comprensione del testo. Parlo di comprensione “letterale” , ovviamente. Ma qui mi sembra che, invece, quello che è stato richiesto a bambini di 7-8 anni, è una comprensione “metaforica”. E’ il meta messaggio contenuto nel testo, e non il senso letterale del testo stesso, che i bambini erano invitati ad esplicitare.
Ora, credo di aver dimostrato col mio lavoro che la comprensione metaforica non è affatto fuori della portata dei bambini, purché li si lasci ragionare con calma all’interno di una Comunità di Ricerca*, nella quale, per definizione, sono rispettati i tempi di maturazione di ognuno, e non si pretende perciò che a 7 anni siano in grado, individualmente, e senza aver potuto discuterne insieme, di rispondere a bruciapelo a domande di senso così astratte come quella sulla morale di una favola.

*N.d.a. Fra le tante definizioni di Comunità di Ricerca (termine coniato dal filosofo C. S. Peirce, e ripreso largamente, oltre che diffuso, dal movimento di pensiero pedagogico che fa riferimento al filosofo M. Lipman sotto la denominazione di Philosophy for Children), preferisco in questo contesto limitarmi a citare me stessa, con una concisa spiegazione “pratica”che non può certo essere esaustiva delle molteplici sfaccettature né dell’enorme valenza del
concetto in questione:
La Comunità di Ricerca è, nelle nostre intenzioni come nelle nostre esperienze, una collettività di persone di varie età (adulti e non adulti) che, insieme, dialoga e si confronta su problemi di vario genere, partendo da letture come da problematiche relazionali; da osservazioni di fenomeni naturali come dalla visione di opere d’arte o dall’ascolto di musiche. Si tratta di un gruppo allargato di persone che coltivano insieme, consapevolmente, la propria tensione verso la conoscenza. Ciò in cui dovrebbe trasformarsi ogni scuola degna del nome. [A.Presentini, La ragione dei bambini, in“Per una critica della ragion puerile”, W.Pilini e AnnaRita Nutarelli ed. Marlacchi].

Aggiungo ancora :
La C.d. R. è caratterizzata dall’apertura di uno spazio di ascolto attivo e autentico in cui il dialogo trova il suo terreno di coltura, atto all’espressione e allo sviluppo del pensiero individuale come alla continua elaborazione di un pensiero collettivo. La C.d.R. è in realtà, nella sua autentica realizzazione, l’obiettivo ultimo dell’educazione, il fine cui tutta l’attività didattica continuamente deve tendere, oltre che la dimensione, la cornice dinamica, entro la quale tutta l’attività didattica deve svolgersi.
Ne deduco che i “signori dell’Invalsi” certamente non si sono posti in un’ottica pedagogica di possibile valutazione di competenze logiche, ma in un’ottica di “misurazione” quantitativa – ancorché effettuata attraverso strumenti inidonei-, di capacità attinenti al solo pensiero convergente.
Lo deduco anche dal fatto che i miei alunni, abituati al lavoro inverso di riflettere sui testi a partire dalle domande formulate da loro stessi, ed “educati” nella misura di una continua esortazione rassicurante, all’idea che a domande di senso scaturite da un testo letterario non c’è mai una e una sola risposta *, abbiano tutti “sbagliato” la risposta a questa domanda.
Non ho problemi a dire che, entrando in classe la mattina dopo aver corretto le prove di Italiano, ho detto ai miei alunni: “Bravi!.. perché avete sbagliato!”. Naturalmente ho spiegato loro il senso della mia esclamazione elogiativa, la quale si rivolgeva anche ad altre risposte “sbagliate” fornite dagli alunni sullo stesso testo.

Mi faccio pertanto un dovere di rivolgere queste mie riflessioni , unitamente all’invito a leggere attentamente il lavoro effettuato con i bambini, ai “Signori Invalsi” che, al pari dei miei alunni, non so chi siano.

