Lev Tolstoj, Sull’istruzione popolare

by gabriella

Sappiamo che la nostra convinzione fondamentale,
cioè che l’unico metodo educativo sia l’esperienza
e l’unico criterio per educare sia la libertà,
suonerà per alcuni come un trito luogo comune,
per altri una oscura astrattezza,
per altri ancora un sogno irrealizzabile.

Lev Tolstoj

L'”istruzione popolare”[1] ha rappresentato sempre e dovunque e continua a rappresentare un fatto per me incomprensibile. Il popolo vuole l’istruzione e ogni singolo individuo inconsciamente aspira ad essa. La classe di persone più istruita — della società, del governo — fa il possibile per trasmettere le proprie cognizioni ed istruire la classe del popolo meno colta.

Sembrava che tale coincidenza di esigenze avrebbe dovuto soddisfare sia la classe educatrice che la classe da educare. Ne deriva invece il contrario. Il popolo contrasta in continuazione gli sforzi che la società o il governo, come rappresentanti della classe istruita, compiono per la sua istruzione e questi sforzi rimangono per la maggior parte inefficaci. Senza parlare delle scuole dell’antichità dell’India, dell’Egitto, della Grecia e persino di Roma, la cui struttura ci è poco nota, come pure il punto di vista popolare su questi istituti, questo fatto stupisce noi, nelle scuole europee, dai tempi di Lutero ai nostri giorni.La Germania, fondatrice della istituzione scolastica, dopo quasi duecento anni di lotta non è ancora riuscita a vincere le resistenze del popolo alla scuola. Nonostante siano nominati maestri soldati invalidi per meriti acquisiti in battaglia, nonostante la severità della legge in vigore da duecento anni, nonostante la creazione di insegnanti del tipo più nuovo nei seminari, nonostante l’elevato senso di sottomissione alla legge dei tedeschi, la coercizione della scuola ancora oggi pesa sul popolo con tutta la sua forza ed i governi tedeschi non si decidono ad eliminare la legge dell’obbligo scolastico. La Germania può vantarsi dell’istruzione del suo popolo solo sulla base di dati statistici, ma la maggior parte della gente, come prima, riporta dalla scuola solo un’avversione verso di essa.La Francia, nonostante il passaggio dell’istruzione dalle mani del Re a quelle del Direttorio, e da queste a quelle del clero, ebbe altrettanto scarso successo nel campo dell’istruzione delle masse: come la Germania e ancora meno, affermano gli storici dell’istruzione, sulla base dei dati ufficiali. In Francia gli uomini di governo seri propongono ancora adesso come unico mezzo per vincere l’opposizione delle masse l’introduzione di una legge di istruzione obbligatoria.

Nella libera Inghilterra, dove non è stato e non è tuttora possibile concepire l’introduzione di una tale legge[2] — e di ciò tuttavia molti si lamentano —, non il governo, ma la società ha lottato e lotta con tutti i mezzi possibili contro la resistenza opposta dal popolo alle scuole, resistenza che si manifesta più fortemente che altrove. Le scuole vengono qui introdotte in parte dal governo, in parte da società private. L’enorme diffusione ed attività di queste società educative religioso-filantropiche in Inghilterra dimostra meglio di ogni altra cosa la forza di opposizione che incontra la classe educatrice. Persino un nuovo stato, gli Stati Settentrionali d’America, non ha risolto questa difficoltà e si è limitato a rendere l’istruzione semi-obbligatoria.

E che dire della nostra società, dove il popolo è ancora per la maggior parte esasperato dal pensiero della scuola, dove le persone più istruite vagheggiano l’introduzione della legge tedesca dell’educazione obbligatoria e dove tutte le scuole, persino quelle del ceto più alto, esistono solo in funzione dell’allettamento della posizione e dei vantaggi che ne derivano.

Finora, dovunque si costringono i bambini ad andare a scuola quasi con la forza ed i genitori — a causa della severità della legge o della sua astuzia che consiste nel promettere dei vantaggi —, vengono obbligati a mandare i propri bambini a scuola, per cui il popolo dappertutto impara, e considera l’istruzione un bene.

Come mai questo? L’esigenza di istruzione è insita in ogni uomo, il popolo ama e cerca l’istruzione, come ama e cerca l’aria per respirare.

Il governo e la società anelano a istruire il popolo e, nonostante il ricorso a violenza, astuzia e tenacia da parte dei governi e della società, il popolo continua sempre a manifestare il suo scontento verso l’istruzione che gli viene offerta e, per successivi stadi, arriva ad  arrendersi solo alla forza.

Al pari di ogni conflitto, così anche in questa situazione bisognava risolvere il dilemma: che cosa è più legittimo, la reazione di resistenza o l’azione stessa; bisogna combattere la resistenza o mutare l’azione?

Finora, come è stato possibile dedurre dalla storia, il problema è stato risolto a vantaggio del governo e della classe sociale che si occupa dell’istruzione. La reazione è stata definita illegittima e si è visto in essa il principio del male, insito nell’umanità, per cui, senza allontanarsi dalla propria linea d’azione, cioè senza recedere da quella forma e da quel contenuto di istruzione che già erano stati acquisiti, la società adopera forza ed astuzia per annientare la resistenza opposta dalle masse.

Gradualmente e contro voglia il popolo si è finora sottomessa questa azione. È lecito supporre che la classe sociale che si occupa del problema educativo abbia qualche fondamento per ritenere che l’educazione da essa posseduta in una determinata forma rappresenti un beneficio per un particolare popolo, inserito in un determinato contesto storico.

Quali sono queste ragioni? Quali ragioni possiede la scuola del nostro tempo per insegnare questo e non quello, per insegnare in un modo piuttosto che in un altro? Nel corso dei secoli l’umanità si è sempre sforzata di dare in maniera più o meno soddisfacente una risposta a questi problemi, ed attualmente una risposta si rivela più che mai necessaria.

Si può obbligare un Mandarino cinese, che non si sia mai allontanato da Pechino, ad imparare a memoria i detti di Confucio e ad inculcarli a sua volta a bastonate nelle menti dei fanciulli. Era possibile fare questo anche nel Medioevo, ma come si può chiedere al nostro tempo quella perentoria fede nella indiscutibilità del proprio sapere, che possa darci il diritto di formare il popolo con la costrizione?

Prendiamo una qualsiasi scuola medioevale, anteriore o posteriore a Lutero, prendiamo in considerazione tutta la letteratura scientifica del Medioevo: come è forte la fede e la sicurezza incrollabile di riconoscere il vero dal falso manifestata da questi uomini! Per loro era facile essere convinti che la lingua greca era l’unica condizione indispensabile per l’istruzione, in quanto in questa lingua si era espresso Aristotile; e per ancora molti secoli nessuno si sarebbe posto dei dubbi sulla verità delle sue asserzioni. Come era possibile non esigere dai monaci lo studio della Sacra Scrittura, che si basa su così saldi principi? Era giusto per Lutero esigere perentoriamente lo studio della lingua ebraica, in quanto sapeva con certezza che in questa lingua lo stesso Dio aveva rivelato la verità alle genti. È comprensibile che, quando il senso critico dell’umanità non si era ancora svegliato, la scuola dovesse essere ancora dogmatica, che fosse naturale per gli allievi imparare a memoria le verità ricevute da Dio e da Aristotile, e le bellezze poetiche di Virgilio e di Cicerone.

