Le ragioni della politica

by gabriella

camilla che odiava la politicaUn vecchio barbone spiega la politica a una ragazzina che la odia in modo speciale. Camilla, infatti, non è solo una dodicenne che sente continuamente associare le parole “corruzione”, “inganno” e “disonestà” a quelle di “politica” e “politico”, è anche una ragazzina che ha perso il padre Roby, suicida per ragioni politiche.

Parlarle di cos’è davvero ciò che è caduto così in basso non è facile, ma il barbone, da tutti chiamato Aristotele, sa dove andare a prendere le parole.

Tre stralci di Camilla che odiava la politica [Milano, Rizzoli, 2008], il romanzo dedicato da Luigi Garlando alla prima adolescenza.

Perché, come, quand’è perfetto, l’uomo
è la migliore delle creature, così pure,
quando si stacca dalla legge e dalla
giustizia, è la peggiore di tutte.

Aristotele, La Politica

 

Prima parola: il capito

Aristotele si è procurato un vecchio fustino di detersivo vuoto. Lo capovolge e mi dice: «Siediti.» Mi siedo. Ormai mi sono abituata alla sua puzza.
Prende una delle tre biro nuove che gli ho portato e scrive la parola “politica” al centro di un foglio bianco.

«Dunque» ragiona grattandosi la testa con la penna blu, «il primo problema da risolvere è la parola “politica”, che non ti piace perché inizia come la parola “polipo”. Allora cambiamo l’ordine delle lettere. Guarda, Camilla, facciamo così…» Aristotele sbarra con una croce la lettera “i” e la riscrive sotto la parola “politica”, poi fa lo stesso con la lettera “l”, con la “e”, la “a”, la “p” e via via con tutte le altre.

Alla fine mi dice: «Leggi, Camilla.» Leggo: «IL CAPITO.» Aristotele riprende. «Benissimo. Ora la parola ha perso i tentacoli, non ha più nulla a che fare col polipo, ma le lettere sono le stesse e il significato pure. Anzi è ancora più chiaro. Non ti sembra?»

«Direi proprio di no» rispondo. «Cosa significa “il capito”

«La politica è il capito» spiega Aristotele. «Cioè: capire i bisogni delle persone e cercare di risolverli. Tutto qui. La gente ha sempre avuto problemi, ma non sempre ha trovato qualcuno che li aiutasse a risolverli. Pensa a tanti secoli fa, quando comandava il re o l’imperatore. I poveri contadini avevano bisogno di acqua per irrigare i campi, oppure volevano chiedere al re di non portarsi via i loro figli, perché se andavano in guerra non potevano raccogliere il grano. Ma come fare a dirglielo, se il re se ne stava chiuso nel suo bel castello? I poveracci, che puzzavano come me, non potevano mica entrarci. I re e gli imperatori stavano in alto, quasi in cielo, e la gente normale stava in basso, a terra. Nel mezzo c’era il vuoto assoluto. Ecco, la politica ha riempito quel vuoto, è la scala che ha unito il cielo alla terra.»

«Roby diceva sempre che bisogna creare ponti con le persone.»

«È proprio così: la politica è il ponte che unisce quelli che comandano a quelli che ubbidiscono. Ti faccio un esempio: quando sono nate le prime fabbriche, gli operai lavoravano anche quattordici ore al giorno, spesso in condizioni terribili. E se si ammalavano, restavano a letto senza prendere lo stipendio e dovevano pagarsi le medicine, perché non esisteva la mutua. La paga poi era misera. Allora sono nate delle associazioni che hanno preso a cuore la causa degli operai e hanno studiato le condizioni di lavoro di quei poveretti per poterle migliorare.»

«”Il capito” degli operai.»

«Proprio così. Quelle associazioni hanno capito i bisogni degli operai e si sono battute per realizzarli.»

«I proprietari delle fabbriche stavano in cielo come i re?»

