Luciano Barra Caracciolo, Sindacato costituzionale sulla normativa in materia economica

by gabriella

costituzione1Orizzonte 48, blog di alta scuola giuridico-economica, ha ripubblicato questo saggio dedicato alla compatibilità costituzionale delle manovre di bilancio. La riflessione del giurista parte dal possibile sindacato di adeguatezza e ragionevolezza su politiche che peggiorano i parametri economici che intendono migliorare e degradano, così facendo, le condizioni di vita del popolo sovrano.

Si tratta di una ricognizione completa delle ragioni per cui gli anticorpi istituzionali avrebbero già da tempo – si vedano ad esempio, gi studi di Lorenzo Dorato sull’incostituzionalità delle liberalizzazioni degli anni ’90 e di Gaetano Bucci su quella del pareggio di bilancio – dovuto sterilizzare la minaccia portata da organismi estranei al benessere della società italiana (ed è per questo utile), anche se confesso che proprio tanta accuratezza davanti a una non casuale inerzia mi appare sempre più naïf.

Nel video sottostante, Caracciolo sembra quasi rispondere a simili obiezioni esaltando il valore della critica e citando Giuliano l’apostata e Spinoza, esegeti del corpus giuridico medievale e del Talmud, le “scritture del nemico” o comunque di “ciò che opprimeva un’intera comunità”.

I- PREMESSA

La situazione economica attuale impone di considerare un problema di natura logica e costituzionale di enorme portata.
Se, obiettivamente, la politica legislativa seguita dai governi (e dal Parlamento), per i risultati “misurati” sugli stessi parametri e indicatori che tale politica afferma di voler ”migliorare”  (vedremo poi in che senso), produce l’effetto di peggiorare la situazione economica medesima, – ampliando, per durata e misura, la più lunga recessione del 2° dopoguerra,  è possibile arrivare a un sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale che salvaguardi la Costituzione stessa (in tutti i suoi principi fondamentali) e, con essa, il suo sub-strato sociale, in cui risiede la Sovranità secondo l’art.1 Cost.?
La domanda parrebbe enfaticamente retorica, dovendosi ritenere scontata la risposta positiva, se non fosse contraddetta dalla realtà, che ci mostra una sostanziale “inerzia istituzionale” nell’accettare politiche economico-finanziarie, che non possono, viceversa, ritenersi scientificamente attendibili, prima ancora che conformi allo “Spirito” complessivo della Costituzione.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=M5TCk78_lj0]

II. IL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ DELL’ATTIVITA’ NORMATIVA, RAGIONEVOLEZZA E ATTENDIBILITA’

Il sindacato sulla discrezionalità normativa, del legislatore come dell’amministrazione, com’è noto, si sviluppa attraverso il parametro della ragionevolezza, racchiuso, per uniforme giurisprudenza costituzionale e amministrativa, nell’art. 3, comma 2, Cost. A fronte del carattere “tecnico-economico” delle decisioni assunte, il parametro che connota, in progressione logica di consequenzialità, la ragionevolezza stessa, dovrebbe essere quello della attendibilità delle premesse fattuali, e valutative dei fatti, da cui muovono tali decisioni “legislative”.[1] Diciamo “dovrebbe essere” perché, nella stessa giurisprudenza della Corte non è chiarito, in modo univoco, la relazione tra ragionevolezza e “attendibilità”.
La prima dovrebbe consistere nella concreta parità di trattamento delle situazioni disciplinate rispetto a ogni altra che presenti caratteri comuni o analoghi, ovvero coerenza tra fini e strumenti utilizzati dal legislatore (come “condensati” nel concreto enunciato normativo), tale da far emergere, come conseguenza del suo “difetto”, la violazione di un precetto costituzionale ulteriore e distinto da quello dell’art.3, cpv., Cost.
La “attendibilità”, a sua volta, si pone come proiezione logica e corollario consequenziale del principio di ragionevolezza laddove, come si è anticipato, la normativa esaminata abbia un obiettivo connotato tecnico.
Questo, nel caso del sindacato costituzionale, è particolarmente delicato da prospettare: la formale corrispondenza a una proposizione costituzionale, spesso solo nel fine enunciato in termini generali, della norma denunziata, tende ad offuscare la stessa proponibilità di un sindacato della Corte, che arretra, normalmente, di fronte al fatto che la Costituzione non impone precetti di natura così vincolante da dedurre come corretto un risultato piuttosto che un altro, tra i molti perseguibili alternativamente dal legislatore, una volta intrapresa un’azione nel settore della politica economica, sotto la copertura di un “compito” economico costituzionalmente previsto.
Nel caso citato in nota 1, ad esempio, la Corte ha escluso che fosse violata la ragionevolezza in caso di norme, riguardanti l’attività dell’Istat, che non contemplavano una integrazione delle mancate risposte, pur possibili, ai questionari di rilevazione: ciò in quanto, sul piano proprio della “inattendibilità” prospettata in eccezione, non risultava provato che le mancate risposte non fossero “scontate” comunque nelle metodologie statistiche di rilevazione.
Si è ritenuto, cioè, implicitamente ma necessariamente, che il metodo normativamente stabilito, non fosse irragionevole, in quanto in sé non univocamente contrario a ciò che scientificamente – ma, prima ancora, ragionevolmente- si possa presumere attendibile. Laddove la “prova” della contrarietà alle conoscenze consolidate e più ampiamente condivise della comunità scientifica, incombeva su chi aveva dedotto la irragionevolezza.
E’ chiaro poi, dunque, che questo “criterio” della irragionevolezza di cui sia “sintomo” la inattendibilità, intesa come contrarietà di metodo/strumento  normativo rispetto agli effetti perseguiti in base allo scientifico “senso condiviso”,  può prospettarsi anche nel caso in cui la “norma” di legge detti strumenti, e persegua effetti, nel campo della politica economico-finanziaria, quando ciò determini, altresì, una diretta compressione del dettato costituzionale in taluno dei suoi precetti ulteriori rispetto all’art.3 Cost.
Ad es; l’enunciato della “funzione sociale” del diritto di proprietà, profilata dall’art.42, comma 2, Cost., non è stata considerata, da un celebre “arresto” della Corte, sufficiente a giustificare uno svuotamento “coessenziale” del contenuto dello stesso, a titolo individuale e senza indennizzo, per ragioni di interesse pubblico, su particolari categorie di beni: si trattava della proprietà fondiaria, nella sua proiezione edificatoria, connessa allo stesso art.41 Cost.. L’enunciato ha fatto riferimento alla esistenza di un contenuto “naturale”, incomprimibile e coessenziale, riconosciuto “implicitamente” dallo stesso art.42 e, appunto, in relazione alla sua inerenza anche alla libertà di iniziativa economica. Perciò, il fenomeno espropriativo, e il connesso effetto indennitario, sono stati riconosciuti in termini più ampi, cioè relativi alla disciplina urbanistica tout court, di quelli stabiliti dalla tradizione storica della espropriazione per la realizzazione di opere di pubblica utilità.[2]
Proprio partendo da questo importante criterio, la ragionevolezza entra in gioco per poter affermare che l’attività politico-normativa non può, sempre e comunque, essere esentata dal sindacato di illegittimità costituzionale solo in virtù del carattere di “concetto tecnico-politico indeterminato” assunto nella enunciazione della base costituzionale della legge “denunziata”.

III- SINDACATO DI COSTITUZIONALITA’, VINCOLI EUROPEI E NORME DI REVISIONE COSTITUZIONALE

Sviluppando il tema ora intrapreso, è accettabile, ad esempio, che sia automaticamente insindacabile ogni legge che, nel fine politicamente dichiarato, persegua il fine della riduzione dell’indebitamento annuale dello Stato, alla luce dell’enunciato del nuovo art.81 Cost., (peraltro valevole a partire dal 1 gennaio 2014), per cui, “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”?
La risposta pone capo a varie soluzioni.
Anzitutto. La proposizione costituzionale assunta nella sua finalità programmatica specifica, può implicare il sacrifico “massivo” di molte altre norme costituzionali di “principio”, -cioè quelle che lo stesso art.139 Cost., non consente di abrogare-modificare- perché caratterizzanti la “forma repubblicana”, intesa come Repubblica democratica fondata sul lavoro, (dato che tale è l’enunciato dell’art.1 Cost. ed il più chiaro riferimento intratestuale e sistematico all’ubi consistam di tale “forma”).
Se risultasse, in tale prospettiva, che la riduzione costituzionale e, in via di attuazione periodica e costante, “legislativa” dell’”indebitamento” (che il susseguente comma dell’art.81 vieta direttamente, tranne “autorizzazione” delle Camere, adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di “eventi eccezionali”, connessi a “effetti del ciclo economico”), diminuisse in modo prolungato e “strutturale” l’occupazione (art.1 e 4 Cost, in sistema con gli artt. 35, 36 e 37 Cost.) ad esempio registrandosi un massiccio incremento della disoccupazione, con forte decremento, comprovato del monte-retribuzioni ad esse precedentemente attribuite, lo stesso “nuovo” art.81 sarebbe in contrasto con norme costituzionali prevalenti e, a rigore, si aprirebbe la via al sindacato “interno” alla Costituzione stessa.[3]
La sindacabilità, anche di norme di revisione, ove violative dei precetti “primigeni” di livello costituzionale, e quand’anche attuative di obblighi pattizi assunti in sede “europea” è da ritenere pacifica.
Ed infatti, se il nostro diritto interno é cedevole di fronte al diritto comunitario, quest’ultimo non può derogare o superare i “principi supremi” della nostra Costituzione.Una regola questa ribadita dalla Corte costituzionale (sent. 284 del 13 luglio 2007).
Di essa segnaliamo questo passaggio:
Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno  ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006).
Ma, quello della “incidenza manifesta” sul livello di occupazione, è solo uno degli esempi tra i molteplici che si possono addurre: si pensi a una prolungata disciplina finanziaria che, anno per anno, disponga sistematicamente il taglio degli investimenti pubblici, com’è in effetti avvenuto. Ciò fa venir meno un determinante sostegno alla domanda aggregata (il PIL), e, proprio e specialmente in situazione di stagnazione o flessione del PIL, determina la conseguenza di limitare concretamente le indispensabili politiche pubbliche volte a indirizzare l’iniziativa economica verso obiettivi di “sicurezza, libertà e dignità umana” (art.41 Cost., secondo comma), programmando e controllando “effettivamente” l’attività economica, affinchè si rivolga (art.41, terzo comma) verso “fini sociali” – tra cui certamente spicca, in virtù degli artt. 1 e 4 Cost.- il perseguimento della “piena occupazione” (e non certo politiche fiscali che amplifichino la disoccupazione).
In altri termini, lo stimolo fiscale all’economia ha una oggettiva funzione anticongiunturale e di concomitante sostegno all’occupazione (v. infra), e, tale stimolo, per essere conforme a numerose norme costituzionali di tutela del lavoro come fondamento e legittimazione del legame comunitario generale, deve poter essere svolto in misura “effettiva”, cioè adeguata alla dimensione macroeconomica del Paese e non essere ridotto in termini puramente formali e, perciò, tra l’altro, “inattendibili”, secondo l’obiettivo stato della scienza economica, rispetto all’obiettivo (stimolo e sostegno), agevolmente  ricavabile in via sistematica dalla Costituzione.
Si consideri, poi, che, come si è illustrato alla nota 3), la stessa sindacabilità delle norme di revisione costituzionale, secondo la più attenta e “autentica” (in senso di attribuibile direttamente all’intendimento del Costituente) dottrina, è fondata sulla pacifica superiorità della Costituzione “primigenia” rispetto alle fonti, pur costituzionali, di sua modifica successiva, laddove ne risulti “alterata” l’effettività del suoi principi fondamentali.
Un tale effetto di “svuotamento” e quindi “violazione” dei principi fondamentali, potrebbe essere avallato dalla Corte, facendo perno sull’assunto del carattere tecnico, automaticamente insindacabile, del concetto di “ divieto di indebitamento”, enfatizzando la copertura apprestata dal mero enunciato del perseguimento di tale fine, quando, invece, “si provasse” – come appunto pare accettare la Corte con la sentenza n.93/2011- che lo stesso è “sbagliato”, cioè inattendibile rispetto alle consolidate risultanze della scienza economica?
E’ arduo negare che la Costituzione, laddove depotenziata nei suoi contenuti fondamentali, debba arrestare la sua garanzia dei diritti fondamentali, solo perché entri in gioco una qualunque disposizione che sancisca un compito governativo-legislativo nel campo della gestione del bilancio pubblico, se tale “compito”, – svolto in base ad “una” dottrina economica, divergente da altre “prevalenti”-, concretamente produca “effetti” di “svuotamento” risultanti da dati e nessi causali dotati di obiettiva evidenza.
Ancor prima, una o più leggi, che, nella vigenza del precedente testo dell’art.81 Cost. (cioè in assenza dell’obbligo di “pareggio”), perseguissero, o provocassero (ma vedremo che la diligente comprensione dei principi economici attenua tale distinzione) questi stessi effetti, sarebbe costituzionalmente illegittima, sebbene àncorata a enunciati, testuali o extratestuali, rapportati allo stesso fine di “consolidamento” del bilancio.