Per molti secoli a venire nessuno poté immaginare né una verità più vera, né una bellezza più bella. Ma qual è la situazione della scuola del nostro tempo, che si basa ancora sugli stessi principi dogmatici, e tuttavia da un lato vi vengono insegnate a memoria le verità sull’immortalità dell’anima, mentre dall’altro ci si sforza di far capire all’allievo che i nervi, comuni all’uomo ed alla rana, sono in effetti ciò che in precedenza veniva chiamata anima? Qui, dopo la storia di Giosuè, che gli viene raccontata senza spiegazioni, egli viene a sapere che il sole non ha mai ruotato intorno alla terra; dopo la spiegazione delle bellezze di Virgilio, egli scopre di gran lunga superiori le bellezze di Alessandro Dumas, vendutegli per cinque centesimi. L’unica fede dell’insegnante consiste nel fatto che non c’è nulla di vero, che tutto ciò che esiste è razionale, che il progresso è il bene e l’arretratezza il male; ma, neanche a scuola, nessuno sa su che cosa si basi questa universale fede nel progresso.

Ma ecco, mettiamo a confronto la scuola dogmatica del Medioevo, quando le verità erano indubitabili, e la nostra scuola, nella quale nessuno sa che cosa sia la verità, e si costringe ciononostante l’allievo ad andarvi con la forza ed i genitori a mandarvi i figli.

Era inoltre facile per la scuola medioevale sapere cosa insegnare, decidere sulla priorità di quel che si insegnava, e su come farlo, quando il metodo era solamente uno e tutta la scienza era concentrata nella Bibbia, nei libri di Agostino e di Aristotele. Ma come sceglieremo noi un metodo nell’infinita varietà di metodi d’insegnamento che ci vengono proposti da tutte le parti, in questo così elevato numero di scienze con le rispettive suddivisioni createsi nel nostro tempo; come potremo allora scegliere fra tutti i metodi disponibili, decidere per una determinata branca delle scienze e seguire — cosa più difficile di tutte — una logica successione nell’insegnamento di queste scienze che sia razionale e giusta?

Ma non è tutto. La ricerca di questi fondamenti si presenta, al nostro tempo più difficile che all’epoca della scuola medioevale, anche perché a quei tempi l’istruzione era limitata ad una determinata classe sociale, la quale preparava a vivere solo in ben definite condizioni. Attualmente, invece, dopo che tutto il popolo ha proclamato il proprio diritto all’istruzione, il sapere che cosa è necessario per tutte queste classi eterogenee risulta molto più difficile e molto più necessario.

Quali sono questi fondamenti? Chiedete a qualsiasi educatore il motivo per cui egli insegna in tal modo, e una cosa piuttosto che un’altra, e proprio in quel dato ordine. Anche se egli vi capisse, vi risponderà che è perché egli conosce le verità rivelate da Dio e considera suo obbligo trasmetterle alla nuova generazione, educarla a quei principi che sono indubbiamente veri; egli non vi darà però alcuna risposta sugli argomenti d’istruzione non religiosa. Un altro insegnante vi spiegherà i fondamenti del suo metodo rifacendosi alle leggi eterne della ragione, esposte da Fichte, Kant ed Hegel. Un terzo giustificherà il suo diritto di costringere l’allievo col fatto che è sempre stato così, che lo studio è sempre stato obbligatorio e che, nonostante ciò, i suoi risultati portano ad un’istruzione autentica. Un quarto infine, riunendo insieme tutti i principi enunciati, affermerà che la scuola non può che essere com’è, in quanto la sua evoluzione è stata influenzata da religione, filosofia ed esperienza, e che ciò che è storico è ragionevole.

Queste argomentazioni che comprendono in sé tutte le possibili altre, mi sembra possano essere suddivise in quattro; classi: religiose, filosofiche, sperimentali e storiche. L’istruzione che aveva come fondamento la religione, cioè la Rivelazione divina, della cui legittimità e verità nessuno poteva dubitare, doveva essere inevitabilmente inculcata nel popolo, per cui il ricorso alla violenza era legittimo, anche se limitato a questo caso. Tuttora il comportamento dei missionari in Africa e in Cina è questo. Lo stesso avviene nelle scuole di tutto il mondo per quanto concerne l’insegnamento della religione: sia essa cattolica, protestante, ebraica, maomettana ecc.

Ai nostri tempi, però, in cui l’istruzione religiosa rappresenta solo un aspetto limitato dell’educazione, rimane non risolto dal punto di vista religioso il problema di quale fondamento abbia la scuola per costringere la nuova generazione ad imparare in un determinato modo.

Può darsi che la risposta si trovi nella filosofia. Possiede la filosofia fondamenti solidi come quelli della religione? E quali sono? Da chi, come e quando sono stati espressi questi fondamenti? Noi non li conosciamo. Tutti i filosofi cercano di scoprire le leggi del bene e del male; dopo averle trovate, essi, trattando i problemi pedagogici (nessuno di loro può tralasciare la pedagogia), costringono ad istruire il genere umano secondo queste leggi. Ciascuna di queste teorie, però, come pure tutte le altre, risulta incompleta e si limita ad aggiungere solo un nuovo anello alla conoscenza del bene e del male insita nell’umanità.

Ogni pensatore esprime solo ciò che è stato coscientemente percepito dalla sua epoca, e perciò l’istruzione della giovane generazione nel senso di questa presa di coscienza è completamente superflua, perché essa è già presente nella generazione vivente.

Tutte le teorie pedagogico-filosofiche hanno come scopo e problema quello di formare uomini virtuosi. Il concetto di virtù, comunque, o rimane sempre lo stesso, oppure si sviluppa indefinitamente e, nonostante tutte le teorie, la decadenza e l’ascesa della virtù non dipendono dall’educazione. Il virtuoso cinese, il virtuoso greco, quello romano o quello francese del nostro tempo sono tutti egualmente virtuosi oppure sono tutti egualmente lontani dalla virtù. Le teorie filosofiche dell’educazione risolvono il problema di come formare l’uomo migliore secondo una determinata concezione etica, elaborata in un’epoca o in un’altra, e viene riconosciuta indiscutibile. Platone non ha dubbi sulla verità della sua etica ed in base ad essa elabora la sua teoria dell’educazione, e sull’educazione egli fonda il suo concetto di stato.

Schleiermacher afferma che l’etica è ancora una scienza incompiuta, e che perciò l’educazione e l’istruzione devono avere lo scopo di preparare uomini che siano in grado di affrontare le situazioni che trovano nella vita e contemporaneamente di adoperarsi con forza per un loro futuro perfezionamento.

L’educazione, afferma Schleiermacher, ha generalmente lo scopo di introdurre un individuo nello stato, nella chiesa, nella vita pubblica e nella scienza; solamente l’etica, benché scienza incompiuta, dà una risposta al problema di come debba essere un membro rispetto a questi quattro aspetti della vita per essere considerato un uomo colto. Come Platone, anche tutti i pedagogisti che partano da considerazioni filosofiche ricercano nell’etica lo scopo ed i compiti dell’educazione, alcuni riconoscendone una determinata, altri considerandola come la coscienza dell’umanità in costante evoluzione; ma alla domanda: che cosa e come insegnare al popolo, nessuna teoria dà una risposta positiva. Chi sostiene una cosa, chi un’altra, e quanto più si va avanti tanto più discordanti diventano le diverse tesi.

Coesistono contemporaneamente più teorie opposte l’una all’altra. L’indirizzo teologico lotta contro quello scolastico, quello scolastico contro quello classico, quello classico contro quello realista, ed attualmente tutti questi indirizzi coesistono, non superandosi l’un l’altro, senza che alcuno sappia che cosa sia menzogna e che cosa verità.

Vi sono migliaia di teorie, le più strane e diverse tra loro, fondate sul nulla, come quelle di Rousseau, Pestalozzi, Froebel, ed altri; vivono fianco a fianco tutte le scuole in uso, le istituzioni di stampo realista, classico e religioso. Tutti sono scontenti di questo fatto, ma non sanno precisamente quale alternativa sia necessaria e possibile.