«All’inizio sì, e si arricchivano grazie al lavoro degli operai trattati come schiavi. Poi le associazioni sono salite sulla scala, hanno percorso il ponte e hanno chiesto ai proprietari delle fabbriche meno ore di lavoro, uno stipendio più giusto, condizioni più sane, più diritti per i lavoratori che si ammalavano. Per convincerli sono state organizzate assemblee tra la gente, proteste, sono stati fondati giornali per diffondere le idee e alla fine le cose sono cambiate. Oggi gli operai ricevono lo stipendio anche se sono ammalati o in vacanza. La politica ha fatto il suo dovere. Molte di quelle persone che hanno aiutato gli operai facevano parte del partito di tuo papà. Un altro esempio, Camilla. Pensa se il tuo professore avesse detto in classe “Votiamo per decidere come sistemare i banchi in classe, ma votano solo i ragazzi, perché la ragazze non contano”. Come ti saresti comportata?»

«Io non lo so» rispondo sghignazzando. «Ma di sicuro la Giusy avrebbe preso la cattedra del prof e l’avrebbe trascinata in corridoio…»

«Pensa, Camilla, che un tempo le donne davvero non avevano il diritto di voto. Il mondo era soltanto un affare di uomini. Anche in questo caso, la politica si è messa in ascolto e ha realizzato “il capito”. Dopo proteste, manifestazioni, articoli sui giornali, lotte, dibattiti, anche le donne hanno ottenuto il diritto di esprimere il loro pensiero attraverso il voto. Capisci adesso perché ti dicevo che ti sei dimostrata una buona politica in classe?»

«Forse sì» rispondo. «Perché ho realizzato “il capito” dei miei compagni: volevano cambiare la disposizione dei banchi e hanno scelto la mia idea perché mi sono preoccupata delle loro schiene.»

«Non solo» aggiunge Aristotele. «Prima era il professore a decidere. Stavolta, grazie alla tua proposta, avete deciso voi, attraverso il voto. Il prof stava in cielo, voi in terra: tu hai riempito il vuoto che stava in mezzo. Questo è il bello della politica: che tutti partecipano, tutti comandano. La politica non è un gioco solitario con le carte, ma uno sport di squadra, come la pallavolo.»

«E i partiti?» domando.

«Non correre, Camilla. Per oggi basta così. Hai già imparato molto. Anzi, hai già imparato la cosa più importante.» Aristotele solleva il foglio di carta dallo scatolone che fa da tavolino e consegnandomelo ripete: «La politica è il capito.» Prendo il foglio, lo piego in quattro e me lo infilo in tasca. Accarezzo Omero, che si è accucciato col muso sulle mie scarpe.

«E se la politica è capire i bisogni degli altri, la qualità migliore di un politico sarà sempre l’ascolto» aggiunge Aristotele. «Un sindaco non deve restare chiuso in municipio e augurare all’altoparlante la giornata perfetta, ma scendere in strada, attraversare il mercato e parlare con la gente in piazza, per capire cosa può fare per rendere quella giornata un po’ migliore. Capisci, Camilla?»

«Credo di sì» rispondo. «Quando Roby era molto importante e andava sempre nella Capitale, la mamma voleva togliere il nostro numero dalla guida telefonica, perché chiamavano anche di notte per chiedere favori a papà. Roby non ha mai voluto toglierlo. Diceva che ascoltare la gente era il suo mestiere.» Garibaldi e Wanda miagolano.

«Li senti?» mi chiede Aristotele, afferrando la ciotola da riempire. «Hanno fame. Sono sicuro che tuo papà se ne sarebbe accorto.» Sorrido. Sono sicura anch’io.

 

Seconda parola: polis

Allora, dov’eravamo rimasti? Fammi il riassunto della lezione scorsa.» Ci penso un attimo, mi siedo sul fustino di detersivo e attacco: «La politica è “il capito”, cioè capire i bisogni delle persone e impegnarsi per soddisfarli. La politica riempie il vuoto che separa chi comanda da chi obbedisce. I politici mettono in circolazione tante idee e, se lavorano bene, cambiano le cose in meglio. Nelle fabbriche, nei parchi, in città. Dappertutto. La politica, poi, permette a tutti di esprimere il proprio pensiero.»