Dunque procedo con la mia analisi:
A quale meta messaggio contenuto nel testo si vuole che rispondano i bambini?
A quello che riguarda, secondo gli organizzatori delle prove, la morale di questa favola.
Nella fattispecie, il fatto che l’apparenza del sasso corrisponde alla realtà di una
chiocciola.
A parte l’errore “scientifico” fattomi notare da una mia collega, per cui nel testo del questionario si identifica la lumaca con la chiocciola, creando di fatto un possibile equivoco nella risposta n.12.
Voglio invece considerare il fatto che gli alunni di classe seconda siano stati posti di fronte alla dicotomia “Realtà /apparenza”. Dicotomia che da sempre ha stimolato speculazioni filosofiche di tipo ontologico che, dai filosofi greci in poi, non sono venute a capo di una verità definitiva a riguardo. Pirandello, che nella sua poetica ha risolto decidendo che “così è, se vi pare”, direbbe in questo caso: “Quello è un sasso, se così pare alle formiche”. Platone forse screditerebbe il tutto dicendo che sasso e chiocciola sono meri riflessi di una realtà superiore. Aristotele naturalmente non sarebbe d’accordo;
Eraclito, chissà, potrebbe perfino sostenere che nel gran calderone del divenire chiocciola e sasso stanno fra loro in un rapporto cronologico (ciò che oggi è chiocciola potrebbe divenire sasso, magari fossilizzato in una roccia, e contraddire perciò nel tempo la propria identità…), mentre il grande Parmenide vedrebbe entrambi come appartenenti
all’Uno indivisibile e immutabile, e via di questo passo….. Ma insomma quello che è certo è che “non sempre una cosa è come ci appare”: bellissimo stimolo alla riflessione ontologica, senza dubbio.
Ora però mi sembra impossibile che bambini di 7/8 anni possano possedere i prerequisiti culturali, oltre che intellettuali, necessari a capire quello che un adulto, anche senza aver molto studiato, può percepire come un’ovvietà: l’apparenza inganna. Chi non lo sa? E’ perfino un proverbio.
*N.d.a. L’autrice, attualmente membro del consiglio direttivo dell’Associazione “AmicaSofia: filosofare con bambini e ragazzi”, sta conducendo una sperimentazione di pratica filosofica con le proprie classi di scuola primaria, iniziata nel 2004.

Ma i bambini di 7 anni, lo sanno? Hanno mai sentito parlare di apparenza in contrapposizione a “ciò che è reale”? Si sono mai posti il problema di quanto e quando una cosa sia davvero quella cosa oppure lo sembri soltanto?
Non credo.
Intervistandoli sull’argomento (intervista non ancora trascritta, che intendo aggiungere al presente lavoro) ci si può accorgere che, posti di fronte al problema, sono ben capaci di fare riferimento alla propria esperienza raccontando che, qualche buona volta, è loro capitato di credere all’apparenza di una cosa e poi scoprire che era diversa in realtà.
Ma comunque lo fanno solo ricorrendo ad aneddoti di esperienze concrete e non tutti (o piuttosto solo pochissimi) sono in grado di generalizzare tali esperienze per ricavarne il
concetto “filosofico” della possibile dicotomia fra realtà e apparenza. E anche quelli che fra loro arrivano a farlo, lo fanno eventualmente dopo essere stati guidati dall’insegnante attraverso una discussione del tipo di quelle riportate.
Ora, analizzando il contenuto delle varie domande e risposte presentate dal questionario sul testo, dal punto di vista dell’ adeguatezza nei confronti del livello strumentale
posseduto dai bambini di classe seconda, ne deduco quanto segue:
a- messo di fronte alla domanda n.15 e relative risposte, un adulto dà per scontato che “L’unione fa la forza”, (non ce lo hanno insegnato fino al punto che è diventato un proverbio?) e pertanto il contrario di tale ovvio dettame morale non può essere la morale di questa favola.[Ma il “pensiero- bambino”, e questo l’ho imparato in anni di esperienza di conversazioni filosofiche, non possiede l’ ovvietà manichea del pensiero adulto…dunque per un bambino non ci sono cose scontate, è ben possibile che, a volte, l’unione non faccia la forza. Ed è indiscutibile che questo possa esser vero e, nella fattispecie, è proprio una cosa che succede nel racconto].

b- L’adulto dà per scontato che il moscerino non è più intelligente, perché conosce il concetto di “punto di vista” e sa che si tratta di questo. Inoltre ha avuto senz’altro la possibilità, nella sua esperienza scolastica e non, di distinguere la categoria dell’intelligenza da quella della capacità di risolvere un problema.
c- L’adulto dà per scontato che l’autore non voglia parlarci del mondo degli animali, altrimenti utilizzerebbe altre informazioni e altra tipologia narrativa.
d- L’adulto può evincere dal testo che le formiche non sono sudate e stanche perché hanno spinto le provviste, o perché hanno fatto molta strada, ma perché hanno provato a spostare il sasso; e tuttavia si può davvero sostenere, in base al testo, che le formiche non siano sudate e stanche perché hanno spinto le provviste, oppure perché hanno fatto molta strada?
e- L’adulto che legge le 4 risposte alla n.12, barra senza pensare la n.3, lettera C (la lumaca), dando per scontato l’errore scientifico del testo, oppure ignorandolo per ignoranza…
f-Inoltre, dopo le conversazioni con la classe, si potrebbero aggiungere alla varie risposte della n. 15, le altre “letture” della favola che hanno dato i miei alunni, e non solo non sarebbero sbagliate, ma rappresentano a mio avviso una originalissima analisi delle varie sfaccettature di significato cui la favola si presta (vedi conversazione n.2 riportata a p. 7/8 ) unitamente alla mia lettura: la forza del moscerino è il suo diverso punto di vista.
(Adriana, maestra)