Seguendo il corso della storia, della filosofia, della pedagogia, troverete in esso non un criterio educativo ma, al contrario, una sola convinzione comune, che inconsciamente si trova alla base di tutti i pedagogisti, nonostante le frequenti divergenze esistenti tra loro, cioè l’idea che questo criterio non esiste.

Tutti, da Platone a Kant, cercano di raggiungere un solo obiettivo, cioè liberare la scuola dalle catene storiche che la opprimono; vogliono scoprire ciò che è necessario all’uomo e su questi bisogni, più o meno giustamente intuiti, costruiscono la propria nuova scuola. Lutero costringe ad imparare la Sacra Scrittura nella versione originale e non dai commentari dei Santi Padri. Bacone impone di studiare la natura dalla natura stessa e non dai libri di Aristotele. Rousseau vuole insegnare a vivere ricavando l’apprendimento dalla vita stessa, come egli la comprende, e non dalle esperienze precedenti.

Ogni progresso della filosofia e della pedagogia consiste soltanto nel liberare la scuola dall’idea di dover insegnare alle generazioni giovani ciò che le vecchie generazioni hanno considerato scienza, preferendo basare l’insegnamento sui bisogni delle giovani generazioni.

Questo concetto comune e contemporaneamente contraddittorio è sentito in tutta la storia della pedagogia: è comune per il fatto che tutti esigono maggior libertà per la scuola, è contraddittorio perché ognuno suggerisce delle leggi fondate sulle proprie teorie e in tal modo limita tale libertà. Dovremmo rifarci all’esperienza delle scuole del passato e di quelle attualmente esistenti?

Ma in che modo questa esperienza può dimostrarci la giustezza del metodo attuale di rendere l’istruzione obbligatoria? Noi non possiamo sapere se esista un altro metodo più giusto, dal momento che le scuole finora non sono ancora state libere. In verità noi vediamo che ai livelli superiori (Università, conferenze pubbliche) l’istruzione si sforza di diventare sempre più libera, ma questa è solo una ipotesi. Forse l’istruzione ai gradini inferiori dovrà sempre rimanere obbligatoria, e può darsi che l’esperienza abbia dimostrato che scuole siffatte siano buone.

Esaminiamo dunque queste scuole senza consultare le tabelle statistiche dell’istruzione in Germania, e cercando invece di conoscere com’è l’insegnamento e qual è la sua influenza sul popolo nella realtà. A me la realtà ha mostrato questo. Il padre manda il figlio o la figlia a scuola contro la propria volontà, maledicendo l’istituzione che lo priva del lavoro del figlio e contando i giorni che mancano al momento in cui il figlio diventerà schulfrei, cioè libero dall’obbligo scolastico (questa espressione da sola già dimostra come il popolo guardi alla scuola). Il fanciullo va a scuola con la convinzione che l’unico potere a lui noto, quello del padre, non approva il potere dello stato, al quale si sottomette iscrivendosi alla scuola. Le informazioni che egli riceve dagli amici più anziani che hanno già frequentato questa scuola aumentano probabilmente in lui l’avversione ad entrarvi. Le scuole rappresentano per lui un’istituzione creata per il tormento dei bambini, istituzione nella quale lo privano del piacere e della necessità principali dell’età infantile, cioè del libero movimento. Qui, al contrario, Gehorsam (obbedienza) e Ruhe (compostezza) sono le condizioni più importanti, e persino per allontanarsi per un minuto ha bisogno di un permesso particolare. Qui ogni trasgressione viene punita col righello, ed anche col bastone (nonostante ufficialmente sia stata votata l’abolizione della punizione corporale), oppure col prolungamento coatto della situazione più crudele per il fanciullo, cioè lo studio.

La scuola risulta giustamente al fanciullo un’istituzione dove gli insegnano cose che nessuno capisce, dove per la maggior parte del tempo lo obbligano a parlare non nella sua lingua madre, il dialetto, ma in una lingua estranea, dove l’insegnante per lo più vede negli allievi i suoi nemici naturali i quali, per malanimo loro e dei genitori, non vogliono imparare quello che lui stesso ha imparato e dove gli allievi, a loro volta, guardano all’insegnante come ad un nemico, che soltanto per cattiveria sua personale li costringe a studiare tante cose difficili. In questo luogo essi sono costretti a passare sei anni per sei ore al giorno. Quali possano essere i risultati noi lo vediamo dalla realtà, di nuovo giudicando non dai rapporti ufficiali ma dai fatti.

In Germania i 9/10 della popolazione scolastica escono dalla scuola con una capacità meccanica di leggere e scrivere ed un’avversione talmente forte ai sentieri della scienza da loro attraversati che in seguito non prenderanno più in mano un libro. Chi non è d’accordo con me indichi pure i libri letti dal popolo; persino il poeta dialettale Hebel di Baden[3], i calendari ed i giornali popolari vengono letti come rare eccezioni. Una inconfutabile dimostrazione del fatto che nel popolo non c’è istruzione è la mancanza di una letteratura popolare e principalmente il fatto che la decima generazione deve essere ancora mandata a scuola con la stessa violenza della prima. Una scuola siffatta genera non solo avversione all’istruzione, ma abitua anche in questi sei anni all’ipocrisia ed all’inganno derivanti dalla situazione innaturale in cui si trovano gli allievi ed a quella situazione di confusione di idee che viene chiamata istruzione elementare.

Nei viaggi da me compiuti in Francia, in Germania ed in Svizzera per raccogliere informazioni sugli scolari, sul loro modo di vedere la scuola e sul loro sviluppo morale, proponevo le seguenti domande nelle scuole elementari ed agli ex-scolari: qual è la capitale della Prussia o della Baviera? Quanti figli ebbe Giacobbe? Conosci la storia di Giuseppe? Nelle scuole qualche volta mi rispondevano con delle tirate imparate a memoria dal libro, ma quelli che aveva finito i corsi non mi risposero una sola volta. Non sono quasi mai riuscito ad ottenere una risposta che non fosse a memoria. In matematica non ho potuto stabilire una regola generale: a volte mi veniva risposto bene, a volte molto male.

Ho assegnato inoltre un tema su quello che gli scolari avevano fatto la domenica precedente: sempre, senza alcuna eccezione, maschi e femmine scrissero solamente che la domenica avevano colto tutte le occasioni possibili per pregare Dio, ma non avevano giocato. Questo valga come esempio dell’influenza morale esercitata dalla scuola. Ma alla domanda, rivolta ad uomini e donne adulti, sul perché non studiassero dopo la scuola, perché non leggessero questo o quello, tutti risposero che avevano già compiuto il rito della Cresima, avevano sopportato la quarantena della scuola ottenuto un diploma per un determinato grado d’istruzione, cioè i rudimenti dell’istruzione.

Non c’è solo l’influenza abbrutente della scuola, per la quale i tedeschi hanno coniato una definizione tanto indovinata come «Verdummen»[4], che esprime propriamente l’alterazione protratta delle capacità mentali. Esiste un’altra influenza più nociva; essa consiste nel fatto che il fanciullo, nella lunga successione delle ore quotidianamente spese sui compiti e instupidito dalla vita di scuola, è stato strappato per tutto questo tempo così prezioso per la sua età da quelle indispensabili condizioni di sviluppo che la natura stessa richiede per lui. È molto comune sentire o leggere l’opinione che le condizioni domestiche, la rozzezza dei genitori, i lavorii dei campi, i giochi di campagna e così via, sono importanti elementi di disturbo per l’istruzione scolastica. Può darsi: essi impediscono proprio l’istruzione scolastica quale è intesa dai maestri, ma è ora di convincersi che tutte queste condizioni sono basi importanti per qualsiasi istruzione, che non soltanto non sono nemiche e d’impedimento all’educazione, ma sono i primi e principali fattori di essa.