«Bravissima, Camilla» applaude Aristotele, e strizza l’unico occhio sano a Marisol, come per dirle: hai visto com’è brava la mia allieva?

Marisol mi sorride, io ricambio, un po’ orgogliosa del complimento, inutile nasconderlo.

«Riprendiamo proprio da lì» dice Aristotele. «La politica permette a tutti di esprimere il proprio pensiero. È successo anche nella tua classe, quando avete scelto la disposizione dei banchi: ognuno ha alzato la mano e ha indicato la sua preferenza. Accadeva più o meno la stessa cosa nelle antiche città greche, tanti secoli fa. Quando bisognava prendere delle decisioni importanti, i cittadini si riunivano nella piazza principale ed esprimevano il loro parere. In base alla maggioranza, i governanti decidevano cosa fare.» Aristotele tira fuori le braccia da sotto il cartone, pesca un foglio bianco dal sacchetto azzurro e scrive in grande: POLIS.

Per colpa della febbre che lo fa tremare, le lettere sono venute fuori tutte ondulate, come una corda che vibra.

Aristotele mi mostra il foglio e mi ordina: «Leggi, Camilla.»

«Polis» dico io.

Aristotele posa il foglio e rimette le braccia sotto i cartoni.

Riprende: «La polis era l’antica città greca. Co me vedi, la parola “politica” non deriva da “polipo”, ma da “città”. La politica è una città dove rutti prendono parte alle decisioni e dove si realizza la volontà della maggioranza. Questo modo di comportarsi si chiama “democrazia”, che è un’altra parola greca. “Democrazia” significa, appunto, “governo del popolo”. Ricordi il re che stava chiuso nel suo castello, col ponte levatoio sollevato, e faceva quello che voleva? La politica ha abbassato il ponte levatoio, ha fatto entrare nel castello i contadini, i pastori, i commercianti e ora tutti insieme, con i loro consigli e le loro richieste, partecipano al governo del regno. Questa è la democrazia.» Qualcosa non mi torna. Spiego: «Forse le città greche erano piccole come Paludate, ma nella nostra Città, per esempio, sarebbe impossibile una democrazia del genere. Non esiste una piazza così grande da farci entrare tutti i cittadini. E tantomeno ne esiste una per farci entrare tutti gli abitanti della Nazione…»

«La soluzione è semplice» risponde Aristotele. «Invece di andare tutti in piazza a votare per alzata di mano, ci vanno solo alcune persone che rappresentano rutti gli altri.»

«Cosa vuoi dire, rappresentano?»

«Pensa ancora alla tua classe e alla discussione sui banchi. Invece della votazione, il professore avrebbe potuto proporvi: scegliete le soluzioni che preferite e venite a spiegarmele in sala professori, poi io deciderò. La sala professori è piccola, non può contenere certo ventidue studenti. Allora cosa si fa? A discutere col professore ci andate solo in tre: tu, che rappresenti quelli che vogliono i banchi a ferro di cavallo; Pamela, che rappresenta i compagni che vogliono i banchi a isola; Giampi, che rappresenta la parte di classe che vuole le file tradizionali di banchi. Nell’ufficio del professore siete solo in tre, ma in realtà è come se fosse presente la classe al gran completo, perché il pensiero di tutti è “rappresentato” da voi. Ecco, quando una comunità di persone è molto numerosa, la politica si esercita così, per rappresentanza: noi scegliamo le persone che riteniamo più brave a sostenere le nostre idee e a fare le leggi più giuste. L’hai mai visto in televisione com’è fatto il Parlamento?»