IV- IL CONTRASTO INTERNO ALLO STESSO ARTICOLO 97 DELLA COSTITUZIONE, INTRODOTTO DALLA LEGGE COSTITUZIONALE 20 APRILE 2012, N.4, ALLA LUCE DEL CRITERIO DI RAGIONEVOLEZZA-ATTENDIBILITA’.

Il problema è di tale importanza, che persino altre modifiche entrate in vigore con la stessa “revisione” costituzionale che ha condotto alla nuova formulazione dell’art.81 Cost., assumono un senso piuttosto che un altro a seconda del concetto e della dottrina economica che si possano accertare come “attendibili”.
Ci riferiamo all’art.97 Cost., “nuovo” comma 1, che, nel testo introdotto, (sempre dall’esercizio finanziario 2014), dall’art.2 della l.costituzionale 20 aprile 2012, n.1, recita: “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”.
La disposizione pone una serie pressocchè infinita di problemi di ordine costituzionale. Si pensi solo che “l’equilibrio dei bilanci”, se assunto come pareggio, o anche solo riduzione dell’indebitamento al livello -0,5 punti di PIL, assunto dall’ordinamento dell’Unione europea, in base alla dottrina economica di gran lunga prevalente (che verrà più oltre esaminata più in dettaglio), non ha alcuna univoca correlazione con la “sostenibilità del debito pubblico”, che dipende piuttosto dal livello di crescita del PIL in relazione alla dinamica dello stesso indebitamento annuale.[4]
Questa chiara relazione tra crescita e sostenibilità del debito (che modifica nel lungo periodo il rapporto deficit/PIL e rende scientificamente irrilevante considerare staticamente l’ammontare assoluto del debito stesso), non solo proietta l’ombra della incostituzionalità sulle leggi che, in precedenza, in situazione di stagnazione o diminuzione del PIL, abbiano perseguito la riduzione dell’indebitamento, ma fa emergere un’aporia all’interno dello stesso art.97 nuovo testo.
Si prospetta, cioè, un conflitto tra simultanei enunciati costituzionali risolvibile solo accedendo a una “peculiare” teoria economica, i cui effetti, però, come vedremo, non solo stanno producendo dati macroeconomici contrari alla finalità di raggiungere la sostenibilità del debito o, quantomeno, alla sua stabile riduzione, ma che, com’è comprovabile dai rilievi effettuati dalla pressoché unanime platea degli economisti più prestigiosi, non ha mai sortito effetti utili ai fini della “stabilità finanziaria”, (di cui la sostenibilità del debito sarebbe, in assunto, frettolosamente costituzionalizzato, uno strumento “prioritario”).
Spieghiamoci meglio: in linea logica, il debito si stabilizza in rapporto al PIL (cioè non cresce più oltre una certa soglia), allorchè esista un certo livello di crescita del PIL “nominale” prossimo “allo”, (o ovviamente maggiore “dello”), stesso livello dell’indebitamento in rapporto al PIL (crescente), e ciò anche scontando un certo crescente onere degli interessi (che tenderà a scemare solo in caso di crescita), sia in termini di livello assoluto che in rapporto al PIL, via via che ci si approssima alla “situazione di stabilizzazione” (matematica). Questa dinamica, in sé, rende il “debito pubblico” sostenibile.E’ chiaro che non ha alcun senso porre un limite, “retroattivo” e “astratto”, alla stabilizzazione di tale rapporto debito/PIL, assumendolo, come il trattato di Maastricht, in una arbitraria misura del 60% che in sé non è affatto collegata ad alcuna garanzia di sostenibilità del debito, né tantomeno ad una stabilità finanziaria univocamente prevedibile, trascurando del tutto l’aspetto della compatibilità di ciò con la concomitante crescita.
Tant’è che assumendo questo arbitrario e inconsistente “postulato” del limite al 60%, ne viene come corollario (di stretta derivazione) che, in situazione di crisi finanziaria dovuta a congiuntura originariamente “internazionale”, la riduzione a questo limite debba essere realizzata attraverso il pareggio di bilancio, senza tener conto, in ancor maggiore misura della compatibilità di ciò con la crescita [5](e quindi con la possibilità di effettuare investimenti e consumi pubblici e privati, dal cui livello dipende l’occupazione, mentre lo stesso Stato “disattiva” la possibilità finanziaria di realizzare i propri compiti previsti dalla Costituzione e involgenti la tutela e garanzia dei diritti fondamentali stessi.
Invece, il pareggio di bilancio, (anche nella sua forma tendenziale, prossima a indebitamento “zero”, come per il -0,5 “europeo”, rectius UEM), in realtà tende nel tempo a un ulteriore effetto “teorico”, (niente affatto sicuro, dato che non esistono nemmeno le condizioni teoriche per l’effettiva realizzazione dell’obiettivo, come si vedrà in seguito): cioè all’azzeramento del debito (uno stock, mentre l’indebitamento è un flusso che, cumulandosi nel tempo, a un dato momento di periodico di determinazione, dà luogo allo stock medesimo).
Per ottenere questo effetto, però non bisogna dimenticare che l’indebitamento è correlato in relazione di “bilancio” (cioè i valori considerati danno luogo nel loro insieme a 0), a due altri valori-saldi di flusso rapportati al PIL: il saldo del “risparmio privato” e il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Come vedremo anche in seguito, la relazione tra questi saldi, detti “settoriali” è tale, in presenza di “pareggio di bilancio”, che solo ipotizzando un valore di equilibrio, cioè prossimo allo zero, ovvero di surplus (cioè positivo) delle partite correnti, può aversi un risparmio privato “non negativo” o comunque “positivo”. Il che è del tutto intuitivo.
Quindi, se l’indebitamento è pari a zero (o prossimo ad esso), ma invece la bilancia dei pagamenti registra un saldo negativo, potrò avere ciò solo a costo di un equivalente contrazione di consumi, investimenti e occupazione (effetto inscindibile dal trend negativo del risparmio), ragion per cui, aritmeticamente, il PIL calerà.
Le stesse osservazioni valgono, peraltro, non solo nel caso “estremo” di perseguimento del pareggio di bilancio, ma anche solo in relazione all’abbassamento dell’indebitamento stesso, perseguito, come nell’attuale fase congiunturale, nella duplice condizione di deficit da indebitamento estero e di connessa crescita negativa o prossima allo zero del PIL.[6]
E non solo, ma il segno negativo e prolungato degli investimenti tenderà a rendere ancor più negativo, nel medio-lungo periodo, il saldo della bilancia dei pagamenti. Ciò in quanto avrò perso impianti, non rinnovati e non costituiti “ex novo”, e anche “innovazione” e connesso abbassamento dei costi sul lato dell’offerta-produzione. Ampliandosi, inevitabilmente la disoccupazione (che dipende dal flusso degli investimenti produttivi).[7]
Col risultato che, o questi investimenti dovranno provenire dall’estero, mediante acquisizione della proprietà delle imprese in capo gli investitori esteri, che porteranno nel paese di origine profitti e interessi sui capitali prestati, (con aggravio della partita redditi del saldo corrente della bilancia dei pagamenti), ovvero si avrà semplicemente, nella migliore delle ipotesi, una minor produzione, in più tendenzialmente “obsoleta”, e quindi in crescente debolezza competitiva, tale da aggravare comunque il saldo delle partite correnti e la stessa disoccupazione.
Questi gli effetti del pareggio (ancorchè tendenziale) di bilancio sull’economia reale. Ovviamente, caduti consumi e investimenti e prospettandosi, nel medio-lungo periodo, un connesso ed inevitabile deficit della bilancia dei pagamenti, avrò una corrispondente e stabile diminuzione del PIL, la caduta delle entrate pubbliche per contrazione della base imponibile (il PIL stesso), l’aumento del rapporto debito/PIL, l’allontanamento della sua sostenibilità, con un crescente pericolo di ulteriore aggravamento dell’onere degli interessi (la prolungata recessione porta infatti a dubitare della restituibilità del capitale e a innalzare il livello degli interessi sul debito per compensare tale maggior rischio)
Notare che questo è proprio il fenomeno che stanno provocando le politiche di forzosa riduzione dell’indebitamento, fino al suo azzeramento, perseguite sotto l’egida dell’Europa, e accolte praticamente senza alcuna resistenza dai governi italiani, rammentando che il lieve miglioramento della bilancia dei pagamenti registratosi nel 2012, è dovuto al pesante calo dei consumi (e investimenti, rispetto a beni strumentali), e costituisce quindi un mera “fiammata”, legata alla recessione, laddove, nel medio-lungo periodo, questo calo, per varie concorrenti ragioni, come abbiamo visto, riporterà in alto il valore del deficit della b.d.p. stessa.
Ed, infatti, USA e Giappone, nei rispettivi sistemi macroeconomici, stanno perseguendo, com’è logico in situazione di congiuntura sfavorevole (indipendentemente dalle rispettive cause strutturali), politiche del tutto diverse da quelle delle ricerca dell’azzeramento dell’indebitamento e della riduzione del debito pubblico, che non possono avere mai effetti anticongiunturali in crisi determinate da calo della domanda aggregata, rivelandosi piuttosto pro-ciclici e semmai ampliativi della fase recessiva.
V- LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUGLI INTERROGATIVI SOLLEVATI- SINDACATO “DI SISTEMA” E SINDACATO SU SINGOLE LEGGI ECONOMICO-FINANZIARIE.
Questo primo rapido excursus, ci consente di capire, in prima “evidenza”, come e perché, la “stabilità finanziaria” e la stessa sostenibilità del debito, impostata dalla prevalente dottrina economica, hanno dei parametri diversi e avulsi dal pareggio di bilancio.  Dunque, che quest’ultimo possa, in ipotesi, costituire uno strumento non solo di sostenibilità del debito ma pur anche di sua “migliore” stabilizzazione e, più in generale, di stabilità finanziaria -anche privata, bancaria, dato che caduta del risparmio e dei consumi provocano diffusa insolvenza e drammatico ampliamento delle “sofferenze”-, non è un assunto ritenuto “attendibile” dalla comunità scientifica, di gran lunga prevalente, degli economisti.
Riassumiamo gli interrogativi fin qui posti: di fronte a norme di legge, ma anche di revisione costituzionale, che violino “manifestamente” il principio di ragionevolezza, quale connotato in concreto dalla “attendibilità” delle scelte effettuate, cioè dallo stato consolidato delle conoscenze della comunità scientifica degli economisti, la Corte costituzionale potrebbe rifiutarsi di considerare tale profilo, in base a considerazioni meramente estrinseche relative alla formulazione dei “fini” delle norme stesse? Cioè rifiutando, alla luce del “sintomo” plateale, reso dai “fatti” della caduta della domanda e del peggioramento stesso dei conti pubblici, sintomo, cioè, “logicamente manifesto”, di verificarne la ragionevolezza sotto il profilo della predetta “attendibilità”?
E anche accogliendo l’aporia di alcuni fini “accettabili” rispetto ad altri configgenti (ad es; divieto di indebitamento in contrapposizione alla più ragionevole “sostenibilità del debito pubblico”), avrebbe l’attitudine a sindacare la coerenza dello strumento (equilibrio entrate/spese, cioè “pareggio”) rispetto al fine (sostenibilità del debito), quando ciò non sia SOLO IRRAGIONEVOLE ma, al tempo stesso, provochi proprio (e non solo “sbagli a correggere”) una congiuntura economica (prolungandola pure) che conduca alla sistematica violazione del contenuto “minimo” essenziale di molti dei diritti costituzionali riconducibili ai principi non revisionabili che caratterizzano la forma repubblicana ai sensi dell’art.139 Cost.?
La Corte dovrebbe assumersi una tremenda responsabilità.
E non varrebbe ad evitarla, abbiamo visto al par.III, ripararsi dietro l’origine europea delle norme nazionali devolute al suo sindacato. Anche se sarebbe meglio dire origine “UEM”; cioè riservata ai “paesi la cui moneta unica è l’euro”,.