Il fanciullo non avrebbe mai potuto imparare né la varietà delle linee che compongono le diverse lettere, né i numeri, né la possibilità di esprimere i propri pensieri, se non fossero esistite in casa le condizioni affinché ciò avvenisse. Per quale ragione questa rozza vita di casa è in grado di insegnare al fanciullo tante cose difficili ed improvvisamente essa diventa incapace di insegnare al fanciullo cose facili come leggere, scrivere e simili, risultando inoltre nociva per questo insegnamento?

La migliore dimostrazione si ottiene confrontando un figlio di contadini, che non abbia mai studiato, con un ragazzo figlio di signori, che abbia studiato per cinque anni con un istitutore. La superiorità di intelligenza e di cognizioni è sempre dalla parte del primo.

Ma questo non è tutto. L’interesse per la conoscenza a qualunque costo, e le domande alle quali la scuola ha il compito di rispondere, sorgono soltanto con queste condizioni familiari. Ogni studio deve rappresentare solo una risposta alle domande suscitate dalla vita. La scuola, però, non solo non stimola le domande, ma non risponde neppure a quelle che vengono sollevate spontaneamente. La scuola risponde continuamente sempre alle stesse domande, poste alcuni secoli fa all’umanità e non dalla mente infantile, e con le quali il fanciullo non ha niente a che fare. Queste sono domande su come sia stato creato il mondo, chi sia stato il primo uomo, che cosa vi fosse duemila anni fa, che tipo di continente sia l’Asia, che forma abbia la terra, in che modo moltiplicare le centinaia per le migliaia, che cosa ci sarà dopo la morte e così via.

Alle domande che gli vengono presentate dalla vita il ragazzo non riceve risposta; tanto più che, secondo la struttura poliziesca della scuola, egli non ha il diritto di aprire la bocca neppure per chiedere di uscire un momento, ma è obbligato ad esprimerlo a gesti, per non rompere il silenzio e non disturbare l’insegnante.

La scuola è organizzata così perché lo scopo della scuola statale, organizzata dall’alto, consiste prevalentemente non nel formare il popolo, bensì nell’istruirlo secondo il nostro metodo — che ci siano scuole, soprattutto molte scuole! Non vi; sono insegnanti? Bisogna creare insegnanti. Ciononostante mancano insegnanti? Bisogna lasciare che un solo insegnante insegni a cinquecento bambini, mécaniser l’instruction[5], metodo Lancaster pupilteachers[6].

Perciò le scuole, strutturate dall’alto ed imposte con la violenza, non sono il pastore per il gregge, ma gregge per il pastore. La scuola è organizzata non in modo che per i fanciulli sia piacevole studiare, ma in modo che agli insegnanti sia comodo insegnare. All’insegnante risulta scomodo il parlare, il muoversi, l’allegria dei bambini, anche se queste sono per loro le condizioni indispensabili di apprendimento; e nelle scuole costruite come luoghi di prigione sono proibite le domande, la conversazione e i movimenti.

Invece di convincersi che per agire in modo soddisfacente su un qualsiasi soggetto bisogna esaminarlo a fondo (e nell’educazione questo soggetto è il fanciullo libero), i maestri vogliono insegnare così come sono capaci e davanti all’insuccesso pretendono di cambiare non il metodo di insegnamento, ma la natura stessa del fanciullo.

Da questa idea hanno avuto origine e tuttora derivano (Pestalozzi) i sistemi con i quali si vorrebbe «mécaniser l’instruction», rispondendo cioè a quella eterna tendenza della pedagogia a costruire le cose in modo che, qualunque sia l’insegnante o l’allievo, il metodo sia uno solo ed invariato. Val la pena di dare uno sguardo allo stesso fanciullo quando è a casa e per strada oppure quando è a scuola: in un caso vedete un essere felice e curioso, con un sorriso negli occhi e sulla bocca, che in tutto cerca un insegnamento come piacere, che esprime chiaramente e frequentemente i propri pensieri nella propria lingua; nell’altro vedete un essere tormentato, oppresso, con un’espressione di stanchezza, terrore e noia, che ripete solo con le labbra parole estranee in una lingua estranea, un essere la cui anima, come una lumaca, si è nascosta nel proprio guscio. Val la pena di dare uno sguardo a queste due condizioni per decidere quale delle due sia più idonea allo sviluppo del fanciullo.

Quello strano stato psicologico che io chiamo stato scolastico dell’anima, che tutti noi purtroppo conosciamo così bene, consiste nel fatto che tutte le facoltà più elevate — immaginazione, creatività, comprensione — lasciano il posto ad altre facoltà semi-animalesche: il pronunciare i suoni indipendentemente dall’immaginazione, il contare i numeri in fila, 1, 2, 3, 4, 5…, il percepire le parole senza permettere alla fantasia di arricchirle con immagini; in una parola, la facoltà di reprimere in sé tutte le facoltà più elevate per sviluppare solo quelle che coincidono con l’ordine scolastico, il terrore, lo sforzo della memoria e l’attenzione.

Ogni scolaro costituisce un elemento anomalo nella scuola finché non finisce sul binario di questo stato semi-animalesco. Non appena il fanciullo è arrivato a questa condizione, ha perso tutta la sua indipendenza ed autonomia, ed immediatamente si manifestano in lui vari sintomi della malattia: ipocrisia, menzogna inutile, sensazione di trovarsi in un vicolo cieco e così via. In tal modo egli non rappresenta più un elemento anomalo nella scuola, ma è entrato nel binario «giusto» e l’insegnante comincia ad essere contento di lui. Accadono allora quei fatti non casuali, ma che si ripetono puntualmente, cioè che il fanciullo più stupido diventa l’allievo migliore ed il più intelligente quello peggiore.

Mi sembra che questo fatto sia sufficientemente significativo per pensarci sopra e cercare di fornire una spiegazione. Credo che serva anche come dimostrazione evidente della falsità del principio dell’educazione coercitiva. Non solo: oltre a questo fatto negativo, che consiste nell’allontanare i bambini dall’educazione inconsapevole che ricevono a casa, sul lavoro, in strada, queste scuole risultano nocive a livello fisico per il corpo, così inseparabile dall’anima nella prima età.

Questo danno incide particolarmente in relazione alla monotonia dell’educazione scolastica, anche nel caso che essa sia buona. Per un agricoltore è impossibile fare a meno delle proprie condizioni di lavoro, della vita nei campi, delle conversazioni con gli anziani e così via, da cui è circondato; lo stesso per l’artigiano ed in generale anche per l’abitante della città. Non a caso, ma per un preciso disegno, la natura ha circondato l’agricoltore di condizioni rurali, il cittadino di condizioni urbane. Queste condizioni sono altamente istruttive e soltanto in esse entrambi possono formarsi.

La scuola, invece, pone come prima condizione della sua educazione l’alienazione da queste condizioni. E c’è di più: non solo strappa dalla vita per sei ore al giorno i bambini nei loro anni migliori, ma vuole allontanare dall’influenza della madre i bambini di tre anni. Sono state inventate le istituzioni (Kleinkinderbewahranstalt, infantschools, salles d’asile)[7] sulle quali ci dovremo soffermare più dettagliatamente. Resta soltanto da inventare una macchina a vapore che possa sostituire la balia.