«Ci sono anche stata, una volta, nella Capitale quando ero piccola!» esclamo. «Mi sono seduta su una specie di balconcino e ho seguito la discussione dei politici che stavano di sotto. Non ci ho capito niente, ma è stato divertente lo stesso. I politici stavano dentro certi banchi di legno molto belli, che avevano la forma di un teatro antico, di quelli a semicerchio, che vanno in discesa. A un certo punto Roby si è alzato con dei fogli in mano. Prima di cominciare a parlare, si è voltato a guardarmi e io l’ho salutato con il braccio. Quando ha finito di parlare, metà del teatro applaudiva, metà fischiava, molti urlavano. Come allo stadio. E il poveretto che era seduto in cattedra, davanti ai banchi di legno, cercava di riportare il silenzio suonando un campanello. Sembrava una classe scatenata di vecchi ripetenti col povero prof che non riusciva a controllarli… Da morir dal ridere.»

«Quel teatro di legno, Camilla, il Parlamento, è la piazza della Nazione: lì si prendono le decisioni e si fanno le leggi che regolano la nostra vita. In quella piazza non possono entrare sessanta milioni di persone, ma è come se ci fossero, perché i politici che sono in Parlamento li abbiamo scelti noi, per rappresentare e difendere le nostre idee. Capisci?»

«Sì» rispondo. «Ma non capisco come fanno a prendere le decisioni, se litigano sempre…»

«A volte esagerano, ma il confronto è molto utile» spiega ancora Aristotele. «L’hai visto anche tu in classe per la questione dei banchi: non tutti hanno la stessa soluzione per lo stesso problema. Solo discutendo e confrontandosi si possono capire i la ti positivi e i lati negativi di ogni posizione. La democrazia è anche questa: il diritto di parlare e il dovere di ascoltare. La democrazia, cara Camilla, è sempre una moneta a due facce: dove c’è un diritto, c’è sempre un dovere. Ricordalo. Tu hai diritto ad ascoltare la musica, ma anche il dovere di non spaccare i timpani del tuo vicino di casa mettendola a tutto volume…» A questo punto credo di aver capito che cosa sono i partiti. Chiedo conferma: «I partiti quindi sono gruppi di politici che hanno le stesse idee e che propongono le stesse soluzioni per risolvere i vari problemi. Giusto?»

«Giusto» risponde Aristotele. «Ogni partito propone un programma, cioè le cose che intende fare e la gente, quando va a votare, sceglie a chi affidare la guida della città, della regione o del Paese. Facciamo ancora l’esempio della tua classe. Tu presenti il tuo programma e spieghi: “Quest’anno io intendo disporre i banchi a ferro di cavallo, cercherò di convincere il preside a metterci a disposizione una sala computer, vi chiederò di raccogliere ogni sabato una piccola offerta per i poveri del quartiere e, per la gita di primavera, propongo una città d’arte, che è piena di musei e belle cose da vedere”. Il programma di Giampi invece prevede: banchi a file verticali, poster dei calciatori appesi alle pareti della classe, raccolta di soldi al sabato per comprare scherzi da fare ai professori, gita di primavera al luna-park per andare sulle giostre…» Ridacchio. Mi sembra proprio il suo programma ideale…

«La classe voterà il programma che preferisce» continua Aristotele «e, se sceglierà il tuo, dovrai impegnarti a realizzarlo. Fra un anno si voterà ancora e, se tu avrai mantenuto le promesse, molto probabilmente i tuoi compagni ti voteranno ancora. Se invece i computer non saranno arrivati e avrai speso i soldi del sabato per comprarti gelati, la classe sceglierà un altro rappresentante. In democrazia è una buona cosa che a governare non siano sempre le stesse persone.»

«Ma se uno si occupa sempre di politica, non può più fare un altro mestiere, giusto?» domando.

«Certo, quello diventa il suo lavoro principale. Come tuo papà che ha rinunciato all’idea di costruire ponti tra le montagne e ha cominciato a costruirli tra gli uomini. È un lavoro importante come gli altri.»

«E si guadagna uno stipendio come i lavoratori normali?»