In conclusione:
1-La capacità di lettura e interpretazione degli eventuali meta messaggi è qualcosa che è
opportuno e giusto chiedere a bambini di 7 / 8 anni? E in caso affermativo è giusto
chiederlo attraverso la somministrazione di un questionario a risposta multipla e a tempo limitato?
2-Ed eventualmente, ci si è chiesti se il meta messaggio riguardante l’insegnamento implicito nel testo fosse indiscutibilmente uno e uno solo, o proprio quello dedotto dai Sig.Invalsi?
3-Se si vuole sondare in qualche modo la capacità di astrazione e meta cognizione in bambini di 7 anni, non si dovrebbe forse ricorrere a ben altri parametri, che considerino il livello del loro sviluppo mentale e culturale, e a tutt’altro tipo di indagine (basato su un altro genere di prova)?
4-E in tal caso, tale sondaggio, potrebbe essere considerato valido per una misurazione di competenze?…Sondaggi del genere possono forse servire a ricercatori pedagogisti per spostare gli orizzonti psico-pedagogici nel campo dell’educazione; possono forse servire a farne delle statistiche sulla capacità di riflessione in bambini di 7 anni.
5-Ma in tal caso si dovrebbe comunque accordare ai bambini un tempo e uno spazio congrui alla riflessione (prevedendo possibilmente la creazione di un “setting” di discussione*) e non uno spazio e tempo “standard” e non flessibili per rispondere a bruciapelo a domande di senso.
Insomma gli strumenti predisposti all’uopo (di valutare le competenze relative alla comprensione del testo) sono a mio avviso assolutamente inadeguati, così come evidentemente lo sono i criteri che stanno a monte di una scelta del genere. I quali, -se posso essere generica-, mi sembrano essere piuttosto consoni ad una prova di matematica che ad una prova di comprensione di testo letterario.
Si vuole, cioè, “misurare” una competenza “meta-cognitiva” (che non è misurabile in quanto non attiene ad una quantità ma semmai ad una qualità del pensiero) con i soli strumenti di misurazione di una capacità “cognitiva”. Dando per scontato che nella meta cognizione non entri in ballo –necessariamente- anche il pensiero divergente.
A questo punto la domanda è: I miei alunni hanno sbagliato?

Tralascio di entrare nel merito di una analisi ipotetica sugli intenti delle prove INVALSI (cioè a cosa debbano servire). E’ chiaro tuttavia che me lo chiedo, tanto più che l’obbligatorietà si è accompagnata, quest’anno, ad una modalità di somministrazione così eccessivamente “fiscale” e “secretata” da far pensare a qualcosa come un esame di stato, o simile.

*N.d.a. Il termine “setting” di chiara origine anglosassone, è stato adottato da una buona parte di quel vasto movimento di pensiero pedagogico che, negli ultimi decenni, si è occupato di introdurre una specifica attività di tipo “filosofico” nelle scuole dell’obbligo, in varie parti del mondo.
(Vedi, a questo proposito il testo “Abitare la domanda” di C.Calliero e A.Galvagno, che presenta fra l’altro un excursus molto accurato sulla storia di tale movimento ). Il setting, in poche parole, è la predisposizione di uno spazio adeguato alla discussione filosofica con i bambini, e implica una serie di accorgimenti metodologici che devono garantire il più possibile un corretto svolgimento dell’attività ( basato sull’ascolto autentico, scevro da pregiudizi e libero dall’ansia del giudizio), non inquinato dall’ingerenza orientante del conduttore.