Tutti sono d’accordo che le scuole sono imperfette (personalmente sono convinto che siano dannose). Tutti ammettono che molti, ma molti miglioramenti sono necessari. Tutti concordano nel ritenere che questi miglioramenti debbano basarsi su condizioni più valide per gli allievi. Tutti sono inoltre convinti che queste condizioni migliori possono essere trovate solo studiando le esigenze del fanciullo in età scolare in generale, e quelle di ogni classe in particolare. Che cosa si fa dunque per lo studio di questo difficile e complesso problema?

Per parecchi secoli ogni scuola è stata organizzata sul modello di un’altra, fondata a sua volta sul modello di quella precedente, ed in ciascuna di queste scuole quale condizione categorica è stata posta la disciplina, che proibisce ai bambini di parlare, domandare, scegliere un argomento di studio piuttosto che un altro, in una parola, sono state adottate tutte le misure per privare l’insegnante della possibilità di trarre deduzioni sulle necessità degli allievi. La struttura coercitiva della scuola esclude la possibilità di ogni progresso. Fra l’altro, quando consideriamo quanti secoli sono trascorsi nel dare una risposta a quelle domande che i bambini non si sono sognati di porre, quanto sono ormai lontane le generazioni odierne dall’istruzione naturale che è stata loro impartita in passato, diventa allora incomprensibile come questo tipo di scuole possa ancora esistere.

La scuola, ci sembra, dovrebbe essere uno strumento di educazione e al tempo stesso un esperimento sulla giovane generazione in grado di dare costantemente nuovi risultati. Soltanto quando la sperimentazione sarà alla base della scuola, quando ogni scuola sarà in un certo senso un laboratorio pedagogico, solo allora essa non resterà indietro rispetto al Progresso generale e la sperimentazione sarà in grado di porre solide fondamenta per la scienza dell’educazione. Può darsi però che la storia risponda alla nostra sterile domanda: su che cosa si basa il diritto di costringere all’istruzione sia i genitori che gli allievi? Le scuole esistenti, ci replicherà la storia, sono un prodotto della storia stessa e devono continuare ad evolversi storicamente in conformità le esigenze della società e del tempo; quanto più si procede nel tempo, tanto migliori divengono le scuole. A questo io rispondo: in primo luogo, che gli argomenti esclusivamente storici sono unilaterali e falsi come quelli esclusivamente  filosofici. La coscienza dell’umanità costituisce l’elemento principale della storia, e per questo, se l’umanità prende coscienza della inadeguatezza delle proprie scuole, allora questa presa di coscienza diventerà già importante fatto storico, sul quale dovrà basarsi la struttura dello scuola. In secondo luogo, quanto più andiamo avanti, tanto più le scuole diventano non migliori, ma peggiori, peggiori rispetto a quel livello di cultura che la società ha raggiunto.

La scuola è una parte organica dello stato che non può essere esaminata e valutata separatamente, in quanto il suo valore consiste solo nella sua minore o maggiore corrispondenza con i rimanenti settori di esso. La scuola è valida solo quando ha preso coscienza delle leggi fondamentali in base quali vive il popolo. Una scuola meravigliosa per un villaggio russo nella steppa, che soddisfi tutte le esigenze dei suoi allievi, sarà certamente inadeguata per un parigino, e la migliore scuola del XVII secolo sarebbe la peggiore nel nostro tempo; al contrario, però, la peggior scuola del medioevo era per quell’epoca più funzionale della miglior scuola del nostro tempo, in quanto corrispondeva meglio al proprio tempo e perlomeno si trovava al livello dell’evoluzione generale, se non ad uno più avanzato, mentre la nostra scuola è arretrata rispetto al grado generale d’istruzione.

Se il compito della scuola, ammettendo la definizione più diffusa, consiste nel trasmettere tutto ciò che il popolo ha elaborato consapevolmente e nel rispondere a quelle domande che la vita pone all’uomo, allora non c’è dubbio che nella scuola medioevale le tradizioni erano più limitate e i problemi che si presentavano nella vita erano di più facile soluzione, per cui questo compito della scuola era più facilmente soddisfatto. Era molto più semplice trasmettere le tradizioni della Grecia e di Roma da fonti insufficienti e non elaborate, i dogmi religiosi, la grammatica e quella parte di matematica che era nota, che non tutti gli eventi che noi abbiamo vissuto da allora e che hanno completamente oscurato le tradizioni dei popoli antichi, e tutte quelle cognizioni delle scienze naturali attualmente indispensabili come risposta ai fenomeni quotidiani della vita.

Nel frattempo, però, il metodo di impartire l’istruzione è rimasto lo stesso e perciò la scuola è stata costretta a rimanere indietro ed a diventare peggiore, anziché migliore. Per mantenere la scuola nello stesso stato in cui si trovava allora e perché non risultasse arretrata rispetto allo sviluppo culturale, sarebbe stato necessario essere più conseguenti: non solo creare le leggi per una scuola coercitiva, ma anche impedire il progresso dell’educazione con altri mezzi, quali proibire le macchine, le vie di comunicazione e la pubblicazione di libri.

Per quanto risulta dalla storia, solo i Cinesi furono rigorosamente logici sotto tutti gli aspetti. I tentativi degli altri popoli di limitare la pubblicazione dei libri ed in generale di sottomettere il movimento educativo sono stati solo temporanei e non del tutto conseguenti. Soltanto i Cinesi, perciò, possono attualmente vantarsi di una scuola ideale, che corrisponde totalmente al livello generale del loro sviluppo. Se ci dicessero che le scuole vengono perfezionate storicamente, noi risponderemmo solamente che il perfezionamento delle scuole si deve intendere in senso relativo, e che ogni anno e ogni ora di coercizione rendono invece le scuole sempre peggiori, cioè sempre più arretrate rispetto al livello generale di educazione, perché sin dal tempo dell’invenzione della stampa il loro progresso è inadeguato rispetto a quelIo dell’evoluzione delle conoscenze.

In terzo luogo, replicando all’argomentazione storica secondo la quale le scuole sono sempre esistite e pertanto sono buone, anch’io addurrò un argomento storico. Un anno fa andai a Marsiglia e visitai tutte le scuole per i lavoratori di quella città. Il rapporto tra allievi e popolazione è così elevato che tutti i bambini, con poche eccezioni, frequentano la scuola per tre, quattro o sei anni. I programmi delle scuole consistono nello studio a memoria del catechismo, della storia sacra e universale, delle quattro operazioni aritmetiche, dell’ortografia francese e della contabilità. In che modo la contabilità possa costituire una materia d’insegnamento, non sono riuscito in alcun modo a comprenderlo e nessun insegnante è stato in grado di chiarirmelo. L’unica spiegazione che mi sono dato dopo aver esaminato come erano tenuti i libri dagli studenti che avevano terminato questo corso, fu che essi non sapevano neppure tre regole di aritmetica, ma avevano imparato a memoria le operazioni da fare con i numeri e perciò pure a memoria avevano imparato la tenue des livres[8]. (Mi sembra che non vi sia necessità di dimostrare che la tenue des livres, Bucbhaltung[9], come viene insegnata in Germania ed in Inghilterra, sia una scienza che richiede una spiegazione di quattro ore per un allievo che conosca le quattro operazioni dell’aritmetica).

Non un singolo ragazzo di queste scuole è stato capace di risolvere il più semplice problema, cioè di impostarlo in termini di addizione e di sottrazione. Eppure eseguivano le operazioni con numeri astratti, moltiplicando le migliaia con facilità e sveltezza.