Tale profilo, in particolare, non potrebbe mai assolvere dal suo compito la Corte se solo si ponga mente al dettato dell’art.11 Cost., per il quale, non solo la partecipazione all’Unione europea, e “a fortiori” a quella monetaria, è conforme a Costituzione solo nel caso in cui rispetti le condizioni del perseguimento della “pace e della giustizia tra le Nazioni” e “in condizioni di parità” con queste medesime. Mentre invece, gli effetti delle politiche “pattizie” UEM minacciano il substrato economico-sociale della Nazione, e provocano la più acuta asimmetria dello strumento monetario unico adottato, bel lungi dal garantire le condizioni di parità. Asimmetria che, si badi bene, è insita nella moneta unica, non solo per come concepita, ma anche per come successivamente “attuata”, data la politica di imperialismo mercantilista che la Germania ha pacificamente intrapreso per sfruttare i meccanismi dei differenziali di inflazione, operando una “svalutazione competitiva”, in violazione dei già labili obblighi di coordinamento tra Stati previsti dai trattati[8].Ma vediamo come si esprime sui punti fin qui sollevati la Corte costituzionale.
Di recente, la nota sentenza n.223 dell’11 ottobre 2012, ha stabilito la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni finanziarie dettate dall’esigenza di ridurre l’indebitamento, su “spinta” delle risoluzioni politico-economiche imposte dal vincolo europeo, UEM specificamente.
La materia devoluta alla Corte riguardava il blocco degli incrementi stipendiali per i magistrati, accompagnato non solo da tale “raffreddamento” retributivo, ma anche dalla negazione di “qualsiasi recupero” della progressione impedita, e quindi determinando quello che la stessa Corte definisce come un “effetto irreversibile”. Per la Corte, l’intervento censurato, oltre a superare i limiti costituzionali indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, che collocava in ambito estremo una misura incidente su un solo anno, travalica l’effetto finanziario voluto, trasformando un meccanismo di guarentigia in un motivo di irragionevole discriminazione”.
La Corte, infatti, nell’affrontare lo stesso punto di diritto, aveva prima affermato (effettuando un doppio richiamo di propri precedenti):
In particolare, l’ordinanza n.299 del 1999, premesso che il decreto-legge 19 settembre 1992, n.384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali),…, era stato emanato in un momento molto delicato per la vita economico-finanziaria del Paese, caratterizzato dalla necessità di recuperare l’equilibrio di bilancio, ha affermato che <<per esigenze così stringenti il legislatore ha imposto a tutti sacrifici anche onerosi (sentenza n.245 del 1997) e che norme di tale natura possono ritenersi non lesive del principio di cui all’art.3 della Costituzione (sotto il duplice aspetto della non contrarietà sia al principio di uguaglianza sostanziale, sia a quello della non irragionevolezza), a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso>>.
In particolare, la pronuncia ha precisato che tale intervento, <<pur collocandosi in ambito estremo, non lede tuttavia alcuno dei precetti indicati, in quanto il sacrificio imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art.7 è stato limitato a un anno: così come limitato nel tempo è stato il divieto di stipulazione di nuovi accordi economici collettivi, previsto dal comma 1 dell’art.7 e che, quindi, tale norma ha imposto un sacrificio non irragionevolmente esteso nel tempo (sentenza n.99 del 1995), né irrazionalmente ripartito tra categorie diverse di cittadini”.
Una prima notazione di carattere logico-generale: la Corte dovrebbe interrogarsi sul rilievo “sistematico” del tipo di sindacato in materia finanziaria pubblica, che verrebbe chiamata a esprimere sulle relative leggi emanate da venti anni a questa parte. Non può, cioè, considerarsi “fisiologico” e conforme al disegno costituzionale assunto pur esso in modo sistematico (e di cui sono riassuntive le norme chiave degli artt.1-4 Cost.) che “il Paese” viva da 20 anni, e pur sotto governi espressi da diverse maggioranze politiche, sotto una costante “delicatezza” della sua “vita economico-finanziaria”.
Il protrarsi e, anzi, l’acuirsi di tale “emergenza”, che porta infatti a tradurre costantemente la politica economico-finanziaria, nell’adozione di decreti-legge, dovrebbe indurre un esercizio induttivo, basato sulla “non sporadicità” di tale reiterazione e sulla impressionante continuità della “delicatezza emergenziale”, dato che soltanto considerando singulatim le singole leggi, si può evitare di scorgere ciò che, invece, è sotto gli occhi (e nella vita) di tutti gli italiani: l’avventura di Maastricht e, quindi, della moneta unica, non “vincola” la Nazione italiana solo in un modo strettamente strumentale al raggiungimento di obiettivi di crescita e benessere diffusi –come invece dispone inequivocabilmente la Costituzione nei suoi principi fondamentali e nei suoi precetti “corollario”.
Quei  principi fondamentali cioè che, secondo una lettura appunto sistematica della Carta, dettano disposizioni continuamente e costantemente “ristrette” e progressivamente limitate nella loro portata, rispetto al precedente livello di tutela e attuazione costituzionale, com’è accaduto in materia retributiva, previdenziale, assistenziale, sanitaria, di tutela del risparmio e di accessibilità a tutti della proprietà dei beni aventi una funzione sociale.
La “avventura” (in tutti i sensi) di Maastricht, piuttosto, offre, proprio sul piano della legislazione in questione, un quadro eloquente che il benessere della comunità nazionale, e la sua crescita, non sono obiettivi di un trattato UE (ora TUE e TFUE) che si incentra tutto su concetti, come “stabilità dei prezzi” e, di recente in modo crescente, “stabilità finanziaria” (criterio guida che parte dalla fine del 2010, con la proposta della Commissione di emendare i regolamenti 1496 e 1467 del 1997, passa per il c.d “SixPack”, approda, nel 2011, nel Patto di stabilità e crescita, emendativo degli artt.121 e 126 del TFUE e nei regolamenti correlati 1175/2011 e 1177/2011, sotto il nome complessivo di “Fiscal compact”), che sono considerati a realizzazione prevalente, se non incondizionata, su ogni altro valore sancito nella Costituzione italiana.
Ciò al punto che la “mediazione” tra questi valori e i “vincoli europei” non solo appare difficile se si considera, come nel caso commentato, una singola legge in materia economico-finanziaria, pur sempre intitolata direttamente o indirettamente alle situazioni createsi a seguito dell’adesione alla moneta unica – come comprova la estraneità a queste emergenze dei paesi UE non aderenti alla UEM!-, ma conduce alla cessione della sovranità ben al di là di quella monetaria, già in sé altamente opinabile dal punto di vista macroeconomico, per privare sostanzialmente e stabilmente il governo democratico italiano della stessa “sovranità fiscale”.
Effetto, quest’ultimo, che non risulta programmato nei Trattati, che parlano di mero coordinamento delle politiche economiche, fiscali e sociali, ma che se anche lo fosse, non potrebbe mai risultare conforme ai presupposti dell’art.11 Cost., correttamente intesi, mancando totalmente il quadro economico-istituzionale che potrebbe consentire una tale perdita di sovranità con la coeva garanzia di tutela dei valori fondamentali della Costituzione.
In proposito basta leggersi l’art.3 del TUE che apre ad enunciati di promozione del “benessere dei popoli”, al paragrafo 1, per contraddirli in modo inequivocabile attraverso le successive clausole dei paragrafi successivi, dove la “economia sociale di mercato fortemente competitiva” e la “stabilità dei prezzi” precedono, lessicalmente e ideologicamente, la “piena occupazione” e il “progresso sociale”, parametri, questi ultimi, contraddetti, o meglio “neutralizzati”, dalla assoluta prevalenza de facto data ai primi. Tant’è che i detti parametri risultano, assenti da qualsiasi risoluzione dotata di “effettività” adottata dalle istituzioni europee in successiva applicazione dei trattati[9].
Questi ultimi hanno finito per essere letti sempre e soltanto come se le clausole di “piena occupazione” e “progresso sociale” fossero “non apposte”, in ossequio ad un’ideologia in cui il trattato è letto, dalle sue istituzioni ufficiali, non per trovare una sintesi/bilanciamento di valori, già in partenza molto problematica, ma risolvendo per “drastica resecazione” ogni traccia normativa di principio che potesse dare “problemi” alla realizzazione degli obiettivi, ideologici, considerati prevalenti. E senza alcun dibattito democratico, all’interno dei paesi che spiegasse e rendesse consapevole l’adesione a questa visione frontalmente confliggente con le Costituzioni democratiche europee del 2° dopoguerra.
E non a caso, la “interpretazione autentica” – in senso assolutamente improprio, data la natura politica limitativa della sovranità dei trattati che ascriverebbe piuttosto il potere normativo primario ai popoli sovrani “ratificanti”-, in questa direzione è stata prevalentemente fornita non da giuristi formati sulle tradizioni di queste costituzioni democratiche, ma da una ristretta cerchia di “tecnici” investiti delle supreme funzioni di governo dell’UEM ed appartenenti, culturalmente e professionalmente, alla sfera dei banchieri e degli economisti finanziari (come quelli che non solo compongono i boards della BCE ma anche incaricati, nei vari paesi aderenti, delle funzioni di ministri economici o di commissari UE).
Ma tornando alla visione espressa dalla nostra Corte costituzionale, è interessante “astrarre” dalle affermazioni della stessa per enucleare una serie di principi-guida che facciano comprendere la compatibilità costituzionale, allo stato, delle varie leggi in materia economico-finanziaria (isolatamente considerate, il che sottrae, alo stato, la decisiva visione “di sistema” a cui si è sopra fatto riferimento).
Allora è ipotizzabile da parte della Corte, in base alle sue affermazioni, un “test” di ragionevolezza, in definitiva implicitamente portato sulla “attendibilità” tecnico-finanziaria (non menzionata ma, di fatto, sindacata), nei seguenti termini:
a) la necessità di recuperare “l’equilibrio di bilancio”  non ha una prevalenza incondizionata sulle previsioni e gli interessi tutelati dalla Costituzione. Ciò in quanto, da un lato, tale principio non è rinvenibile tra quelli supremi della Carta, dall’altro, trova una ragion d’essere, sempre e comunque, nella esigenza “emergenziale” (nella stessa considerazione della Corte) di correggere squilibri economici “contingenti” e temporanei, a prescindere dalle loro “cause efficienti”;
b) ciò vale anche se “l’equilibrio di bilancio” venga costituzionalizzato, se ne deve dedurre, in quanto non è pensabile neppure a fronte di questa “revisione costituzionale”, per definizione meno “forte” della Costituzione originaria che racchiude i principi fondamentali, la sua prolungata attuazione con misure di sacrificio che possono avere solo carattere di transitoria eccezionalità. E, d’altra parte, l’art.81 Cost., nuova formulazione, sopra vista, non solo “consente”, ma, in virtù dello stesso principio di ragionevolezza, “impone” al governo-parlamento di “tenere conto delle fasi avverse…del ciclo economico”;
c) tale ultima locuzione, porta un effetto sicuramente trascurato dal neo-legislatore costituzionale: le fasi avverse del “ciclo economico” non possono essere determinate dalle politiche di “riequilibrio” finanziario in se stesse, dato che la Costituzione non autorizzerebbe mai una deliberata distruzione di reddito nazionale prolungata fino al punto da determinare, per sua forza autonoma, un ciclo economico “negativo”, come si sta ora verificando, – e come attesta la stessa revisione dei presupposti economici considerati operata da Commissione, Ufficio studi BCE e FMI;
d) in questa ottica ora evidenziata, particolarmente importante, la Corte ritiene rispettoso della “uguaglianza sostanziale” e della “ragionevolezza” cui devono necessariamente corrispondere le leggi in materia economico-finanziaria, solo “sacrifici eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso”;
e) lo stesso neo-articolo 81 Cost., nel predicare che il ricorso all’indebitamento sia consentito “al verificarsi di eventi eccezionali”, assume necessariamente e logicamente anche una inversa previsione: il pareggio di bilancio, ossia l’azzeramento sostanziale dell’indebitamento, non può essere esso stesso causa e effetto di “eventi eccezionali”, cioè le politiche di “equilibrio” stesse non possono essere perseguite “ad ogni costo” e contro la logica delle dinamiche più scientificamente consolidate della politica finanziaria fiscale ed economica in genere;