Mi soffermo solo un attimo a considerare il ruolo che è stato richiesto a noi insegnanti di classe.
1-Siamo stati utilizzati, forzatamente, come semplici “somministratori”, che nulla sanno della medicina che stanno somministrando, anzi spesso nutrono forti dubbi sulla sua bontà ; e debbono somministrarla a pazienti che, dal loro punto di vista, non sono affatto malati….mi si perdoni la metafora, il linguaggio tecnico utilizzato in questo caso (la somministrazione) è abbastanza eloquente.
2-Abbiamo ricevuto istruzioni perentorie e tassative sulle modalità di “somministrazione” di qualcosa che ci è passato completamente sopra la testa , e di cui non abbiamo potuto chiedere il senso, sebbene avvenga nelle ore scolastiche e riguardi strettamente noi e i nostri alunni, quelle componenti la Relazione Educativa, cioè, che normalmente lavorano insieme all’arricchimento della crescita di ognuno.
3-Siamo stati pure chiamati a correggere le prove, secondo criteri non nostri, ovviamente, ma dettati circonstanziatamente dall’entità superiore che sono costretta, per esemplificazione e necessità, a chiamare “I signori Invalsi”. Stessa logica, dunque, di quella applicata nei confronti degli alunni: la richiesta è quella di eseguire, con la maggior efficienza possibile, senza chiedersi il senso di ciò che si esegue.
4- Le ore prestate oltre l’orario di servizio per correggere le prove, non vengono retribuite con un fondo ministeriale ad hoc, bensì con il Fondo di Istituto che serve all’incentivazione del nostro lavoro straordinario. Il quale fondo, essendo coperta unica e molto corta, lascia di conseguenza scoperte ben altre ore di lavoro effettuate per far fronte ad una didattica dignitosa.
Inutile dire che preferiremmo di gran lunga essere esentati da un lavoro nel quale non possiamo credere, perché oltretutto non ne conosciamo né i criteri né gli intenti, e poter invece utilizzare tutto il fondo di istituto per il lavoro che ci sembra proficuo e irrinunciabile ad una scuola degna del nome.
Sembra così che ci arrivi, insieme alle prove Invalsi, anche un altro meta-messaggio, quello che ci dissuade dal dedicarci a progetti di cosiddetto “ampliamento dell’offerta formativa” (ma che io preferisco chiamare, con un linguaggio assai più consono, progetti per rendere autentica l’offerta educativa), visto che poi vediamo assottigliarsi anche quell’incentivo simbolico in onore delle ben più importanti prove Invalsi.

Le quali prove invalsi, ovviamente, costerebbero molto più care, se si volesse incaricarne un personale esterno alla scuola, che non potrebbe accontentarsi di una retribuzione pari a 17,50 euro lorde l’ora.
In definitiva, ci si può a buon diritto sentire “beffati” su tutta la linea.
Chi, come me, non condivide tale azione “valutativa” per tutte le ragioni illustrate, è pure costretto a prestare servizio aggiuntivo dietro un compenso abbastanza irrisorio, sottratto, peraltro, a quello spettante per attività “progettate e condivise collegialmente” in base ad una attenta analisi dei bisogni.
Ma ora voglio entrare nel merito della “filosofia dell’educazione” che ispira la somministrazione di tali prove. Evidentemente non si tratta di promuovere una formazione al pensiero critico e riflessivo, né all’autonomia di pensiero e alla creatività implicita nel pensiero divergente.
Un tal genere di prove sottende molto evidentemente l’attenzione a promuovere il pensiero “unico”, un pensiero che si adegui il più possibile, se non ai cliché, senz’altro all’ovvietà del pensiero adulto, caratterizzato dalla mancanza di riflessività e approfondimento che danno luogo, necessariamente, ad un assorbimento passivo della comune morale.
E qui entro nel merito delle specifiche domande poste agli alunni:
Domanda n. 16
Leggo la domanda e le relative risposte e ne deduco questa evidenza: dunque i Signori Invalsi, oltre a ritenere che la morale della favola è “Non sempre le cose sono quello che sembrano”, ritengono anche che la forza del moscerino sia la sua intelligenza. Altrimenti perché riterrebbero giusta la risposta n.4 (lettera D: “capisce che cos’è il sasso”) ?
Ma i miei alunni, se non sbaglio, durante le conversazioni appena riportate, non analizzano forse il perché il moscerino capisce che si tratta di un sasso? E non giungono forse ad una conclusione ben più approfondita e saggia?( Il moscerino è avvantaggiato non perché più intelligente ma perché vede dall’alto). E tornando a ciò che è ritenuto giusto dai Signori Invalsi: mi pare che lo stesso concetto, e cioè che il moscerino è intelligente, venga rafforzato e avvalorato anche dalla domanda n.13 (Come puoi definire il moscerino?), alla quale francamente non ricordo quale debba essere la risposta giusta per i sig. Invalsi, forse la n.3 (lettera C: Scherzoso)……ma in tal caso non sarebbe una pura illazione ritenere che il moscerino sia “scherzoso” quando l’autore non lo dice, e non sia invece “intelligente”, visto che, alla luce della domanda n.16, il moscerino senz’altro deve la sua forza al fatto che capisce che cos’è il sasso.?