«Certo. Pensa ancora alla tua classe. C’è un problema importante da discutere col professore e i tuoi compagni scelgono te per andarci a parlare. Tu al pomeriggio vai a scuola e discuti il problema della classe. Ma così non puoi fare i compiti di matematica. Allora i tuoi compagni si mettono d’accordo e fanno gli esercizi al posto tuo e poi te li spiegano. È giusto, perché tu hai impiegato del tempo e delle energie per un problema che interessa tutta la classe. Allo stesso modo, tutti i cittadini danno un po’ dei loro soldi per permettere ai politici di rappresentare le loro idee. Solo così i partiti possono svolgere la loro attività. Per esempio, se tu hai dei soldi da spendere per comprare dei poster della città d’arte da mostrare in classe quando presenti il tuo programma, sarà più facile convincerli. I tuoi compagni vedranno come sono belli i palazzi, le chiese, i musei e verrà loro voglia di andare lì per la gita di primavera. Capisci? Ora ti scrivo una frase che ci servirà per la prossima lezione.» Aristotele riprende il foglio su cui aveva scritto POLIS e disegna con la biro altre parole tremolanti. Questa volta si tratta di una frase intera.

La leggo: «I SOLDI SERVONO PER FARE POLITICA.» Alla parola soldi, mi torna in mente la valigetta di quel giorno terribile che spezzò in due la mia mela e domando: «II partito di Roby non ha mantenuto le promesse? Perché il professor Sassi, il Primo Ministro, che vedevo sempre in tivù festeggiato dalla gente, di colpo ha dovuto scappare e gli tiravano le monete dalle finestre? Perché il partito che ha aiutato gli operai tanto tempo fa è diventato così odiato dalla gente? Perché i giornali hanno scritto che Roby era un ladro?» Eccoci al punto. Devo farmi forza. È arrivato il momento di guardare il polipo negli occhi. Coraggio, Camilla…

Ma Aristotele non mi risponde. Con molta cura piega in quattro il foglio con su scritto POLIS e la frase tremolante.

Poi mi dice: «Capirai tutto con la prossima parola, l’ultima. Per oggi basta così. Anche perché sono molto stanco. Conserva anche il secondo foglio e rifletti su tutto quello che abbiamo detto. Non avvicinarti, se no ti attacco l’influenza… Te lo porta Marisol.» Marisol prende il foglio dalle mani di Aristotele e me lo consegna con uno dei suoi bellissimi sorrisi, aggiungendo: «Ora ti insegno qualche cosa anch’io.» A sorpresa, da una borsa blu posata a terra estrae un pallone da pallavolo tutto spelacchiato.

Sorride ancora: «Non è tanto bello, ma ci sono affezionata. Ci giocavo quand’ero bambina. Lo porto sempre con me come portafortuna.»

«Tu giocavi a pallavolo?» chiedo, sorpresa.

Non lo avrei mai immaginato, a giudicare dagli stivali e tutto il resto.

«Ero un’alzatrice anch’io» risponde Marisol. «Brava come te. Ma tu puoi migliorare. L’altra sera ho visto due piccoli difetti. Primo: non devi colpire la palla quando ti arriva davanti agli occhi, ma prima, quando è ancora sopra la tua testa, così hai la visuale libera e puoi seguire meglio le compagne da servire. Guarda. Così…» Marisol si mette a palleggiare contro il muro di mattoncini rossi che sta dietro la pensilina.

Rimango a bocca aperta: quasi non si sente il rumore della palla che tocca le sue dita. Un palleggio dolcissimo, come neanche Silvia, la nostra allenatrice, riesce a fare. È davvero bravissima.

«E poi, osserva i miei pollici» mi dice Marisol mentre palleggia. «Io non li uso, perché con le altre dita è più facile indirizzare la palla. Quando avevo la tua età, invece, li usavo troppo. Come te, Camilla. Sai cosa faceva il mio allenatore? Mi schiacciava il pollice contro l’indice e lo fissava lì con un cerotto. Stessa cosa con l’altra mano. Prova anche tu. Vedrai che se usi solo le quattro dita il tuo palleggio diventerà più preciso. Esercitati contro un muro. Il muro è il miglior allenatore del mondo.» Un’auto verde si è fermata davanti alla pensilina. Il signore grasso e anziano che la guida ha suonato il clacson.