Alle domande di storia francese, rispondevano bene a memoria, ma spaziando a caso con le domande, mi è stato risposto che Enrico IV fu ucciso da Giulio Cesare. Lo stesso è successo in geografia e storia sacra. Altrettanto in ortografia e lettura. Più della metà delle ragazze non è capace di leggere altri libri oltre quelli che ha studiato. Sei anni di scuola non danno la capacità di scrivere le parole senza errori. So che i fatti da me riportati sembrano così incredibili che molti avranno dei dubbi; ma io avrei potuto scrivere interi libri sull’ignoranza che ho incontrato nelle scuole della Francia, della Svizzera e della Germania[10]. Tra l’altro, chi ha a cuore questo problema, si sforzi di esaminare la scuola non dai risultati pubblici degli esami, ma da visite e conversazioni prolungate con insegnanti ed allievi dentro e fuori di scuola.

A Marsiglia ho anche visitato una scuola laica ed un seminario per adulti. Su 250.000 abitanti, meno di 1.000, e tra questi solo 200 uomini, frequentano queste scuole. Il tipo di insegnamento è lo stesso: lettura meccanica che viene raggiunta dopo un anno e più, contabilità senza conoscenza dell’aritmetica, insegnamenti religiosi e così via. Dopo la scuola laica ho visto gli insegnamenti impartiti quotidianamente nelle chiese, ho visitato le salles d’asile, nelle quali bambini di quattro anni, obbedendo ad un colpo di fischietto, come soldati, compiono evoluzioni intorno ai banchi, ad un comando si alzano e mettono a posto le mani, prendendo poi a cantare con voci tremanti e strane gli inni di lode a Dio ed ai loro benefattori. Per cui mi sono convinto che le istituzioni scolastiche della città di Marsiglia sono eccezionalmente cattive.

Se per un caso qualsiasi qualcuno avesse visitato tutti questi istituti senza vedere il popolo nelle strade, nelle botteghe, nei caffè, all’interno delle mura domestiche, che opinione avrebbe potuto riportare di un popolo educato in questo modo? Senz’altro avrebbe pensato che questo popolo era ignorante, rozzo, ipocrita, traboccante di pregiudizi e quasi selvaggio. Ma è sufficiente stabilire un rapporto e mettersi a parlare con qualche persona semplice per convincersi che in realtà il popolo francese è più o meno quello che esso stesso si ritiene: intelligente, abile, socievole, libero da pregiudizi ed effettivamente evoluto.

Guardate un lavoratore di città di trent’anni: egli scriverà una lettera senza gli errori che faceva a scuola, a volte completamente corretta; ha idee politiche, e quindi anche idee sulla geografia e sui fatti storici più recenti; conosce un po’ di storia dai romanzi; possiede alcune cognizioni di scienze naturali. Molto spesso disegna e applica formule matematiche nel suo lavoro. Dove ha assimilato tutto ciò? Ho trovato involontariamente la risposta a Marsiglia quando, dopo le scuole, ho cominciato a girovagare per strade, osterie, cafés chantants, musei, botteghe, sulle banchine del porto, e tra le bancarelle di libri. Quello stesso ragazzo che mi aveva risposto che Enrico IV era stato ucciso da Giulio Cesare, conosceva molto bene «I tre Moschettieri» e «II Conte di Montecristo». A Marsiglia ho trovato ventotto edizioni illustrate di questi libri ad un prezzo compreso tra 5 e 10 centesimi. Su 250.000 abitanti, ne vengono vendute fino a 30.000 copie; quindi, supponendo che dieci persone leggano o ascoltino leggerne una copia, troviamo che tutti ne hanno fatto uso. Oltre a ciò esistono un museo, biblioteche pubbliche, teatri. Vi sono poi i caffè, due grandi cafés chantants, dove chiunque può entrare con 50 centesimi di consumazione, e nei quali passano quotidianamente fino a 25.000 persone; senza contare i piccoli caffè, altrettanto diffusi; in ognuno di questi vengono rappresentate commediole e scenette, o vengono declamati versi. Ecco che anche secondo il calcolo più basso, otteniamo che un quinto della popolazione quotidianamente riceve un’istruzione orale, come i Greci e i Romani nei loro anfiteatri.

Se questa educazione sia buona o cattiva, è un altro problema; ma ecco che l’educazione impartita a livello inconsapevole, si dimostra molto più potente di quella coercitiva, ecco che la scuola indiretta scalza quella imposta, e ne rende i contenuti quasi insignificanti. È rimasta solo la forma autoritaria quasi senza contenuto. Dico «quasi senza contenuto» perché escludo la capacità meccanica di mettere insieme le lettere e tirar fuori le parole, unica conoscenza che si può acquisire dopo quattro o cinque anni di studio.

Bisogna inoltre notare che questa stessa abilità meccanica a leggere e a scrivere spesso si ottiene al di fuori della scuola, in un tempo molto più breve; che molto spesso questa abilità non si porta nemmeno fuori dalla scuola, e spesso viene perduta non trovando applicazione nella vita. Dove esiste la legge di frequenza obbligatoria alla scuola, non c’è bisogno di insegnare a leggere, a scrivere e a contare alla seconda generazione, per il fatto che il padre o la madre sembrerebbero in grado di farlo a casa e molto più facilmente che a scuola.

Ciò che ho visto a Marsiglia avviene anche in tutti gli altri paesi: dovunque il popolo forma la parte principale della propria istruzione non nella scuola, ma nella vita. Là, dove la vita stessa è istruttiva come a Londra, a Parigi, e, in genere, nelle grandi città, il popolo è istruito; là dove la vita non è istruttiva come nelle campagne, il popolo non è istruito, stante che le scuole siano perfettamente eguali in entrambe le situazioni. Le cognizioni acquisite nelle città sembra che si conservino, quelle acquisite nelle campagne vanno perdute. La tendenza e lo spirito che permeano l’educazione del popolo nelle città come nelle campagne, sono completante indipendenti e generalmente opposti a quelli che si vogliono instillare nelle scuole. L’educazione va avanti per la strada indipendentemente dalle scuole.

L’argomentazione storica contro l’argomentazione storica proviene dall’esame della storia dell’educazione. Non solo troviamo che le scuole non progrediscono in proporzione allo sviluppo dei popoli, ma ci dobbiamo convincere che esse decadono e diventano una vuota formalità in confronto a tale sviluppo; e che quanto più un popolo è progredito nella sua nazione generale, tanto più l’educazione è passata dalla scuola alla vita ed ha privato di significato i contenuti della scuola.

Tralasciando di soffermarci su tutti i restanti mezzi educativi, quali lo sviluppo dei rapporti commerciali e dei mezzi di comunicazione, l’alto grado di libertà personale e la partecipazione dell’individuo negli affari di governo, non considerando riunioni, musei, conferenze pubbliche e simili, val la pena di dare uno sguardo alla sola stampa e al suo sviluppo, per comprendere la differente condizione della scuola di un tempo rispetto a quella attuale. L’educazione inconsapevole della vita e l’educazione cosciente della scuola, hanno sempre viaggiato insieme, completandosi l’un l’altra; ma in assenza della stampa, la vita ha contribuito in misura insignificante al processo educativo rispetto alla scuola. La scienza apparteneva agli eletti, i quali possedevano i mezzi di educazione. Guardate, invece, quale fetta spetta ora all’educazione della vita, quando non v’è uomo che non possegga un libro, quando i libri vengono venduti a prezzi irrisori, quando le biblioteche pubbliche sono aperte a tutti; quando un ragazzo andando a scuola, oltre ai propri quaderni, si porta appresso ben nascosto un romanzo illustrato a poco prezzo; quando due sillabali vengono venduti per tre copechi, e un contadino della steppa, sempre e dappertutto, comprerà un sillabario e chiederà ad un soldato di passaggio di mostrargli ed insegnargli tutta la scienza imparata nel corso di lunghi anni dalla bocca di un sagrestano; quando uno studente ginnasiale abbandona il ginnasio e, da solo, si prepara sui libri e sostiene l’esame per l’ingresso all’università; quando persone giovani lasciano l’università ed invece di prepararsi sugli appunti del professore, lavorano direttamente sulle fonti; quando, per essere sinceri, ogni istruzione seria viene acquisita solo dalla vita e non dalla scuola.