E nel caso che la risposta ritenuta giusta dai sig. Invalsi sia invece la n.2 (lettera B: Intelligente), allora questa non sarebbe in piena contraddizione con il ritenere sbagliata la risposta n.3 della domanda successiva sulla morale della favola (lettera C: i moscerini sono più intelligenti delle formiche)?
Dunque un bambino che ritornasse sui suoi passi a riguardare tutte le domande a fine prova, anche se avesse barrato un’altra risposta (diversa da quella che “I moscerini sono più intelligenti delle formiche”), sarebbe indotto a ripensarci alla luce della domanda n.16 e della n.13. Cioè sarebbe indotto in errore.
Insomma cosa potrebbe non far pensare , nel testo delle domande, che la forza del moscerino non sia proprio l’intelligenza?
E non è forse troppo pretendere che bambini di classe seconda comprendano al volo di che tipo di forza di tratti, visto che, evidentemente, gli stessi sig. Invalsi non l’hanno compreso?
E, alla fine di tutto, una prova siffatta, servirebbe a capire cosa dell’alunno? Certamente non la comprensione del testo, che è funzione del pensiero critico e non della rapidità di risposta.
Se si avesse a cuore la comprensione globale di senso, sarebbe stata una prova
caratterizzata da tutt’altri parametri, ad esempio quello del tempo; e non avrebbe potuto essere un questionario a risposta multipla, perché avrebbe dovuto lasciare spazio ad una risposta “aperta” di spiegazione argomentativa del proprio punto di vista, del tipo “Secondo me…..”
A chi mi ha obiettato che tali prove mirano solo ad un aspetto della valutazione, e pertanto possono costituire un elemento –e anche uno strumento valido- ai fini della valutazione stessa, rispondo che questo è assolutamente falso, primo perché i risultati di tale prove mi dicono cose del tutto contraddittorie la mia quotidiana esperienza “valutativa” del percorso dei miei alunni (se un bambino perfettamente logico e capace di inferenze anche importanti nel normale svolgimento delle attività scolastiche, sbaglia le risposte a tali prove, io dovrei tenerne conto ai fini della valutazione? E perché mai?

Dal momento che tale errore, a guardar bene, non è che la testimonianza di un procedimento riflessivo messo in atto dall’alunno sebbene non richiesto dalla prova; di un metodo di “studio” critico e non passivo?…. paradossalmente, potrei utilizzare il risultato di queste prove all’incontrario e considerare l’errore un successo di apprendimento…..); secondo perché si tratta di uno strumento che comunica un preciso messaggio. E tale messaggio contraddice in modo stridente quello che non solo io, ma tutta la nostra scuola, costantemente e pervicacemente si perita di mandare ai bambini: quando si tratta di un testo letterario, o di un problema relazionale, o di una qualsiasi domanda di senso scaturita dalla nostra quotidiana vita in comune, tutte le opinioni e le interpretazioni sono “giuste”, nel senso di accettabili. Mi spiego:

1-Da anni, e in particolare da quando mi occupo di filosofia con i bambini, come ho già accennato, mi faccio un dovere di comunicare ai miei alunni il fatto che ad una domanda di senso, o valoriale, non c’è mai una e una sola risposta, e che la risposta giusta, lo è nella misura di una condivisione su base dialogica, oltre ad essere ‘verità provvisoria’ del gruppo, sempre suscettibile di essere di nuovo oggetto di indagine e discussione. Questo implica, al di là di tutto, una estrema facilità al superamento della “paura di parlare” da parte degli alunni più insicuri o più fragili.

2-E inoltre –cosa forse ancora più importante-, il lavoro che solitamente propongo di fare su un testo del genere (favola morale) è di tipo inverso, come ho già spiegato: nessuna domanda calata dall’alto, preconfezionata dal docente, ma domande formulate dai bambini stessi, individualmente oppure in coppia, scaturite dalla loro lettura del testo.
Questo consente un lavoro di ascolto autentico*e dialogo non inquinato dall’orientamento preventivo dell’insegnante (che pretende di sapere in anticipo dove l’attività vada a parare) e favorisce indiscutibilmente la motivazione e l’interesse a partecipare, visto che i bambini percepiscono a pieno un clima “non giudicante” e stimolante l’intervento.