Marisol rimette il pallone spelacchiato nella borsa blu e si avvicina all’auto. Parlotta col signore al finestrino, poi si volta, ci saluta con la mano, gira attorno all’auto, sale e va via col signore grasso e vecchio.

«Marisol era il capitano della Nazionale giovanile di Cuba» mi racconta Aristotele. «L’hanno chiamata in Italia per giocare in serie A, poi si è rotta il ginocchio e tutto è andato a rotoli…»

«Quel pallone spelacchiato non le ha portato tanta fortuna» commento.

«No. Ma è una ragazza così buona che ne meriterebbe una montagna. Un giorno si fermerà una macchina diversa dalle altre. Scenderà un ragazzo alto e bello, come un principe, aprirà la portiera e le chiederà gentilmente di salire. Poi la porterà fino a Cuba, volando sul mare. Una notte, nella piazza del cimitero, ho fatto un sogno del genere. Se lo meriterebbe davvero.»

«Baciare gli sconosciuti è il mestiere più triste del mondo» dico io.

«A volte il lavoro uno non può sceglierselo» dice Aristotele.

«Perché la politica non ascolta il capito di ragazze come Marisol?»

«Non lo so, Camilla. Questo non lo so.» Aristotele si gira su un fianco, sotto i cartoni, come per prendere sonno. Capisco che è molto stanco.

E lo lascio in pace.

 

Terza parola: Ministrum

Accomodati, Camilla, questo è il tuo seggio parlamentare…» dice Aristotele, invitandomi con un inchino elegante.

Sorride anche Marisol.

Il vecchio è tornano in gran forma, ma, per precauzione, continua a dormire nel capannone di nonno Anselmo, così il mio sgabello è cambiato: non è più un fustino di detersivo, ma uno scatolone di caramelle al minestrone pronto per essere spedito in Canada.

Aristotele, seduto sul letto, s’infila gli occhialini rotondi sulla benda e comincia: «Siamo arrivati alla terza parola, la più importante. Hai portato i fogli delle lezioni precedenti?» Glieli mostro.

«Bene» commenta. «Fammi un veloce riassunto delle cose che ci siamo detti finora, poi proseguiamo.» Attacco: «La politica è il capito, cioè capire i bisogni delle persone e impegnarsi per soddisfarli. La politica riempie il vuoto che separa chi comanda da chi obbedisce. In una democrazia tutti devono partecipare al governo della città o dello Stato. Quando non è possibile partecipare direttamente, come nelle antiche città greche, dove i cittadini si ritrovavano tutti in piazza e votavano per alzata di mano, si partecipa attraverso i nostri rappresentanti.»

«Perfetto» approva Aristotele.

Vado avanti: «Noi, attraverso le elezioni, scegliamo le persone che riteniamo più adatte a difendere le nostre idee, a soddisfare i nostri desideri e a creare le leggi che riteniamo più giuste. Queste persone si occupano di politica per mestiere e si chiamano, appunto, politici. A seconda delle loro idee e delle soluzioni per risolvere i vari problemi, i politici si dividono in gruppi diversi, che si chiamano partiti. Se in un Paese c’è un partito solo, non esiste la democrazia, perché non sono rappresentate le idee di tutti. I partiti che ricevono più voti, cioè più fiducia dalla gente, hanno il compito di governare, di fare le leggi e di provare a risolvere i problemi a modo loro.»

«Cosa mi dici dei soldi?» chiede Aristotele.

«Ah, sì… Rappresentare le nostre idee è il mestiere dei politici che perciò ricevono uno stipendio pagato dai cittadini. È giusto, perché i politici si impegnano per far funzionare bene la città o la nazione, che appartengono a tutti.»