f) quanto affermato con le decisioni citate dalla Corte con riguardo ai pubblici dipendenti, non può che trovare automatica applicazione (parità di trattamento anche solo formale) anche alle altre “categorie di cittadini” di volta in volta interessati dai sacrifici imposti (es; pensionati alla luce dell’art.38 Cost., lavoratori dipendenti alla luce dell’art.36 Cost., mutuatari per l’acquisto della abitazione familiare alla luce dell’art. 42, comma 2, Cost.);
g) i sacrifici imposti devono essere “consentanei allo scopo prefissato”, cioè in relazione di “conformità”, “corrispondenza” rispetto al “fine”, aprendosi così un sindacato sulla “adeguatezza” dello strumento di politica economica-finanziaria in concreto adottato, come conseguenza inevitabile del principio di ragionevolezza;
h) esso trova altresì rafforzamento nei principi di “proporzionalità” e “sussidiarietà” di cui all’art.4 del TUE, dato che, per essere “conforme” al suo scopo, uno strumento di politica economico-finanziaria non può non solo imporre sacrifici maggiori dei benefici che si interebbero perseguire, ma neppure lo può fare laddove, ad altri livelli di governo, esistano diversi e più adeguati strumenti di perseguimento del medesimo scopo. Meccanismo “inglobabile” all’interno della previsione dell’art.3 Cost. (rafforzato, in combinato disposto, dai principi europei…per una volta) in molti casi.
Ad esempio, si pensi a come il sacrificio imposto alla tutela del lavoro, depotenziandone la stabilità ed accentuandone la precarietà, al fine di diminuire il potere contrattuale dei lavoratori ed ottenere livelli salariali inferiori (in obiettivo “deflattivo” secondo la “Curva di Philips”, v. infra), e una  presunte maggior competitività, possa essere invece sostituito, nell’ambito dell’area UEM, attraverso quelle adeguate politiche di “trasferimenti” a carico di un “bilancio federale”, elemento che la teoria della “aree valutarie ottimali” indica come precondizione indispensabile della loro sostenibilità e che, invece, non sono state previste dal trattato di Maastricht, in vista della correzione degli inevitabili squilibri/asimmetrie (inflattivi e poi commerciali) di cui si è dianzi parlato.[10]
VI- RAGIONEVOLEZZA, ATTENDIBILITA’ E PROVA LOGICO-SCIENTIFICA DI QUEST’ULTIMA- INTERROGATIVI E RISPOSTE SECONDO UN CRITERIO DI “RILEVANZA”.
A fronte di un quadro così complesso di aspetti concomitanti, in relazione al preliminare problema della legittimità costituzionale, quale precisata dalla stessa Corte, della legislazione economico-finanziaria, e degli strumenti che, in relazione di coerenza logica e” consentaneità”, possano essere ritenuti ragionevoli e attendibili, proviamo a formulare un quadro di interrogativi, rilevanti secondo una linea logica comune ai giudizi costituzionali del genere qui esaminato, al fine di definire la sequenza ragionevolezza-attendibilità in termini corrispondenti alle conoscenze più condivise e accettate come razionali dalla comunità scientifica degli economisti.
I quesiti sono formulati in termini di “punti rilevanti” della questione, cioè come presupposti di una serie “aperta” delle varie eccezioni di illegittimità costituzionale proponibili rispetto alle leggi in materia economico-finanziaria e intersecanti, oltre al precetto dell’art.3 comma 2, i diversi parametri costituzionali di volta in volta attinti, quali più sopra esemplificati.
Alle formulazione-risposta dei quesiti, si fanno precedere alcune osservazioni, anticipatrici del senso attribuibile al vaglio di “attendibilità”, aggiuntive rispetto a quelle anticipate nella esposizione che precede[11].
L’influenza del “monetarismo”, teoria sviluppata dall’economista americano Milton Friedman (c.d. Scuola di Chicago), nonché di Von Hayek, fiero avversario dello “Stato sociale”, in nome di una sua incapacità a sostenere l’indispensabile adattamento evolutivo della società (darwinismo c.d. “sociale”) e visto come espressivo di una democrazia “degenerata” in collettivismo inefficiente, pervadono i gangli della costituzione europea.
Guardando nel dettaglio, in base ai riferimenti in seguito esposti, questi assunti, a prima vista razionali, rappresentano invece una concezione distorta delle problematiche e delle priorità economiche che una Unione di popoli dovrebbe perseguire.
Innanzitutto la stabilità finanziaria di un paese, non passa dal rapporto debito pubblico/PIL, ma dalla relazione debito estero/PIL.
A dirlo naturalmente non siamo noi, ma, in uno studio condotto per il Fondo monetario internazionale, Nouriel Roubini, ed uno studioso italiano, Paolo Manasse,[12] i quali affermano che un paese possa andare incontro ad una prossima crisi finanziaria se supera il rapporto debito estero/PIL pari a circa il 55% (tabella 6 studio cit.); inoltre, in un altro paper Bartolini e Lahiri[13] definiscono che di norma ad indebitarsi con l’estero, solitamente e per la maggior parte dei casi, non è il settore “pubblico” come inducono a credere le analisi degli “euro-burocrati”, ma quello privato per ben due terzi.
Notiamo bene che, a questo punto, i parametri di Maastricht risultano, a dir poco, “eccentrici”. Stabilità finanziaria ed economica, così, passano da questi assiomi, come sottolineato da tali autori, e non di certo dai parametri indicati dai Trattati di Maastricht.
In merito alla stabilità dei prezzi, quindi al parametro di inflazione del 2% fissato dalla BCE, proponiamo una riflessione. Innanzitutto, qual’è la definizione di inflazione: essa è il tasso di variazione di un indice aggregato di prezzo opportunamente scelto.
Come si calcola? Si prende un paniere di prodotti definiti a priori e che viene mantenuto costante nel tempo (inserendo ciclicamente nuovi articoli al posto di altri poco utilizzati), si registrano prezzi e quantità consumate ogni anno, e grazie ad essi ci si costruisce un indice, che varierà da un anno all’altro.
Questo tasso di variazione è appunto l’inflazione, che viene calcolata con una semplice formula: indice dei prezzi al consumo dell’anno 2 a cui sottraiamo l’indice dei prezzi al consumo dell’anno 1, la cui differenza viene divisa per l’indice dei prezzi al consumo dell’anno 1.
Con questa semplice dimostrazione[14], abbiamo iniziato a rispondere sia al quesito sulla stabilità dei prezzi, che indirettamente alla domanda riguardante la massa monetaria che causa inflazione.
Innanzitutto stabilità dei prezzi nel tempo significa innescare due rischi sistemici: a) scoraggiare la produzione dal lato dell’offerta, poiché un imprenditore sarà costretto a fornire beni a prezzi quasi costanti, con costi di produzione (tipicamente, materie prime) tendenzialmente crescenti, assottigliando così i margini e portando al rischio sistemico aziendale;
b) tale “stabilità”, rigidamente intesa, scoraggia pure la domanda, poiché un consumatore sarà allettato ad “aspettare” di acquistare i prodotti di suo interesse al momento più opportuno, in quanto saprà che “domani” essi costeranno di meno.
La moneta e la sua quantità (ipoteticamente controllata dalla banca centrale), fondamenti della teoria di Friedman, non entrano in questa “corretta” determinazione del livello dell’inflazione: ciò perché i prezzi dei prodotti che completano il paniere, ad esempio, dell’Istat non sono “fatti” dalla moneta, ma il risultato di un processo composto dai costi per produrli. Ed i fattori produttivi appunto, pesano sul prezzo di un bene, non di certo la moneta, che non centra nulla poichè, se così vogliamo dire in semplicità, essa misura il “valore” (condivisibile di scambio) di un determinato bene.
A corollario, va aggiunta, pure la normale influenza della legge della domanda e dell’offerta (quasi una “legge di gravità” dei rapporti economici, da essa infatti non si può scappare). In pratica: un bene più è domandato, più il suo prezzo cresce. Accade il contrario se il bene non è richiesto: il suo prezzo cala per “trovare” la domanda del cliente.
L’inflazione quindi dipende anche da quanto un bene è domandato e, perché no, anche dal livello di tassazione sul consumo e, in generale, c.d. “indiretta” (una crescita dell’aliquota IVA causa fisiologicamente un aumento dei prezzi).
Al riguardo, perciò, va precisato che l’assunto che la Banca Centrale “stampando” moneta per lo Stato a “suo piacimento” (come pure sostengono i c.d. Chicago Boys) crei inflazione non tiene conto di una cosa:1) che la banca centrale fornisce la liquidità RICHIESTA dal sistema (c.d. natura “endogena” della moneta) secondo le esigenze del sistema stesso[15];
2) che l’indipendenza della banca centrale è una soluzione istituzionale che inizia a prendere piede verso la metà degli ‘70 (ed ora subisce molte critiche[16] da parte di numerosi economisti, che vorrebbero ripensare questa presunta indipendenza poiché dannosa per il sistema) per combattere l’inflazione (sopra abbiamo visto cosa essa sia in realtà) causata, secondo il pensiero c.d. main-stream del tempo (ma sempre attualissimo nella BCE-Bundesbank), dallo Stato “inefficiente” (quale criticato da Von Hayek) che appunto stampava moneta e quindi “creava” inflazione. Un nesso che abbiamo visto essere molto labile, ma che al tempo fece molta presa, su gran parte del mondo occidentale e non.
Paradossalmente, com’è noto, l’inflazione, sul volgere degli anni ’70, c’era ed era alta. Poi calò. Merito della Banca Centrale indipendente? Non proprio.
Se ci mettiamo nell’ordine di idee che quei tempi furono i famosi anni degli shock petroliferi (ricordate? la guerra dello Yom Kippur del ‘73, la rivoluzione in Iran del ‘79), capiamo perché l’inflazione, sospinta dai prezzi petroliferi, fosse alta, e afferriamo il concetto che se il prezzo del greggio in quegli anni triplicava o quadruplicava, trascinava con sé anche i prezzi al consumo.
La conseguente sua discesa verso la metà degli anni ’80 – il prezzo dei prodotti petroliferi ritornò quasi ai livelli degli anni ’60 – coincise con una generale “ritirata” del fenomeno inflazione…ecco perché, come meglio vedremo in seguito, può parlarsi di “fortuna”: le banche centrali indipendenti, nonostante i “disastri sociali” targati Thatcher e Reagan rispettivamente negli USA e UK, sembrarono essere il “toccasana” contro l’inflazione, mentre la realtà economica, e dei dati, confuta questo scenario collegandolo ad una causa di “costo” [17].
Possiamo ora affrontare i quesiti dianzi “preannunziati” e compiere una ricognizione in termini di attendibilità, e quindi di ragionevolezza, dei presupposti e delle finalità che hanno guidato, quantomeno a partire da Maastricht, gran parte della politica economico-finanziaria italiana.
VI.1- Primo quesito: Cos’è la “stabilità economica”, ovvero la stabilità “finanziaria”, in connessione alla più comprensibile “stabilità dei prezzi”?[18]
“Riguardo al concetto di “stabilità finanziaria” non esiste una definizione univoca sebbene siano ormai numerosi gli studi volti ad individuarne una.
Il concetto di instabilità finanziaria parte dal contributo di I. Fisher (1929) sulla “debt deflation[19], secondo cui le fasi di instabilità finanziarie (derivanti da scoppio di bolle dei prezzi di attività) derivano da eccessive accumulazioni di debito e determinano conseguenze non solo per il sistema finanziario nel suo complesso ma anche per l’economia reale, secondo il percorso deflazione-liquidazione assets- aumento tassi di interesse-restrizione credito- chiusura e fallimento imprese- disoccupazione.
Il concetto viene ripreso ed ampliato da H. Minsky (1960 ; 1970 ) che partendo dall’analisi keynesiana delle decisioni in condizioni di incertezza, definisce vari tratti di quella che lui chiama la financial instability hypotesis. Secondo Minsky il sistema economico raggiunge equilibri molto fragili, basati su considerazioni prese in condizioni di incertezza. Il variare di tali considerazioni determina uno spostamento dell’equilibrio verso una fase di crisi che può provocare un’instabilità finanziaria. La crisi è tanto più acuta quanto più alto è il livello di indebitamento raggiunto dagli operatori.