*N.d.a. Ascolto autentico nel senso di immersione, immedesimazione totale nel contesto educativo della pratica filosofica, accettandone le irrinunciabili regole.
Le quali consistono sostanzialmente nella rimozione del giudizio e del pregiudizio. Non parlo più volutamente di “sospensione”, perché sospendere qualcosa implica nel proprio stesso significato, il riprenderla subito dopo la pausa.
Ma l’attività filosofica, nel suo essere strumento e al tempo stesso contenuto sostanziale della C.d.R. (ossia di un gruppo che si auto dimensiona nella prospettiva della crescita del pensiero e della propria umanità) non può essere una semplice pausa, una parentesi oltre la quale riprendere la consuetudine del giudicare/pregiudicare; pena il suo rinnegarsi. In sostanza, una pratica filosofica relegata ad una pausa, quand’anche costruttiva, edificante e liberatoria, non incide minimamente in modo critico sul sistema di relazione educativa asimmetrico e verticale che ancora oggi domina la scena della scuola. Di conseguenza, poiché non si traduce in una crescita della relazione educativa (nulla può crescere in senso educativo senza la messa in gioco –e in crisi- del sistema di riferimento al quale appartiene), resta, al massimo, un asfittico “non luogo” in cui si gioca a far finta; una bella recita che lascia tutto come prima, alla fine della quale nessuno ha imparato nulla su di sé e sugli altri.
L’ascolto autentico è’ un’attenzione “risvegliata” all’auto espressione di ognuno e al metabolismo di pensiero dell’intero gruppo; ed è attitudine che coinvolge tutti verso tutti, garantendo a poco a poco il rispetto, la fiducia, l’apertura al confronto, il superamento di limiti emotivi e anche intellettuali.

3-Comunico altresì la necessità di evitare la rapidità di risposta, la quale, evidentemente, è contraria alla riflessione e veicolo di superficialità e convenzionalismo. Qui si tratta dunque di distinguere fra una scuola che educhi al pensare ed una che educhi al solo “conoscere”, e al conoscere cose la cui sostanziale conoscibilità è già definita e approvata, anche nel suo punto di arrivo potenziale, dal vigente sistema educativo.
Insomma: scuola dell’apprendimento di nozioni oppure scuola dell’approccio critico alla conoscenza?

Scuola del pensiero unico, o scuola della complessità?
Scuola dell’efficienza produttiva (in cui la risposta giusta deve essere data nel minor tempo possibile), o scuola della capacità dialogica e relazionale (in cui ognuno è chiamato e motivato a concorrere con i propri talenti e il proprio contributo alla conoscenza)?

Scuola dell’ascolto o scuola del giudizio?*
Ogni azione valutativa è un’azione educativa. Deve pertanto contenere intenti educativi ed essere attentamente costruita attorno e sulla base di tali intenti. Altrimenti non è azione valutativa, ma semplice misurazione “quantitativa” allo scopo di fornire un giudizio pretesamente oggettivo sul possesso o meno di specifiche competenze.
Inoltre la valutazione, come ci hanno insegnato in anni e anni di formazione e aggiornamento, è un processo di una certa complessità, e non una sommatoria di prove
“oggettive”.
La pretesa oggettività delle prove, così come la loro “adeguatezza”, si fonda su una totale de-contestualizzazione e standardizzazione delle prove stesse, che arriva, nel caso specifico delle prove di quest’anno, a infischiarsene completamente dell’impossibilità ad eseguire le prove da parte degli alunni stranieri o con difficoltà specifiche di apprendimento.
Nel quadro complesso e variegato del processo valutativo, esiste un atteggiamento imprescindibile di “cura” nei confronti dei soggetti valutati, che porta con sé un’attenzione prioritaria alle mille sfaccettature del percorso di crescita, e non invece ai singoli apprendimenti asetticamente estrapolati dal contesto evolutivo.

*N.d.a. Non si può ascoltare se si giudica, se si è preda dell’ansia del giudicare. Il giudizio è una pesante cesura che chiude a qualsiasi possibilità di sviluppo positivo dell’esperienza di insegnamento/apprendimento. Non solo: l’ansia di dover dare un giudizio sull’alunno, spinge facilmente l’insegnante verso quella deriva dell’insegnamento che vede l’attività didattica strutturarsi ed esaurirsi in un succedersi di spiegazioni, interrogazioni e compiti in classe, acquisendo come scopo ultimo dell’insegnamento stesso, la verifica “giudicante” degli apprendimenti, (ossia la pretesa ‘valutazione oggettiva’ di singole competenze estrapolate da qualunque contesto di effettivo apprendimento).