«Molto bene, Camilla. Ora leggi la terza parola. È una parola latina.» Aristotele prende un foglio bianco e una delle tre biro che gli ho regalato. Come al solito, scrive grandi lettere in stampatello.

Leggo: «MINISTRUM.»

«Non significa “ministro“» mi spiega il vecchio. «Ai tempi degli antichi romani, questa parola aveva un significato molto più comune. Prova a indovinare.» Ci penso un po’. Mi vengono subito in mente i ministri che si vedono al telegiornale, cioè i politici dei partiti che hanno vinto le elezioni, quelli che comandano la nazione. Sono sempre eleganti, viaggiano su auto di lusso e d’estate si fanno fotografare su certe barche che non finiscono più.

Perciò provo a dire: «Potente.» ; «No» risponde Aristotele.

«Importante?»

«No.»

«Ricco?»

«NO.»

«Famoso?»

«No.»

«Mi arrendo.» Aristotele afferra il foglio, lo solleva sopra la testa, come per farlo leggere a una persona lontana, e annuncia: «Ministrum significa “servo”.»

«Servo?» ripeto, sorpresa.

«Sì, Camilla, e se ripensi a tutto quello che ti ho detto, non c’è niente di strano. Il politico prima di tutto dev’essere un servitore. È al servizio della gente che ha bisogno e che lo ha eletto per risolvere i suoi problemi. Come hanno fatto tanti sindaci che hanno guidato la Città in passato, persone oneste, in gamba. A fine Ottocento c’era Gaetano, lo chiamavano il sindaco della michetta, perché aveva tolto la tassa sul pane per aiutare i più poveri che non potevano comprarlo. Il sindaco Virgilio, un secolo dopo, ha costruito l’ospizio per i vecchi e ci è morto dentro, come un poveretto qualsiasi. Poi venne Pietro, che era un medico famoso: arrivava in Comune in tram e non volle la segretaria personale, perché diceva che bisognava risparmiare e usare i soldi per le spese utili. Questi signori erano veramente servi della loro gente! Questa è la politica bella, Camilla! Cosa fa invece il tuo sindaco?»

Rispondo di getto: «Si fa portare a spasso su una Mercedes di lusso che ha fatto comprare con i sol di del Comune, mentre i bambini vanno a scuola sullo scuolabus scassato; si è costruito una piscina per la sua villa, dove non si poteva; lascia sempre l’auto in divieto di sosta, perché tanto i suoi vigili non gli danno mai la multa; e il nonno dice che si è inventato anche una legge per aumentarsi lo stipendio da sindaco.» Aristotele volta il foglio, che tiene ancora sollevato sopra la sua testa. Ora la parola MINISTRUM si legge al contrario.

«Tu mi chiedevi perché tanta gente parla male dei politici. Per questo, Camilla: perché la parola MINISTRUM è stata capovolta e i politici oggi non sembrano più dei servi, ma dei padroni. Approfittano del potere che hanno per diventare come dicevi tu: potenti, ricchi, famosi…»

«È accaduto questo al partito di mio papà?» domando.

«Purtroppo sì, Camilla.»

«Ma Roby ha costruito le Case Rosse per i poveri, andava in Comune in bicicletta, si è battuto per difendere il parco naturale che appartiene a tutti, non per farsi la piscina. È stato un buon servo!»

«Ne sono convinto anch’io, Camilla. E ce n’erano altri come lui, ma si sono ritrovati in una cassa di mele marce. Nel suo partito tutti volevano diventare padroni. Prendi il foglio della lezione scorsa e rileggi la frase che abbiamo scritto sotto la parola POLIS.» Apro il foglio bianco che avevo piegato in quattro e leggo: «I SOLDI SERVONO PER FARE POLITICA.»