Riguardo sempre al concetto di eccessivo indebitamento e quindi alle situazioni di squilibrio nei bilanci degli agenti economici come causa di instabilità e crisi finanziarie è il contributo di Bernanke e Gertler[20] del 1987.
Riguardo invece al concetto di efficiente allocazione delle risorse è invece il pensiero di Mishkin (1999) secondo cui l’insorgere di instabilità finanziarie si ha quando il sistema funziona in condizioni di forte asimmetria informativa che non permette di allocare in maniera efficiente le risorse dando luogo a situazioni di adverse selection o all’opposto di moral hazard.
Anche secondo Schinasi (2004) l’instabilità finanziaria è legata alla incapacità del sistema di allocare il maniera efficiente le risorse. “A financial system is in a range of stability whenever it is capable of facilitating (rather than impeding) the performance of an economy, and of dissipating financial imbalances that arise endogenously or as a result of significant adverse and unanticipated events”
Secondo Allen e Wood (2005), invece il concetto di instabilità finanziaria non può ridursi esclusivamente a quello di efficiente allocazione delle risorse (per questo viene preso ad esempio l’URSS, sistema economico fortemente inefficiente ma che dal 1917 al 1991 non ha conosciuto fenomeni di instabilità finanziaria simili a quelli dei paesi capitalisti), ma deve far piuttosto riferimento ad una serie di qualità che hanno a che fare con uno stato di fiducia degli operatori nel sistema e nel suo funzionamento.
Quando la fiducia cessa il sistema presenta situazioni di instabilità. E’ il momento in cui viene a modificarsi il rapporto fiduciario tra gli operatori economici che determina l’insorgere di situazioni di instabilità (scoppio di bolla speculativa, credit crunch, trappola della liquidità, ecc..). Per questa ragione l’obiettivo principale della politica monetaria e della politica fiscale dovrebbe essere quello di garantire e preservare la fiducia nel funzionamento del sistema, evitando fenomeni (eccessiva concentrazione e possibilità di rischio sistemico, eccessiva erogazione del credito, formazione di bolle speculative) che possano compromettere la fiducia degli operatori.
Questo, però, a condizione che i fenomeni che compromettano realmente la fiducia degli operatori siano individuati correttamente e non in base ad una velatura “ideologica”, come dimostra la vicenda europea del concetto “anomalo” di sostenibilità del debito pubblico, trascurando quello estero e in generale privato, e cioè le stesse precondizioni per la crescita.
Come si può facilmente notare il concetto di stabilità finanziaria è quindi molto diverso da quello di stabilità dei prezzi, che può esser definita, riprendendo la frase di W. Duisenberg (2001) primo governatore della BCE, “monetary stability is defined as stability in the general level of prices, or as an absence of inflation or deflation”
VI.2- Secondo quesito: Perché si dà per scontato che l’aumento della massa monetaria influirebbe direttamente sull’inflazione? E’ scientificamente accettabile questa conclusione?
La relazione secondo la quale la massa monetaria influirebbe in maniera diretta sull’inflazione deriva dagli assunti base della teoria quantitativa della moneta e fa riferimento alla ormai nota relazione M*V=p*Y.
Lo studio di tale relazione da parte di M.Friedman e A. Schwarz nel 1963 in “A Monetary History of the United States, 1867–1960” ha portato a ritenere che riuscendo a controllare la quantità di moneta in circolazione si possa automaticamente tener sotto controllo il livello generale dei prezzi (considerando la stabilità della velocità di circolazione della moneta e reddito di lungo periodo).
Con il successo (il Nobel a M.Friedman) e la fama di tale teoria si sono avuti, tra la fine degli anni settanta e ottanta, due principali esperimenti di controllo della quantità di moneta in circolazione. L’esperienza disastrosa della FED (1979-1982) e quella della BOE (1979-1984), criticamente analizzate da N.Kaldor, dopo Keynes il più importante economista della Scuola di Cambridge,  in “How monetarism failed[21](1985). I danni (in termini di calo del prodotto e dell’occupazione) causati in quegli anni hanno poi portato all’abbandono, da parte della banca centrale americana ed inglese, della politica monetaria di controllo del tasso di crescita della quantità di moneta in circolazione.
La BCE invece opera ancora secondo il “doppio pilastro” associando ad obiettivi di tasso di interesse a breve anche quello di controllo della massa monetaria M3, salvo poi non riuscire mai fino ad oggi a rispettare quest’ultimo obiettivo. Alla veneranda età di 91 anni anche M.Friedman ammette di essersi sbagliato[22] (“The use of quantity of money as a target has not been a success……I’m not sure I would as of today push it as hard as I once did”)
Quindi se è di per se impossibile il controllo della moneta in circolazione, è altrettanto labile il legame tra la moneta ed il livello generale dei prezzi.
Dal punto di vista empirico (De Grauwe 2005, forse attualmente il più prestigioso economista europeo), non risulta nè nel lungo nè nel breve termine una significativa relazione tra crescita della moneta e crescita dei prezzi, almeno per le economie che non hanno manifestato fenomeni di high-inflation (superiore al 10%). Risulta inoltre molto lieve, se non assente, il legame tra crescita della moneta e crescita dell’output.
Dal punto di vista teorico Keynes scriveva: “… the money of account comes into existence along with Debts, which are contracts for deferred payment, and Price-Lists, which are offers of contracts for sale or purchase…. Money itself…derives its character from its relationship to the Money-of-Account, since the debts and prices must first have been expressed in terms of the latter…” (Keynes 1930, A Treatise on Money, p. 3) nel senso che prima viene determinato quello che è il prezzo di un bene e poi viene ad esser domandata la quantità necessaria di moneta per acquistarlo. Per cui se esiste una relazione tra moneta e inflazione è nel senso che è la crescita dei prezzi a guidare la crescita della quantità di moneta che serve per acquistare lo stesso bene, e non viceversa.
Riguardo poi al fatto su come e sul quanto le banche centrali siano state in grado di attuare politiche monetarie, di tasso d’interesse o di controllo della quantità di moneta, effettivamente influenti sulla stabilità dei prezzi, è interessante considerare la serie di studi condotti da L. Benati[23].
Secondo tali studi non solo la capacità della Fed e della Bank of England di controllare il tasso di inflazione negli ultimi 30 anni è stata dovuta essenzialmente al “good luck” (invece del “good policy” che viene generalmente riconosciuto alla politica monetaria di great moderation) ma addirittura l’autore rileva che se vi fosse stata la Bundesbank in U.S.A nel periodo post seconda guerra mondiale, la politica monetaria da essa adottata non sarebbe stata in grado di contrastare la pressione inflazionistica verificatasi negli anni ’70 (Benati 2009).
VI.3- Terzo quesito: E’ sostenibile che queste stabilità economica e finanziaria passerebbero “necessariamente” per il pareggio di bilancio?
Riguardo al concetto di stabilità finanziaria, ed al ruolo che in esso può rivestire la BCE, si fa comunemente riferimento agli strumenti di natura macroprudenziale che debbono essere adottati dalle principali Banche Centrali.
L’esplodere della crisi finanziaria in U.S.A. e successivamente in Europa ha dimostrato che limitare l’operato della Banca Centrale al controllo della stabilità monetaria ed affidare ad un’altra istituzione (centrale e locale) il controllo sulla stabilità finanziaria espone l’intero sistema ad enormi rischi.
L’emergere della crisi dei subprime in U.S.A. ha portato il consenso internazionale a ritenere non più sufficiente la funzione della banca centrale come semplice “guardiano della moneta” che opera in maniera indipendente col solo fine della stabilità dei prezzi. “I have found a flaw. I don’t know how significant or permanent it is. But I have been very distressed by that fact” così Greenspan sottolinea come gli assunti che hanno guidato il suo operato per 40 anni si siano rivelate se non sbagliate, almeno fallaci. Concentrare l’operato della Banca Centrale esclusivamente sulla stabilità dei prezzi[24] lasciando il mercato libero di regolarsi autonomamente è stata una delle cause della situazione di enorme instabilità del sistema.
In Europa si è intervenuti pertanto a livello comunitario istituendo un’organizzazione chiamata ESRB, “Consiglio europeo per il rischio sistemico” alla quali sia demandata, in partecipazione con la BCE, le Banche Centrali nazionali, e vari istituti di vigilanza, il controllo sulla stabilità finanziaria.
L’obiettivo è essenzialmente quello di monitorare attraverso una serie di segnali e di relazioni il grado di stabilità (e fiducia tra gli operatori) del sistema finanziario, cercando di porre una certa forma di controllo al rischio sistemico del too big to fail ed al carattere pro ciclico dell’attività svolta dagli intermediari finanziari.
In questo senso si inserisce anche tutta la normativa (e le conseguenti trattative) che riguardano la cosiddetta “vigilanza bancaria”, da esercitare da parte della BCE su tutte le banche dell’Eurozona, secondo quello che viene definito il sistema di vigilanza microprudenziale (Sistema Europeo delle Autorità di Vigilanza Finanziaria-ESFS) per distinguerlo dalla vigilanza macroprudenziale (che compete invece al ESRB)[25].
Nell’ottica di un maggior controllo e supervisione sui bilanci dei singoli Stati si inseriscono le normative introdotte a partire dall’inizio del 2011 che prendono il nome di Euro Plus Pact, Six pack e two pack.
Quanto al six pack[26]Le misure adottate mirano a rafforzare il Patto di stabilità e crescita, permettendo un controllo più rapido delle politiche fiscali e a innovare il sistema di governance con azioni preventive e azioni correttive. Le nuove misure introducono, inoltre, meccanismi che sorvegliano e prevengono una crescita smisurata dei debiti sovrani e del deficit negli Stati membri”.
Il six pack è stato perciò approvato con l’obiettivo di incidere con maggiore rilevanza sul bilancio dei singoli Stati imponendo il rispetto di più gravosi parametri in termini di deficit pubblico (0,5% strutturale, considerato cioè al netto di eventuali misure periodiche dipendenti dal ciclo economico).
Da tale accordo del dicembre 2011 derivano i provvedimenti in materia di controllo della finanza pubblica, Fiscal compact e pareggio di bilancio in primis. Il motivo (ufficiale) della sottoscrizione del six pack è la volontà di dare una risposta comune alla situazione di instabilità finanziaria ed economica che si era determinata a seguito della crisi del debito irlandese e greco, come appunto indicato nella presentazione delle misure adottate. “The economic and financial crisis has revealed a number of weaknesses in the economic governance of the EU’s economic and monetary union. The cornerstone of the EU response is the new set of rules on enhanced EU economic governance which entered into force on 13 December 2011”.[27] .
Come si vede l’obiettivo di controllo sulla stabilità finanziaria degli Stati deriva dall’assunzione di stampo neoclassico che maggiori debiti pubblici siano veicolo di maggiore imposizioni fiscali (equivalenza ricardiana) e di minori valori delle attività finanziarie (crowding-out).
Questa particolare attenzione da parte della Commissione Europea riguardo la necessità dei singoli Stati di tenere i propri conti in “ordine” attraverso una sostanziale neutralità dello Stato nel sistema economico è però “singolare” se vista alla luce delle condizioni necessarie per il funzionamento di un’area valutaria ottimale (AVO), qual’è come s’è visto in precedenza, in teoria, la “unione monetaria europea”.