Valutare invece è qualcosa che non interviene a interrompere il flusso potente della costruzione del pensiero: non ne ha bisogno. Valutare si può, restando dentro il flusso della continua elaborazione collettiva, perché è azione altamente e squisitamente “ascoltante”. E’ la continua “allerta” di sensori sempre più raffinati, al contributo originale di ognuno e al galoppo elaborativo del gruppo.
E’ una sempre maggiore consapevolezza da parte delle persone implicate, dei propri limiti e superamenti. E’ una crescente capacità meta-cognitiva. Ed è attenta alle divergenze di pensiero capaci di guidare il gruppo verso nuovi orizzonti conoscitivi.
La valutazione concorre necessariamente, con gli strumenti che le sono consoni (osservazione e rilevamento degli stili partecipativi e di apprendimento; osservazione e rilevamento di talenti, predisposizioni e attitudini, di capacità logiche, argomentative e meta cognitive) alla creazione della Comunità di Ricerca, irrinunciabile e indispensabile dimensione educativa per il confronto, lo scambio, la crescita.

Estrapolare gli apprendimenti allo scopo valutativo equivale a considerare l’individuo in crescita come un contenitore di eventuali “saperi” parziali neppure collegati fra loro; come una sommatoria di capacità specifiche pronte all’uso e da usare nel minor tempo possibile e con la maggiore efficienza, applicando una sola logica: quella di chi ha strutturato le prove.

Ma insomma, a che gioco stiamo giocando?
Perché noi addetti ai lavori non veniamo minimamente informati dello scopo di tale azione massiccia (che ha visto coinvolte tutte le scuole del paese)? Ci si sente dire, da anni, a mò di rassicurazione educativa, che le prove Invalsi sono anonime. Già, ma l’anonimato, se pure autentico, si ferma ai nomi dei bambini. Mentre si sanno bene quali sono le classi, le scuole e i Circoli didattici. E se ne conoscono perciò tutti i relativi operatori, che, nella fattispecie, sono gli insegnanti.
Evidentemente le prove servono a misurare una sorta di efficienza didattica delle singole scuole.
Non ci sarebbe niente di male, se questo però fosse dichiarato apertamente e, cosa più importante, se questo avvenisse in base a criteri e con modalità “condivisi” dagli operatori, cioè da coloro che la scuola la fanno (e per farla si formano costantemente sul campo e fuori) e non la guardano dall’alto.

Insomma: a quale pensiero pedagogico fanno riferimento i criteri con i quali si sono ideate le prove Invalsi? E quali criteri pedagogici fanno da sfondo alla necessità stessa di promulgare tali prove?*
Forse non si tratta affatto di criteri “pedagogici”. Ma allora, di cosa si tratta?
Si possono forse usare criteri attinenti ad altri campi allo scopo di ottenere un quadro autentico della condizione del nostro sistema educativo?
E se di valutazione del sistema educativo si tratta, non viene forse a delinearsi una situazione paradossale? Cioè un sistema valutativo che valuta se stesso ma con parametri assolutamente avulsi dalla sua stessa realtà e dai suoi stessi principi fondanti?
Oppure, per essere più precisi, un sistema educativo che viene valutato da “qualcuno”che si erge a valutatore super-partes, e perciò si arroga il diritto e il potere (oltre che il possesso di adeguate competenze) di imbastire delle prove sulla base di criteri quanto meno discutibili, oltre che non condivisi e perfino contraddittori rispetto ai contenuti di tutte le ultime Indicazioni ministeriali per il curricolo.

*N.d.a. A questa domanda non mi si può rispondere che “bisogna adeguarci agli standard europei” e pertanto dobbiamo sottoporre i nostri alunni a siffatte prove standardizzate. Perché bisognerebbe riflettere su tale bisogno di adeguamento: se il fine è solo pratico, e cioè legato alla necessaria omologazione della certificazione in vista delle possibilità lavorative, allora, in un sistema scolastico basato sulla reale motivazione degli alunni e interessato a promuoverne le capacità critiche offrendo le relative occasioni e strumenti, basterebbe attendere l’ultimo grado scolastico per verificare la necessaria avvenuta acquisizione delle suddette capacità critiche, le quali sottendono tutte le altre competenze.
Insomma io credo profondamente che ragazzi “curati” secondo il fine della Comunità di Ricerca, e coerentemente a tale fine, saprebbero affrontare con successo qualunque prova standard a questionario chiuso, alla fine del loro percorso.
Ma alla fine! Perché il senso del percorso stesso implica che durante il suo svolgimento i ragazzi siano lasciati in pace, ossia non vengano sottoposti a messaggi contraddittori, che rinnegano nella forma come nella sostanza i principi della Comunità di Ricerca.