«Hanno capovolto anche questa frase» spiega Aristotele.«Ora LA POLITICA SERVE PER FARE SOLDI. Pensa al guardiano del canile. Ci ha detto: “Io ho il potere di liberare il Capitano. Se mi pagate, lo lascio libero.” Ha sfruttato la sua carica per guadagnare dei soldi. Il partito di Roby, che aveva vinto le elezioni, occupava posti molti importanti e tanti politici si comportavano come il guardiano del canile. Vuoi un lavoro? Vuoi il permesso per costruire una casa? Dammi tanti soldi e io ti accontento. Capisci, Camilla?»

«Credo di sì» rispondo. «È come se il nostro prof usasse il suo potere per costringerci a lavargli la macchina in cortile.»

«È andata proprio così, Camilla. Hanno usato male il voto ricevuto dagli elettori. Invece di servire, si sono arricchiti. Si sono trasformati in servitori di se stessi. Quando tutto è venuto a galla e i giudici hanno cominciato ad arrestare i politici corrotti, la gente si è arrabbiata, si è sentita tradita, ha tirato le monetine ai ministri. Anche oggi c’è poca fiducia nella politica, perché tante volte la politica sembra davvero come la pensavi tu: un polipo che bada solo a riempirsi la pancia e con i suoi tentacoli arraffa dappertutto. I politici, invece di usare il tram come il sindaco Pietro, usano gli aerei pagati dai cittadini per andare in vacanza; non fanno le leggi più utili alla gente, ma quelle che servono per mettersi a posto la villa al mare e per aumentarsi lo stipendio. Ma rifletti bene, Camilla: la colpa è della politica? O degli uomini che sbagliano? È a questa domanda che devi rispondere prima di decidere se odiare o no il lavoro che faceva tuo papà.» Aristotele piega in quattro in foglio con scritto MINISTRUM, si alza e me lo consegna, sorridendo: «Tieni. In questo momento stringi in pugno il cuore della politica, perché la politica vera, quella buona, è tutta in tre parole: ascoltare, partecipare, servire. IL CAPITO, POLIS, MINISTRUM. Le mie lezioni sono finite, Camilla. Hai qualche domanda da farmi?»

«Una» rispondo. «Perché porti la benda all’occhio anche se non sei cieco?» Marisol, incuriosita, si avvicina per ascoltare la risposta. Forse non si è mai accorta che la benda passa da un occhio all’altro.

Aristotele va ad accarezzare il cane lupo e risponde: «Per rispetto e ammirazione del mio Omero. Ha speso la vita per aiutare le persone non vedenti e, ora che è cieco, aiuta me. Lui sì che è un vero ministrum. Se la meriterebbe lui la fortuna di guardare il mondo a colori. Io cosa ho fatto di buono per avere due occhi sani? E così, in suo omaggio, ho deciso di chiudermene uno al giorno con la benda… Non sempre lo stesso, però. Le cose vanno viste una volta con l’occhio destro, una volta con l’occhio sinistro. È un buon allenamento per la democrazia. I politici dovrebbero sempre andare in giro bendati come pirati…» Marisol sorride: «Vecchio, tu ci ubriachi con tutte le tue belle parole. Il politico, dovevi fare, non il barbone…» Ridiamo tutti e tre.

Marisol ha un gonnellino rosso e delle calze a rete nere che solo a guardarle mi vengono i brividi di freddo.

Mi alzo dal mio seggio parlamentare, saluto gli animali, Aristotele, Marisol e m’incammino verso casa.

Gocciola una pioggerellina gelata, che sembra neve.

Non ho bisogno di pensarci a lungo. Ho già deciso: il polipo non esiste. Non odierò la politica. Non è giusto. Ciò che è successo a Roby non è colpa della politica. Così come non è colpa del pallone se mi ha fatto male in palestra. È colpa di quell’idiota dell’Eco che me lo ha scagliato in faccia.

Le cose non hanno mai colpe o meriti. Ce le hanno gli uomini, se le usano male o bene. Questo credo di avere imparato sul fustino di detersivo e sullo scatolone delle caramelle.

E poi ho imparato che la politica, in fondo, è un’azione a tre tocchi, come la pallavolo: ascoltare, partecipare, servire.

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