Le caratteristiche principali che tali “AVO” debbono possedere per resistere a shock asimmetrici come quelli attualmente in essere (che colpiscono le varie zone in maniera differente) sono:
1) la mobilità dei fattori e del lavoro in particolare (favorita attraverso l’uniformità dei trattamenti previdenziali, di istruzione, di sostegno al reddito, ecc…) come sostenuto da Mundell (1961) in “A theory of optimum currency “areas (Mundell parlando a proposito delle versioni in apparente contrasto tra Meade e Scitovsky affermaIn both cases it is implied that an essential ingredient of a common currency, or a single currency area, is a high degree of factor mobility” );
2) la presenza di trasferimenti fiscali tra le aree in surplus verso le aree in deficit (e non di prestiti ad interesse, accompagnati da “condizionalità”,  secondo lo schema EFSF e ESM che si sta ora perseguendo in UEM).
La capacità di un’area valutaria di resistere e superare degli shock asimmetrici risiede pertanto nella presenza di questi due importanti fattori, nonché di una banca centrale che faccia ciò che fanno tutte le banche centrali – all’intero sistema finanziario (si veda per esempio Krugman 2012[28] sulle cause, e le possibili soluzioni, della crisi dell’euro zona). Il pareggio di bilancio non è MAI nominato come condizione necessaria e sufficiente per la risoluzione della crisi[29].
Guardando inoltre al caso specifico della zona euro, sembrerebbe che questo shock asimmetrico sia in buona parte dovuto al fenomeno di capital inflow manifestatosi con forza fino al 2007. Secondo il recente studio condotto da Gabrish e Staehr, 2013[30], l’andamento divergente nei livelli di competitività degli Stati Membri sembra essere stato causato essenzialmente dal rilevante afflusso di capitali che alcuni Paesi (periferici) hanno registrato come conseguenza dei differenziali di inflazione e in concomitanza con la eliminazione del rischio di cambio dovuto alla moneta unica.
Dunque, le manovre sul bilancio degli Stati e, in particolar modo, sul controllo della stabilità economica e finanziaria non hanno realistiche possibilità di risolvere la crisi se i gap di competitività cumulato dai Paesi periferici rispetto a quelli core hanno, piuttosto, una relazione evidente con i movimenti di capitali interni all’area e con differenziali di inflazione, fenomenologie dell’area UEM nulla hanno a che vedere con ammontare del debito pubblico, e sua riducibilità mediante il “pareggio di bilancio”.VI.4- Quarto quesito: Quali sono gli effetti del pareggio di bilancio, come concepito dall’UEM, e che giustifica la “condizionalità”, cioè la forte limitazione della sovranità fiscale degli Stati, e dei diritti fondamentali costituzionali, per tale finalità, superiore ad ogni altra nei valori UEM?
Il deficit di bilancio, secondo l’impostazione “neoclassica” (cioè facene capo ai citati Friedman e Von Hayek), sarebbe influente sul reddito di una Nazione.
A sostegno di tale affermazione è comunemente riportato il concetto di “equivalenza ricardiana” (J. Buchanan 1976).
Secondo i lavori sviluppati da Ricardo (1821)[31] e successivamente da Barro (1974)[32], si è venuta a consolidare l’assunzione secondo la quale il deficit pubblico e di conseguenza il debito pubblico sia, nel migliore dei casi, neutrale (o di ostacolo) rispetto alla capacità del sistema economico di creare reddito nel lungo termine.
Secondo questo assunto, se uno Stato spende più di quanto incassa, sarà costretto prima o poi ad incassare più di quanto spenderà e quindi ad aumentare proporzionalmente le tasse. Per tale ragione il debito pubblico potrebbe essere considerato al pari di un’imposta patrimoniale sui privati, intesa come valore attuale di tutte le tasse che in futuro verranno richieste in più per rimborsare il debito pubblico.
La spesa a deficit dello Stato, quindi, sempre secondo tale pensiero “neoclassico”, non migliorerebbe la posizione patrimoniale dei privati nel lungo periodo. Inoltre, a causa dell’inevitabile aumento delle imposte che dovrà avvenire in futuro per ripagare tale debito, gli stessi privati vorranno risparmiare oggi una quota maggiore del loro reddito per far fronte al successivo inasprimento fiscale (Barro, 1974) determinando, anche nel breve periodo, un effetto (di contrazione dei consumi) contrario a quello espansivo del deficit pubblico, la cui portata espansiva ne verrebbe “neutralizzata”.
La spesa pubblica poi “spiazzerebbe” quella privata secondo il fenomeno del crowding out e quindi, non aggiungendo niente alla domanda aggregata, verrebbe sostituita quella privata a favore di quella pubblica che, oltretutto, secondo l’impostazione neoclassica è più inefficiente. L’impossibilità da parte dello Stato di fare deficit, secondo questa impostazione, garantirebbe pertanto un maggior accumulo di risorse da parte del settore privato, che è in grado di effettuare un’allocazione in maniera più efficiente delle stesse. (secondo questa impostazione è quindi possibile comprendere lo schema precedente riguardo al controllo sulla dinamica del debito pubblico da realizzarsi attraverso le misure di Euro Plus Pact).
La critica principale a questo tipo di ragionamento si appunta sul suo “razionale” di base, secondo cui lo Stato non possa aggiungere niente più alla domanda aggregata in situazione di pieno impiego[33] (come generalmente era considerata intorno gli anni ’70).
Ma con una disoccupazione che, ormai da 30 anni, è stabilmente sopra la soglia minima del pieno impiego, è ancora possibile sostenere ragionevolmente, e sul piano dei dati ormai accumulatisi, che il settore privato, autonomamente riesca a raggiungere il pieno impiego?
Inoltre, con la disoccupazione a due cifre e livelli di output ben sotto il pieno impiego ha senso ancora parlare di crowding out e di neutralità della spesa pubblica in deficit?
L’esistenza e la necessità di un certo margine per la spesa pubblica in deficit era indicata anche nei trattati di Maastricht, fissando al 3% il limite da non oltrepassare. Il deficit pubblico serve appunto per compensare cali di domanda che si possono avere nel settore privato.
Il problema è quindi quanto deficit sia auspicabile e quanto stock di debito sia sostenibile da parte del singolo Stato.
Il limite poi al 60% del rapporto tra debito pubblico e PIL non ha nessun supporto scientifico e ha ben poco a che vedere con il concetto di sostenibilità del debito pubblico, che secondo gli studi più attenti ai dati attuali, studi accumulatisi in crescente concordanza negli ultimi anni (come reazione alle politiche fallimentari seguite in UE), prescinderebbe dal rapporto tra stock del debito e ricchezza prodotta[34].
L’aver voluto restringere notevolmente i margini di manovra degli Stati, imponendo il sostanziale pareggio di bilancio, impedisce ai singoli Paesi di adottare degli interventi anticiclici che permettano di affrontare in maniera più soft crisi nel settore privato, per non parlar poi della attuale situazione di trappola della liquidità[35]. E questo non fa altro che aggravare la crisi, mancando quella funzione di “Big Government” che dovrebbe essere esercitata dallo Stato anche al fine di attutire gli effetti di una crisi economica o finanziaria sulle attività economiche e sulla popolazione[36].
Alla luce delle teorie neoclassiche, finora seguite nelle politiche europee, però, è ipotizzabile che l’obiettivo di imporre il pareggio di bilancio agli Stati membri sia un altro, e pare essere piuttosto quello di trasformare l’economia dell’eurozona in modo che possa svolgere una strategia di crescita basata sul beggar-thy-neighbor di tipo tedesco, cioè il c.d. mercantilismo[37].
Se infatti si parte dall’analisi della relazione dei saldi settoriali, risparmio netto settore privato=deficit pubblico + saldo partite correnti, e si introduce il vincolo deficit pubblico = 0, si ottiene che il risparmio del settore privato debba essere pari al saldo delle partite correnti.
Quindi se il settore privato vuol risparmiare più di quanto consuma o investe, deve farlo all’estero sfruttando la domanda estera di beni nazionali. Quello che da sempre stanno facendo i tedeschi.
In questo senso le condizionalità sono comprensibili in un’ottica di miglioramento della competitività “esterna” dei singoli Stati. I precetti dell’Europa servirebbero quindi, in assunto, per comprimere la domanda interna (e quindi ridurre le importazioni) e migliorare la competitività di prezzo dei prodotti, sfruttando gli effetti studiati dalla curva di Philips[38] sull’incremento “indotto” della disoccupazione, in modo da risolvere grazie alla domanda estera i problemi dei singoli Paesi.E quanto sia compatibile una linea politico-economica che “punti” alla disoccupazione, anche mediante il suo corollario della “precarizzazione”, con gli artt. 1, 4 e 36 Cost., è un interrogativo a cui non pare difficile rispondere, secondo anche quanto già esposto nei paragrafi dedicati alla trattazione costituzionalistica in termini diretti di “ragionevolezza”.
E, nella sostanza, si potrebbe avere una implicita, ma eloquente, conferma della “strategia” in questione dalle parole dello stesso governatore della BCE M.Draghi[39] “….if you enhance the competitiveness, you can actually count on your external demand, on your net exports”.
A quale domanda estera fa riferimento Mario Draghi?
Non certo quella tedesca che continua a comprimere le importazioni più di quanto non rallentino le esportazioni. Piuttosto quella esterna all’area euro.
Ma con livelli di domanda globale molto sotto il pieno impiego e con inoltre gli effetti del cambio a mitigare l’eventuale aumento di competitività esterna dell’area euro.
Non è razionalmente sostenibile che si possa farci diventare, simultaneamente, tutti tedeschi, dato che la competizione commerciale all’interno e all’esterno dell’area UEM condurrebbe a una inevitabile e permanente destabilizzazione politico-internazionale. Senza considerare, poi, le attenzioni, ormai costanti, a cui sono sottoposti comportamenti di free riding internazionale, come conferma la netta posizione assunta dalla stessa Amministrazione USA:“…The Macroeconomic Imbalances Procedure, developed as part of the EU’s increased focus on surveillance, should help increase the amount of attention paid to building external and internal imbalances; however, the procedure is somewhat asymmetric and does not appear to give sufficient attention to countries with large and sustained external surpluses like Germany…[40].
 Da un recente articolo di economia[41], traiamo questo passaggio sull’orientamento che gli USA vanno assumendo, in contrasto con gli obiettivi delle politiche seguite in UEM nel senso qui ricostruito: “Di fronte al Congresso, i funzionari del Treasury hanno infatti sottolineato senza troppi giri di parole che i bilanci interni dell’eurozona stanno danneggiando la struttura del commercio globale, con i Paesi nordici UE che stanno facendo poco o nulla per ridimensionare i loro enormi surplus di conto corrente. Stando al report (del Treasury, neo-amministrazione Obama), il surplus di conto corrente della Germania sarebbe al 6,3% del PIL mentre quello olandese toccherebbe addirittura il 9,5%, nonostante entrambe le nazioni stiano costringendo la domanda interna attraverso politiche fiscali di austerità. Per il Treasury “il nuovo strumento posto in essere dall’UE per abbattere gli sbilanciamenti interni all’eurozona è asimmetrico e non presta sufficiente attenzione a nazioni con ampi e sostenuti surplus esterni come la Germania“. Questo in un contesto che vede l’eurozona come insieme in uno stato di bilanciamento commerciale ma che, contestualmente, “porta avanti politiche di austerity nei paesi del Sud senza uno stimolo di offsetting nel Nord, creando un effetto di contrazione che sta bloccando la ripresa globale”
Di più, per il Tesoro USA ” I paesi dell’eurozona che vantano surplus avrebbero spazio per stimoli fiscali ma si rifiutano di agire in tal senso, nonostante i numerosi appelli dei leader UE affinchè si agisca per la crescita. Non hanno mai avanzato proposte concrete per raggiungere risultati degni di nota nel breve termine”. Insomma un atto di accusa durissimo e senza precedenti...”