L’ultimo e, a mio avviso, più importante argomento, va ricercato infine nel fatto che può essere accettabile che i tedeschi, sulla base dell’esistenza bisecolare della loro scuola popolare, la difendano storicamente; ma su quali basi difenderemo noi la scuola popolare, dal momento che da noi non esiste ancora? Quale diritto storico ci autorizza a dire che le nostre scuole devono essere uguali a quelle europee? Noi non possediamo ancora una tradizione di istruzione delle masse. Esaminando a fondo la storia universale dell’educazione popolare, non soltanto ci dobbiamo convincere che ci è impossibile istituire seminari per gli insegnanti sul modello tedesco, rielaborare il metodo tedesco basato sui suoni, le infant schools inglesi, i licei francesi e le scuole speciali, e con questi mezzi metterci al passo con l’Europa; ma ci dobbiamo invece convincere che noi russi viviamo in condizioni eccezionalmente felici per quanto concerne l’istruzione popolare. Che la nostra scuola non deve scaturire, come nell’Europa medioevale, dalle condizioni della vita civile, non deve servire a scopi governativi o religiosi, non deve evolversi nell’oscurità di un mancato controllo su di essa da parte della pubblica opinione o in assenza di un alto grado di educazione indotto dalla vita stessa. La nostra scuola non deve, con nuova pena e fatica, attraversare e liberarsi da quel circolo vizioso attraverso il quale sono passate per tanto tempo le scuole europee, circolo vizioso derivante dal fatto che la scuola avrebbe dovuto promuovere l’educazione spontanea, e l’educazione spontanea promuove la scuola.

I popoli europei hanno vinto questa difficoltà, ma nella lotta hanno necessariamente perduto molto. Siamo riconoscenti per lo sforzo di cui saremo chiamati a beneficiare, ma non dimentichiamoci che siamo destinati a compiere una nuova fatica in questo campo. Sulla base di ciò che l’umanità ha già sperimentato e considerando che la nostra attività non è ancora cominciata, siamo in grado di apportare una maggiore coscienza al nostro lavoro ed è nostro dovere perciò farlo.

Se vogliamo prendere in prestito i metodi delle scuole europee, siamo tenuti a distinguere ciò che in esse è fondato sulle eterne leggi della ragione e ciò che è originato solo dalle singole condizioni storiche. Non c’è una logica generale, un criterio che giustifichi la violenza che le scuole usano contro il popolo, e perciò qualsiasi imitazione della scuola europea, per quel che riguarda la scuola obbligatoria non costituirà un passo avanti, bensì una retrocessione per il nostro popolo; sarebbe un tradimento delle sue inclinazioni,

È comprensibile il motivo per cui in Francia si è formata una scuola razionalista basata sul dominio delle scienze esatte — matematica, geometria e disegno —, in Germania si imposta una scuola formativa a più livelli con il predominio del canto e dell’analisi; è pure comprensibile il motivo cui in Inghilterra si è sviluppato un enorme numero di organizzazioni che hanno istituito scuole filantropiche per proletariato caratterizzate da tendenze pratiche ed, al tempo stesso, rigorosamente morali. Ma quale scuola si debba mare in Russia non ci è noto e non ci sarà mai noto, se noi non permetteremo che essa venga elaborata liberamente ed a tempo opportuno, cioè  una scuola  conforme all’epoca storica nella quale essa si deve sviluppare, adeguata sua storia e ancor più alla storia universale. Se ci convinceremo che l’educazione popolare in Europa cede su una strada sbagliata, allora, non facendo nulla l’istruzione popolare nel nostro paese, faremo di più che pretendessimo improvvisamente di inserirvi a viva forza tutto ciò che a ciascuno di noi sembra valido.

Così il popolo poco istruito vuole una maggiore istruzione la classe più colta vuole istruire il popolo, ma il popolo si assoggetta all’istruzione solo con la violenza. Abbiamo ricercato nella filosofia, nell’esperienza e nella storia i fondamenti che avrebbero potuto dare alla classe educatrice simile diritto e non abbiamo trovato nulla, al contrario siamo convinti che il pensiero dell’umanità tende costantemente alla liberazione del popolo dalla violenza nel campo dell’istruzione.

Ricercando un criterio pedagogico, cioè la conoscenza di cosa e come si debba insegnare, non abbiamo trovato nulla tranne le opinioni e convinzioni più discordanti, e siamo anzi arrivati alla conclusione che quanto più l’umanità è progredita, tanto meno questo criterio è diventato raggiungibile. Volendo dedurlo dalla storia dell’educazione, abbiamo dovuto concludere che non solo le scuole che si sono evolute storicamente non possono servire da modello per noi russi, ma che queste scuole ad ogni ulteriore progresso rimangono sempre più distaccate rispetto al livello generale di educazione e che per questo il loro carattere coercitivo diventa sempre più illecito, ed infine che in Europa l’educazione stessa, come acqua di infiltrazione, si è scelta una nuova strada, ha aggirato le scuole e si è riversata negli strumenti vitali dell’educazione.

Quale deve essere per noi russi la linea di condotta attuale? Metterci tutti d’accordo e prendere come base il punto di vista inglese, francese, tedesco, nord-americano sull’educazione od uno qualunque di questi metodi? Oppure, con un attento esame della filosofia e della psicologia, dobbiamo scoprire ciò che è necessario in linea generale per lo sviluppo dell’anima dell’uomo e per forgiare dalle giovani generazioni uomini il più possibile migliori secondo le nostre concezioni? O dobbiamo utilizzare l’esperienza della storia, non nel senso di imitare quelle forme che si sono evolute attraverso di essa, ma nel senso di comprendere le leggi che l’umanità ha tratto dalle proprie sofferenze? Dobbiamo dire a noi stessi francamente ed onestamente che non conosciamo e non possiamo conoscere ciò che è necessario alle generazioni future, ma che ci sentiamo obbligati a studiare queste esigenze; che non vogliamo incolpare il popolo di ignoranza se non vuole accettare la nostra educazione, ma che incolperemo noi stessi di ignoranza e di orgoglio qualora ci mettessimo in mente di istruire il popolo a modo nostro?

Smettiamo dunque di considerare la resistenza del popolo alla nostra educazione come un fattore di ostilità verso la Pedagogia, vediamo al contrario in essa l’espressione della volontà del popolo sulla quale soltanto dovrà basarsi la nostra attività. Ottemperiamo infine a quella legge che chiaramente ci dice, sia nella storia della pedagogia come in quella di tutta l’educazione, che, affinché la classe educatrice sappia che cosa è bene e che cosa è male, la classe che riceve l’istruzione deve avere il pieno potere di esprimere la propria scontentezza, o almeno di allontanarsi dall’educazione che istintivamente non la soddisfa. Ammettiamo che il criterio pedagogico è uno solo: la libertà. Noi abbiamo scelto questa ultima via nella nostra attività pedagogica.

Alla base di essa è la convinzione che noi non solo non sappiamo, ma non possiamo sapere in che cosa debba consistere l’educazione del popolo, che non solo non esiste nessuna scienza per istruire ed educare, cioè nessuna pedagogia, ma che i suoi stessi principi di base non sono ancora stati posti, che la definizione della pedagogia e dei suoi fini in senso filosofico non è possibile, è inutile e pericolosa.