Necessario e superfluo

Dopo il lavoro svolto sulle prove INVALSI, penso che ‘il necessario’ della nostra attività filosofica con i bambini, si fonda su un aspetto educativo che implica necessariamente, per l’appunto, un capovolgimento della normale ottica valutativa. Ossia un capovolgimento di ottica riguardo agli intenti, i quali vanno inevitabilmente a strutturarsi intorno alla cura verso il soggetto in apprendimento, e non intorno alla “formazione” del soggetto in apprendimento.
Non si tratta cioè di formare, perché il formare intende, nella parola stessa, un modellare secondo una forma già conosciuta, prevista e prefigurata,oggetto della nostra scelta di adulti-docenti, alla quale ci si ispira.
Si tratta, invece, di curare, perché il curare sottende un’attenzione conoscitiva al percorso e al processo di apprendimento soggettivo all’interno di una Comunità di Ricerca*.

Di conseguenza ‘valutare’ diventa strumento al servizio della ‘cura’ e non viceversa; voglio dire che la valutazione, in quest’ottica, non è un punto di arrivo al quale sembra tendere tutta l’attività didattica, bensì punto intermedio da cui continuamente si riparte per affinare e ottimizzare gli strumenti educativi. Ciò significa anche che la valutazione è uno strumento a carico dell’insegnante di cui l’alunno si giova, e non una sommatoria di giudizi più o meno sintetici che l’alunno si ritrova addosso, a misura del suo sapersi adeguare alle domande e ai criteri stabiliti dal sistema educativo.
Ora, il prendersi cura di un soggetto in apprendimento, è compito educativo irrinunciabile nella scuola, e, allo stesso tempo, è atteggiamento irrinunciabile all’interno di un contesto di attività filosofica. In tale ottica la valutazione è parte integrante e necessario strumento sia dell’una che dell’altra cosa. E anzi è proprio dall’attività filosofica che si può imparare meglio a valutare gli alunni, perché l’attività filosofica implica necessariamente la “rimozione” del giudizio’, condizione necessaria perché avvenga una valutazione autentica, basata, cioè, su un ascolto autentico, non inquinato da surrettizie azioni didattiche già strutturate allo scopo di estrapolarne “prove oggettive” di verifica.
Necessario è perciò tutto ciò che ruota attorno all’ascolto e al dialogo, direi tutto ciò che serve e può servire allo scopo di garantire un ascolto autentico, e quindi uno svolgimento dell’attività libero da condizionamenti e inquinamenti.
Ritengo necessario e irrinunciabile all’azione educativa nel suo complesso, un atteggiamento valutativo che consideri prioritariamente la capacità di riflessione e argomentazione all’interno di uno spazio dedicato al pensare e al dialogare, allo scopo di condividere idee, opinioni, soluzioni di problemi, modi di sentire. In sostanza ritengo necessario e irrinunciabile tendere all’obiettivo della realizzazione di una C.d.R., nella quale la valutazione è dimensione dinamica e sfaccettata, indicatore in continua evoluzione di un processo di crescita (all’interno del quale i singoli apprendimenti, decontestualizzati e irrigiditi dentro un orizzonte di senso limitato al semplice bisogno contingente del superamento delle prove, non hanno diritto di cittadinanza).
Il ‘superfluo’ è a mio avviso tutto ciò che riporta, anche se per vie traverse o indirette, all’ansia di ‘formare’ e, dunque, di verificare tale pretesa formazione, cioè, più o meno mascheratamente, al giudizio. Superfluo, nella nostra attività filosofica con i bambini, è tutto ciò che contraddice la ‘cura’ dell’individuo e del gruppo in crescita, tutto ciò che si frappone al libero svolgimento dell’attività valutativa e auto valutativa nel contesto della pratica filosofica, attraverso l’indulgere a pratiche o azioni che fanno riferimento ad una logica omologante e indirizzante.

Caserta, 29 Luglio 2010
Intervento al Convegno di “AmicaSofia: filosofare con bambini e ragazzi”

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