[1] Sulla relazione tra ragionevolezza e “attendibilità” come parametro sintomatico della prima in materia che, pur soggetta a decisione di livello politico, sia non di meno improntata alla presenza di criteri tecnico-scientifici che guidano le scelte da effettuare, v. Corte Cost. 21 marzo 2011, n.93
[2] Si tratta com’è noto della sentenza della Corte costituzionale  n.55 del 1968, che portò ad affermare, in relazione alle proiezioni edificatorie della proprietà fondiaria, rilevanti ai sensi dell’art.41 Cost., l’esistenza di un suo contenuto “connaturale in un dato momento storico”.
[3] Cfr; Mortati, “Istituzioni di diritto pubblico” vol.II, pagg. 1224 ss., Padova 1976.
Evidenzia infatti Mortati che, fermo restando che le norme costituzionali provenienti dal procedimento di revisione  – ad es; quelle del Tit.V Cost., nuova versione, incluso l’art.117 col suo rinvio all’osservanza dei vincoli comunitari- sono subordinate alle norme della Costituzione “originarie” cioè provenienti dal costituente (“entità assolutamente orginaria, creativa in grado primario dell’ordinamento“), tutti i principi generali sono immodificabili in sede revisionale componendo la “forma repubblicana”.  Quindi l’art.139 Cost. rende inevitabilmente sindacabili anche le norme di revisione alla luce dei precetti originari della Carta.
E ciò vale,  quindi, a maggior ragione, per le norme europee, di qualunque fonte, coperte dall’art.11 Cost., per loro natura sempre subordinate alle norme costituzionali “originarie”.
Ma quel che più conta è che secondo Mortati (cioè uno dei “costituenti” più prestigiosi, sul piano scientifico-giuridico), ciò varrebbe in via diretta proprio per il fiscal compact, inclusa la sua versione costituzionalizzata nel “pareggio di bilancio”.
E su questo siamo abbastanza al sicuro (almeno quanto sul fatto che Keynes trovi confermata la sua “lezione” proprio dai disastri odierni della politica dell’austerity per la…crescita), anche secondo l’analisi che abbiamo fatto in questo post e che trova appoggio anche nella sentenza della Corte costituzionale del 13 luglio 2007, n.284
[4] Sul punto si vedano, i notissimi studi di Sylos Labini-Pasinetti, quali verificati da Conti e Mastromatteo, http://growthgroup3.ec.unipi.it/contimas.pdf, nonché da Corsi Guarini http://growthgroup3.ec.unipi.it/contimas.pdf,; come pure lo studio di Buiter, Corsetti e Roubini del 1993, sulla estraneità dello stesso limite del 60% al debito pubblico sancito da Maastricht, “to ensure public sector solvency”, al punto da ritenere il limite in sé di ostacolo allo sviluppo dell’attività economica http://ideas.repec.org/p/cpr/ceprdp/750.html.
Si veda pure lo specifico studio di Bagnai, “Keynesian And Neoclassical Fiscal Sustainability Indicators, With Applications To Emu Member Countries”, 2005, http://ideas.repec.org/p/wpa/wuwppe/0411005.html
[5] Cioè quanto esattamente anticipavano Buiter, Corsetti e Roubini nello studio del 1993, citato alla nota precedente.
[6] Si veda il notissimo studio di Godley-IzurretaBalances, Inbalances and fiscal targets”, già citato nello studio di Barra Caracciolo, L’EUROPA ALLA PROVA DELL’EURO: BILANCIO PUBBLICO, DEFICIT E DINAMICHE DEL PIL, pubblicato su questa rivista.
[7]Cfr; R. Cellini, “Introduzione ai modelli di economia aperta e analisi della bilancia dei pagamenti”. Par.7.1. Qui si assume “la conclusione di politica economica che per avere un attivo nelle partite correnti (o per ridurre il passivo) si deve incrementare il risparmio nazionale” . Ciò include sia il risparmio pubblico che privato, al netto degli investimenti, fermo restando che nell’attuale situazione italiana, con stagnazione o, ora, contrazione, del PIL, entrambe le tipologie di risparmio sono in diminuzione e ciò nonostante, anzi a causa, dei tagli della spesa
[8] Sul punto, L. Barra Caracciolo, “Area euro, mercantilismo e violazioni del Trattato”, in particolare parr.2 e 3, in giustamm.it
[9] Cfr; Antonio Cantaro in “Europa Sovrana. La costituzione dell’Unione tra guerra e diritti”, pp. 124 e segg., Bari 2003: ”la Costituzione europea dimentica stranamente la centralità del lavoro, di quel diritto al lavoro che “fonda” la nostra di Costituzione, con tutti i diritti ed i doveri annessi che la carta europea, di fatto, sembra appunto “dimenticare” appositamente, e che tratta i suoi cittadini come meri consumatori, a cui non interessano appunto i diritti (l’autore definisce ciò, appunto “desocializzazione” di quest’ultimi) ma solo a quanto stia il loro potere di acquisto e quanto l’inflazione “eroda” il potere della loro moneta”.
[10] Sulla carenza di un bilancio federale, concordemente ritenuta contraria alla teoria delle “aree valutarie ottimali”, quale teorizzata da R. Mundell, cui è ascritto il premio Nobel per l’economia in ragione di tale elaborazione, si veda, ex multis, Wynne Godley, “Le conseguenze del Trattato di Maastricht” trad. it. in http://gondrano.blogspot.it/2012/08/il-trattato-di-maastricht-e-le-sue.html.
Sulla scarsa, se non nulla, praticabilità politica, data l’opposizione dei paesi “core”, capeggiati dalla Germania, in tema di istituzione di un tale bilancio federale, si veda lo studio di Jacques Sapir, 2012, “Il costo del federalismo nell’eurozona”, trad.it in http://vocidallestero.blogspot.it/2012/11/il-costo-del-federalismo-nelleurozona.html
Il costo di tale federalismo (per definizione solidaristico) sarebbe quantificabile, in soli termini di “recupero” dei differenziali di produttività, tra i vari paesi UEM, imputabili alle politiche “minime” di istruzione, formazione e ricerca,  nochè di indispensabile investimento infrastrutturale, in oltre 257 miliardi all’anno, di cui la Germania dovrebbe sopportare il 90%, pari a 8 punti del suo PIL. E questo per una politica di trasferimenti meramente “primaria”, tesa alla mera sopravvivenza dell’area UEM. In pratica un costo politico impensabile per le attuali forze politiche tedesche, che non potrebbero imporre il relativo onere ai propri elettori di qualunque orientamento.
[11] La presente parte di introduzione anticipatoria delle “risposte” che segue rielabora quanto esposto da Flavio Rovere in “Risposte per una speranza nella democrazia-1° parte” su http://orizzonte48.blogspot.it/2013/01/risposte-per-una-speranza-nella.html
[12] http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2005/wp0542.pdf, “Rules of Thumb” for Sovereign Debt Crises