Noi non sappiamo in che cosa dovrebbero consistere l’istruzione e l’educazione, non accettiamo tutta la filosofia dell’educazione perché non riconosciamo all’uomo la capacità di sapere che cosa egli deve sapere.

L’istruzione e l’educazione costituiscono per noi dei fatti storici di interazione degli uni sugli altri; perciò il compito della scienza dell’educazione, secondo noi, è soltanto una ricerca delle leggi che regolano questa azione reciproca.

Non solo non riconosciamo alla nostra generazione il sapere, e neppure il diritto di sapere ciò che è necessario per il perfezionamento di un uomo, ma siamo convinti che anche qualora l’umanità possedesse questo sapere, non potrebbe arrogarsi il diritto di trasmetterlo o meno alla giovane generazione. Noi siamo convinti che la cognizione del bene e del male, indipendentemente dal volere dell’uomo, è insita in tutta l’umanità e si sviluppa inconsapevolmente insieme alla storia; e che è impossibile inculcare nella nuova generazione la nostra conoscenza, così come è impossibile privarla di questa nostra conoscenza e di quel salto di scienza al quale la condurrà ogni successivo passo della storia.

La nostra apparente conoscenza delle leggi del bene e del male e le nostre azioni nei riguardi della giovane generazione fondate su queste, costituiscono in gran parte un ostacolo allo sviluppo di una nuova coscienza, non ancora elaborata dalla nostra generazione, ma che si sta elaborando nella nuova. Ciò è un impedimento e non un aiuto all’educazione. Noi siamo convinti che l’educazione sia storia e che pertanto non abbia mai fine. L’educazione, intesa nel suo significato più vasto, è quell’attività dell’uomo che abbraccia anche l’allevamento dei figli e che ha come base il bisogno di eguaglianza e l’immutabile legge del progresso educativo.

Una madre insegna al figlio a parlare solo per potersi comprendere reciprocamente, istintivamente si sforza di uniformarsi al suo modo di vedere le cose, alla sua lingua, ma la legge evolutiva non le permette di scendere fino a lui, bensì costringe lui ad innalzarsi fino al suo sapere. Lo stesso rapporto esiste tra lo scrittore e il lettore, lo stesso tra la scuola e l’allievo, lo stesso tra il governo, le classi sociali e il popolo. L’attività dell’educatore, come pure quella di chi viene educato, è mossa dallo stesso ed unico scopo. Compito della scienza dell’educazione è solo lo studio delle condizioni in cui queste due tendenze verso un unico fine comune tendono a coincidere, e l’indicazione di quelle condizioni che impediscono questa coincidenza.

In conseguenza di ciò, da un Iato la scienza dell’educazione diventa per noi più facile, dal momento che non è più ostacolata da interrogativi come: qual è lo scopo finale dell’educazione, a che cosa dobbiamo preparare la nuova generazione? e così via; d’altro lato diventa infinitamente più difficile.

Siamo costretti a studiare tutte quelle condizioni che hanno favorito la coincidenza delle tendenze dell’educatore e dell’educando; dobbiamo determinare in che cosa consista quella libertà, la cui assenza ostacola l’incontro di entrambe le tendenze e che sola può servire a noi come criterio di base di tutta la scienza dell’educazione; passo dopo passo, muovendo da una innumerevole quantità di fatti, dobbiamo giungere alla soluzione dei problemi della pedagogia. Sappiamo che pochi saranno convinti dalle nostre argomentazioni. Sappiamo che la nostra convinzione fondamentale, cioè che l’unico metodo educativo sia l’esperienza, e l’unico criterio per educare sia la libertà, suonerà per alcuni come un trito luogo comune, per altri una oscura astrattezza, altri ancora un sogno irrealizzabile. Non avremmo osato violare la tranquillità dei pedagogisti ed esprimere convinzioni così contrarie a tutto il mondo, se avessimo dovuto limita alle riflessioni di questo articolo. Ma sentiamo la possibilità, passo dopo passo e fatto dopo fatto, di dimostrare l’applicabilità e la legittimità delle nostre così barbare convinzioni e solo a questo fine ne consacriamo la pubblicazione nel periodico Jasnaja Poljarta.

Titolo originale dell’articolo tradotto dalla rivista “ Jasnaia Poljana” n° 1 del gennaio 1862: O narodnom obrazovanii. Tolstoj iniziò a fare per la prima volta lezione ai figli dei contadini nel 1849. Le lezioni nella scuola di Jasnaja Poljana iniziarono nell’autunno del 1859 e la scuola venne organizzata nella stessa casa di Tolstoj. La sua attività, la sua metodologia, il criterio di selezione degli insegnanti e la pubblicazione della rivista “ Jasnaia Poljana” suscitarono forti opposizioni da parte dei nobili e il controllo da parte della polizia zarista.

[1] Titolo originale dell’articolo tradotto dalla rivista “ Jasnaia Poljana” n° 1 del gennaio 1862: O narodnom obrazovanii. Tolstoj iniziò a fare per la prima volta lezione ai figli dei contadini nel 1849. Le lezioni nella scuola di Jasnaja Poljana iniziarono nell’autunno del 1859 e la scuola venne organizzata nella stessa casa di Tolstoj. La sua attività, la sua metodologia, il criterio di selezione degli insegnanti e la pubblicazione della rivista “ Jasnaia Poljana” suscitarono forti opposizioni da parte dei nobili e il controllo da parte della polizia zarista.

[2] Tolstoj scrive nel 1862; l’istruzione obbligatoria verrà introdotta in Inghilterra di lì a qualche anno, nel 1876, e ribadita nel 1944 dal governo laburista con l’Education Act che l’estende fino ai 16 anni e stabilisce la scuola a tempo pieno.

[3] Johann Peter Hebel (1760-1826), poeta e scrittore popolare che nelle sue opere si ispirò costantemente alla realtà rurale e paesana.

[4] Rincretinire

[5] Meccanizzare l’insegnamento.

[6] Insegnamento agli allievi più giovani da parte degli anziani. (N. d. A.) II metodo Lancaster, detto anche del «mutuo insegnamento», o dei «monitori» fu introdotto in Inghilterra sul finire del Settecento da Joseph Lancaster che se ne servi nei sobborghi londinesi per insegnare in classi molto numerose (oltre cento ragazzi suddivisi in gruppi guidati dai compagni più capaci, i «monitori, sotto la supervisione di un solo maestro). Fu perfezionato da Andrew Bell, nella stessa epoca, nell’insegnamento ai figli dei soldati inglesi in India. Esso consisteva appunto nell’utilizzare i ragazzi più grandi e meglio preparati per insegnare ai compagni più giovani e meno istruiti: fu in sostanza un tentativo di risposta al problema dell’istruzione di massa sorto in seguito ai primi fenomeni di industrialismo e di inurbamento. Perciò trovò larga e rapida diffusione negli stati industrializzati d’Europa d’America, e in Italia nella seconda metà dell’Ottocento.

[7] Asili.

[8] Tenuta dei libri contabili, contabilità.

[9] Tenuta dei libri contabili, contabilità.

[10] Vale forse la pena di ricordare che queste non sono critiche rivolte alle scuole dell’epoca di questi paesi, che anzi Tolstoj aveva visitato perché all’avanguardia (un po’ come oggi si andrebbe a studiare quelle inglesi e svedesi): tanto più perciò le critiche investono la scuola obbligatoria in quanto istituzione in generale.

Tratto da http://www.criticamente.com/cultura_arte/Tolstoj_Lev_-_Sull_istruzione_popolare.htm

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