11 http://www.unich.it/docenti/bagnai/mqs/, Bagnai, “Modelli empirici di aggiustamento e crescita – Appunti per un corso di macroeconomia dello sviluppo”, pag.24, Roma 2010

[16] Central banking doctrine in light of the crisis Axel Leijonhufvud, 13 May 2008 http://www.voxeu.org/article/central-banking-doctrine-light-crisis The case for ‘deficit monetisation’ and greater cooperation between central banks and ministries of finance
[17] Sul punto una spiegazione “funditus” è rinvenibile ne “Il tramonto dell’euro”, di Alberto Bagnai, pagg.71ss., Roma, 2012.
[18] Le risposte ai 4 quesiti che seguono sono frutto dello studio appositamente elaborato da Francesco Lenzi, in “Risposte per una speranza nella democrazia- parte 1° e parte 2°” http://orizzonte48.blogspot.it/2013/01/risposte-per-una-speranza-nella.html e in http://orizzonte48.blogspot.it/2013/01/risposte-per-una-speranza-nella_16.html
[19] Irving Fisher, THE DEBT-DEFLATION THEORY
[20] FINANCIAL FRAGILITY AND ECONOMIC PERFORMANCE, http://www.nber.org/papers/w2318.pdf
[21]http://www.jstor.org/discover/10.2307/40720321?uid=3738296&uid=2&uid=4&sid=21101575753493
[22]http://www.freerepublic.com/focus/f-news/937366/posts
[23] http://www.ecb.int/pub/scientific/wps/author/html/author866.en.html, link che conduce alla raccolta di un complesso di studi connessi a questo ordine di problemi
[24] Greenspan’s Mea Culpa, in http://economix.blogs.nytimes.com/2008/10/23/greenspans-mea-culpa/
[25]  Per una panoramica sul complesso di interventi che sono stati presi e dovranno essere ancora presi sul tema della vigilanza micro e macroprudenziale si può consultare:   http://ec.europa.eu/internal_market/finances/docs/110209_progress_report_financial_issues_en.pdf
[27] Il complesso di norme, procedure, finalità e settori di intervento che interessano l’Euro Plus Pact è il seguente:
[28] http://www.nber.org/chapters/c12759.pdf
[29] Krugman, ult.cit., si esprime così: “In summary, optimum currency area theory suggested two big things to look at – labor mobility and fiscal integration. And on both counts it was obvious that Europe fell far short of the U.S.example, with limited labor mobility and virtually no fiscal integration. This should have given European leaders pause – but they had their hearts set on the single currency.
Why did they believe it would work? I won’t try for a detailed historiography; let me just say that what I recall from discussions at the time was the belief that two factors would make the adjustment problems manageable. First, countries would adopt sound fiscal policies, and thereby
reduce the incidence of asymmetric shocks. Second, countries would engage in structural reforms that would make labor markets – and, presumably, wages – flexible enough to cope with such asymmetric shocks as occurred despite the soundness of the fiscal policies.
Even at the time, this sounded to many American economists like wishful thinking. After all,asymmetric shocks don’t have to arise from unsound policies – they can come from shifts in relative product demand or, of course, such things as real estate bubbles. And European leaders seemed to believe that they could achieve a degree of wage flexibility that would be more or less unprecedented in the modern world.
Nonetheless, the project went ahead.
Exchange rates were locked at the beginning of 1999, with the mark, the franc and so on officially becoming just denominations of the euro. Then came actual euro notes – and they all lived happily ever after, for values of “ever after” < 11 years.”
[30] The Euro Plus Pact: Competitiveness and Cross-Border Capital Flows in the EU Countries, http://www.foreurope.eu/fileadmin/documents/pdf/Hubert_Gabrisch_Paper.pdf
[31]http://www.econlib.org/library/Ricardo/ricPCover.html
[32] http://dash.harvard.edu/bitstream/handle/1/3451399/Barro_AreGovernment.pdf
[34]  Ex multis, e per una ricognizione esauriente del pensiero economico nella materia si veda, “The Sustainability of Public Debt in Europe”, Stefan Collignon e Susanne Mundschenk, http://www.stefancollignon.de/PDF/pdtx.pdf
[35] La c.d. trappola della liquidità; si verifica quando il tasso di interesse si posiziona ad un dato livello minimo, sicchè gli operatori si aspetteranno un suo aumento, e non reagiranno per evitare di incorrere in perdite in conto capitale, qualsiasi sia l’offerta di moneta. In questo caso, nessuno intende acquistare titoli che fruttano un tasso di interesse troppo basso e la preferenza per la liquidità sarà assoluta. Il prezzo dei titoli e il tasso di interesse non varieranno al variare dell’offerta di moneta e la politica monetaria diverrà inefficace. Cfr; studio cit. a nota 31, pag.15.
[37] Sul concetto di “mercantilismo imperialista” e sulle implicazioni che sta avendo sull’equilibrio dell’unione monetaria cfr; L.Barra Caracciolo in “Area euro, mercantilismo e violazioni del Trattato”, parr.1 e 2, su questa stessa rivista, già cit. in nota 8.
[38]http://www.okpedia.it/curva-di-phillips : la “curva di Philips” dimostra, nei paesi a capitalismo avanzato in particolar modo, una relazione inversa tra tasso di inflazione e tasso di occupazione, spiegando come politiche che “perseguano” intenzionalmente un incremento della disoccupazione intendano appunto abbassare l’inflazione per aumentare la competitività “esterna” e l’export.
[40] U.S. Department of the Treasury Office of International Affairs:  Reviews on developments in international economic and exchange rate policies

[41]http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2012/12/4/FINANZA-Dagli-Usa-un-attacco-alla-Germania-che-fa-esultare-l-Italia/343928/

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: