Luigi Ferrajoli, Ma l’economia è democratica?

by gabriella

FerrajoliIn questa bella riflessione su economia e democrazia, Ferrajoli esamina da costituzionalista cause e rimedi del collasso dello stato di diritto e dell’economia sociale di mercato. Ne emerge la drammatica contraddizione che evidenzia, da un lato, la crisi della democrazia costituzionale e l’impotenza della politica a renderla esecutiva e, dall’altro, la sua impossibile (alla luce delle ragioni acutamente delineate dal giurista) soluzione consistente nella risposta politica e nella ricostituzionalizzazione del diritto.

Alla luce di questa impasse, ciò che resta in ombra nell’analisi di Ferrajoli (peraltro uno dei miei costituzionalisti preferiti) sembra dunque la crisi dello stesso costituzionalismo, cioè l’incapacità degli strumenti di analisi del diritto di uscire dall’orizzonte del “dover essere” e di misurarsi con la “realtà effettuale” – come direbbe Machiavelli – della società liberale matura. Una realtà, cioè che, dal punto di vista scientifico (cioè conoscitivo), può essere pensata solo in prospettiva pluridisciplinare e che, da quello politico, può indicare risposte solo quando si misura con la razionalità di tutti gli attori, prima tra tutte quella dei mercati.

Emergono così diverse questioni: se l’economia non è democratica, possono, i mercati, comportarsi come dovrebbero? Può il diritto addomesticare gli animal spirits? E può tanto (come il giurista dice necessario) la politica dei partiti sistemici ai quali Ferrajoli si rivolge nelle conclusioni, dimenticando di aver denunciato, giusto due righe sopra, la loro debolezza, la loro lontananza dalla società, la loro corruzione? Uscire dalla crisi è impossibile se non si pensa la crisi di un paradigma.

 

 

1. La crisi, i mercati e il rapporto tra economia e politica

Io credo che il tema di questo intervento – il rapporto tra economia e politica e la dipendenza della seconda dalla prima – sia il tema di fondo del nostro tempo: un tema che è tutt’uno con il tema della crisi della sfera pubblica, del ruolo e ancor prima della natura della politica e perciò, in ultima analisi con il tema, al tempo stesso teorico e politico, della crisi della democrazia, non solo in Italia ma in Europa e più in generale a livello globale.

Il rapporto tra politica ed economia si è ribaltato. Non abbiamo più il governo pubblico e politico dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica.  Non sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i mercati, cioè poche decine di migliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi pubblici generali, ma sono le potenze incontrollate e anonime del capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche e antisociali, a vantaggio degli interessi privati e speculativi della massimizzazione dei profitti. Le ragioni di questo ribaltamento sono molte e complesse. Non parlerò dei conflitti di interesse e delle molte forme di corruzione e condizionamento lobbistico attraverso cui l’economia condiziona la politica.

Questi condizionamenti ci sono come mostrano le cronache di questi giorni. Ma il ribaltamento dipende da due ragioni, una di ordine strutturale, l’altra di ordine culturale e ideologico.

La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della finanza: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente e inevitabilmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto all’interno dei territori statali e nel senso che gli orizzonti della politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e senza i limiti e i vincoli apprestati dal diritto – dalle legislazioni e dalle costituzioni – che è tuttora un diritto prevalentemente statale. è insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a divenire sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri decisionali/regolazione giuridica. In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari, da Marchionne alla finanza speculativa, si sono sviluppati come poteri illimitati, sregolati e selvaggi, in grado di imporre le loro regole e i loro interessi alla politica.

Il secondo fattore del ribaltamento del rapporto tra politica ed economia è di carattere ideologico. Esso consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la prima, ben più che rafforzata, è per così dire “verificata” dalla seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di necessità naturale, e della scienza economica come scienza a sua volta naturale, dotata della stessa oggettività empirica della fisica. Di qui il rifiuto come illegittimo e insieme irrealistico di qualunque intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche o rilevazioni fattuali o proposte realistiche di una lunga serie di luoghi comuni largamente ideologici. Di qui la trasformazione della politica in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi dell’economia da parte di governi “tecnici” – non dimentichiamo il monito di Bobbio sull’antitesi e l’incompatibilità tra democrazia e tecnocrazia – i quali traggono legittimazione dai mercati, e solo ai mercati – e non già ai parlamenti, ai partiti, alle forze sociali, alla società – devono rispondere.

Di qui, soprattutto, il nesso tra l’impotenza della politica nei confronti dell’economia e la sua rinnovata onnipotenza nei confronti delle persone e a danno dei loro diritti costituzionalmente stabiliti. I due processi, il depotenziamento della politica e la decostituzionalizzazione delle nostre democrazie, sono tra loro connessi, l’uno come causa del secondo e il secondo come condizione necessaria del primo. Il sopravvento dell’economia sulla politica e l’abdicazione della seconda al ruolo di governo nei confronti della prima non sarebbero infatti possibili senza un simultaneo processo di liberazione della politica da limiti e da vincoli legali e costituzionali. E’ in questo duplice processo che risiede la crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica, che a sua volta richiede la rimozione della costituzione dall’orizzonte dell’azione di governo onde consentirle l’aggressione all’intero sistema dei diritti fondamentali e delle loro garanzie: dai diritti sociali alla salute e all’istruzione ai diritti dei lavoratori, dal pluralismo dell’informazione alle molteplici separazioni e incompatibilità dirette a impedire concentrazioni di potere e conflitti di interesse.

2. La crisi della democrazia, dello stato di diritto e dello Stato

Da questo ribaltamento del rapporto tra economia e politica consegue una triplice crisi.

2.1. In primo luogo la crisi della democrazia politica. La democrazia politica è nata ed è tuttora vincolata alle forme rappresentative dei parlamenti e dei governi nazionali. La subalternità delle politiche nazionali ai cosiddetti mercati – il fatto che è ai mercati ben più che ai loro elettorati che i governi nazionali devono rispondere – ha svuotato, insieme al ruolo di governo della politica, il ruolo e la stessa legittimità delle istituzioni rappresentative, alle quali i mercati impongono interventi antisociali, in danno del lavoro e dei diritti sociali e a vantaggio degli interessi privati della massimizzazione dei profitti, delle speculazioni finanziarie e della rapina dei beni comuni e vitali. Ne consegue un ruolo parassitario della politica e delle istituzioni democratiche e un inevitabile e generalizzato discredito del ceto politico, attestato dai tassi sempre più bassi di popolarità dei partiti, dei loro leader e delle stesse istituzioni rappresentative: che è un discredito e una crisi della politica in quanto tale, sempre più subordinata all’economia, sempre più in crisi di autorevolezza, sempre più lontana – per incapacità, o per subalternità ideologica, o per connivenza con il mondo degli affaridai bisogni e dai problemi dei paesi che sarebbe chiamata a governare. E ne consegue, altrettanto inevitabilmente, la rivolta di masse crescenti, soprattutto giovanili – i movimenti degli indignati – contro tutti i governi, dagli Stati Uniti alla Grecia e alla Spagna, dal Cile alla Francia e all’Italia.

“Siamo il 99%”, è lo slogan del movimento degli occupanti di Wall Street che esprime nella maniera più lapidaria questa crisi della democrazia: un 99% governato dall’1% della popolazione che, come ha scritto Joseph Stiglitz, “controlla più del 40% della ricchezza”, grazie a “sistemi fiscali nei quali un miliardario come Warren Buffett paga meno tasse della sua segretaria e gli speculatori, che hanno contribuito a far collassare l’economia globale, hanno imposizioni fiscali più basse di chi lavora per vivere”. E in questo 1% vengono sempre più accomunati, dall’opinione pubblica, poteri economici e poteri politici, ceti di governo e grandi concentrazioni economiche e finanziarie, indistintamente percepiti come un unico blocco di potere ostile alla società.

2.2. C’è poi una seconda crisi o un secondo aspetto della crisi: la crisi del diritto e delle forme dello stato di diritto consegnateci dalla tradizione liberale. Il paradigma dello “stato di diritto”, come dice questa stessa espressione, si è sviluppato nei confronti soltanto dello Stato, cioè dei poteri statali. Non ha investito né i poteri sovrastatali, essendo stato il diritto positivo identificato per lungo tempo con il solo diritto statale, né i poteri economici privati, a loro volta ideologicamente concepiti, dalla tradizione liberale – da Locke a Marshall – anziché come poteri, come diritti di libertà. Di qui, da questa limitazione del ruolo del diritto, l’impotenza degli Stati, in grado solo di dare risposte locali a problemi globali e, soprattutto, non all’altezza di quei poteri insieme privati e globali che sono i poteri della finanza.

Non solo. Lo stato di diritto, nelle forme odierne dello Stato costituzionale di diritto, si è venuto svuotando anche nei confronti dei poteri pubblici statali, a causa di un vero processo decostituente, manifestatosi, in Italia, non solo nelle violazioni e nei tentativi di riforma della carta del 1948, ma in un attacco al costituzionalismo in quanto tale, cioè quale sistema di limiti e vincoli ai poteri politici di maggioranza, e nella rivendicazione populista dell’onnipotenza delle maggioranze. All’impotenza della politica rispetto ai poteri selvaggi dei mercati ha così corrisposto, ripeto, la rivendicazione dell’onnipotenza della politica a danno dei diritti dei cittadini, che si è manifestata nell’aperta aggressione, per far fronte alla crisi, da un lato allo stato sociale, dall’altro al lavoro: da un lato ai diritti sociali, dall’altro ai diritti dei lavoratori, gli uni e gli altri costituzionalmente garantiti. Impotenza rispetto ai mercati e onnipotenza della politica rispetto alla società e ai diritti delle persone sono tra loro connesse, l’una come causa della seconda e la seconda come condizione necessaria della prima.

2.3. Infine questa dipendenza della politica dall’economia segnala un terzo aspetto, il più profondo e vistoso, della crisi che stiamo vivendo: la crisi, ancor prima che della democrazia e dello stato di diritto, dello stesso Stato moderno, inteso lo Stato quale sfera pubblica deputata alla difesa degli interessi pubblici, separata dall’economia e rispetto a essa eteronoma e sopraordinata. E’ una crisi epocale: la crisi dello Stato quale istituzione politica separata e sopraordinata all’economia. La separazione tra società civile e stato, tra economia e politica, è infatti un tratto caratteristico della modernità giuridica e politica che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno, in opposizione allo stato patrimoniale dell’ancien régime. Non dimentichiamo che lo Stato moderno nasce insieme al capitalismo, come istituzione politica separata dalla società e come sfera pubblica eteronoma rispetto ai poteri economici, per loro natura incapaci di regolarsi autonomamente. Per questo possiamo parlare di una regressione premoderna allo stato patrimoniale, determinata dal ribaltamento del rapporto tra poteri economici e poteri politici di governo, non più i primi subordinati e regolati dai secondi, ma i secondi subordinati ai primi, ai cosiddetti “mercati”, cioè ai poteri sregolati della finanzia speculativa; i quali, dopo aver provocato la crisi economica ed essere stati salvati dagli Stati, minacciano il fallimento degli Stati stessi che li avevano salvati e impongono a essi la distruzione del Welfare, la riduzione della sfera pubblica, lo smantellamento del diritto del lavoro, la crescita delle disuguaglianze e della povertà e la devastazione dei beni comuni.

E’ questa la triplice crisi sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente non democratico della politica. Il suo aspetto paradossale è il carattere fallimentare, sotto gli occhi di tutti, delle politiche imposte dai mercati alle tecnocrazie deputate alla loro attuazione. Il mercato senza regole, dopo essere stato la causa della crisi – in assenza di politiche capaci di governarlo – continua a riproporsi come la terapia: tagli alla spesa pubblica nella sanità e nell’istruzione, privatizzazioni, liberalizzazioni, imposte su pensioni e salari e, insieme, riduzione degli investimenti e delle entrate fiscali, crescita delle disuguaglianze e rottura della coesione sociale. Una terapia distruttiva, anche sul piano economico, dato che aggrava le cause stesse della crisi, a cominciare dalla maggiore povertà e dalle restrizioni del potere d’acquisto e dei diritti sociali, dando vita a una spirale recessiva incontrollata.

3. Come si esce dalla crisi?

A me pare che l’uscita dalla crisi debba far fronte alle cause strutturali di tutti e tre i suoi aspetti; e richieda perciò tre ordini di mutamenti alla loro altezza.

3.1. In primo luogo la costruzione di una sfera pubblica europea e in prospettiva globale all’altezza dei poteri globali dell’economia e della finanza speculativa. Proprio il riconoscimento del fallimento e dell’irrazionalità delle “politiche liberiste” – una contraddizione in termini, dato che il liberismo equivale a un’abdicazione della politica e all’abbandono del mercato a una sorta di stato di natura – suggerisce la sola possibile via d’uscita dalla crisi: l’inversione della rotta fallimentare fin qui seguita. E invertire la rotta è possibile, come mostrano le tante proposte alternative formulate nel dibattito odierno da innumerevoli economisti democratici: l’istituzione e perfino il semplice annuncio di una garanzia europea comune per i titoli pubblici dei paesi dell’euro; un’adeguata tassazione delle transazioni finanziarie con la Tobin Tax; il divieto di acquisti e vendite di titoli allo scoperto; l’istituzione di agenzie di rating pubbliche in luogo di quelle private, che sono di fatto condizionate dai poteri finanziari; l’eliminazione dei paradisi fiscali; una fiscalità europea realmente progressiva.

In tutti i casi – e sembra che su questo siano tutti d’accordo – la sola alternativa al crollo dell’euro e al fallimento dell’Unione è una maggiore integrazione politica ed economica. Il processo di costruzione dell’Europa, in breve, o va avanti, sul piano politico e istituzionale, oppure va indietro, verso la disgregazione, come in parte sta avvenendo e come è segnalato dal crescente venir meno, nelle politiche e nell’opinione pubblica, del senso di solidarietà e di comune appartenenza. Se non si vuole che salti l’euro e che la stessa Unione europea vada in pezzi, deve insomma crescere un’altra Europa rispetto a quella disegnata dalle politiche liberiste. E a tal fine non bastano le politiche, anche progressive, dei governi. Occorre una rifondazione costituzionale della sfera pubblica europea in grado di assoggettare i mercati, ponendosi all’altezza dei nuovi poteri economici globali attualmente sregolati e selvaggi e perciò trasformando le politiche indicate dal pensiero economico progressista in nuove regole e istituzioni.

Ciò che si richiede è insomma una rifondazione costituzionale delle forme della democrazia e dello stato di diritto, attraverso il loro allargamento a livello sovranazionale e, insieme, nei confronti dei poteri economici privati. Proprio perché sia la democrazia rappresentativa che lo stato di diritto sono tuttora ancorati ai territori degli Stati, la sola alternativa al tramonto dell’una e dell’altro è la promozione di un costituzionalismo sovranazionale e di diritto privato, cioè di uno stato di diritto al di là dello Stato e all’altezza dei nuovi luoghi, non più statali ma extra- o sovra-statali, nei quali si sono spostati il potere e le decisioni.

Proprio la crisi economica in atto potrebbe perciò rappresentare un’occasione per una rifondazione costituzionale di un’Europa federale e sociale, già del resto prefigurata dai principi del Trattato dell’Unione e dai compiti da esso assegnati alla Comunità:

“promuovere”, come dice l’art. 2, “uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, (…) un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri”; e ancora, come aggiunge l’art. 3, contribuire al “conseguimento di un elevato livello di protezione della salute” e di “un’istruzione e una formazione di qualità”, nonché all’eliminazione delle “ineguaglianze” e delle disparità “tra uomini e donne”.

Prendere sul serio questi “compiti” costituzionali vuol dire adottare misure esattamente opposte alle attuali politiche europee: dotare l’Unione di un bilancio comune, di un fisco comune e di un governo comune dell’economia in grado di realizzare quello che una volta veniva chiamato “il modello sociale europeo”; promuovere interventi comunitari di spesa informati, come dice l’art. 5 del Trattato, al “principio di sussidiarietà”, ove “gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri”; procedere all’unificazione europea del diritto del lavoro, a cominciare dalla “tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” prevista dall’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione, onde impedire le dislocazioni delle attività produttive nei paesi sforniti di garanzie dei diritti dei lavoratori. Un’alternativa radicale alle attuali politiche fallimentari è insomma non solo possibile, ma normativamente imposta dallo stesso trattato europeo.

3.2. La seconda via d’uscita dalla crisi è lo sviluppo di uno stato di diritto in grado di limitare e disciplinare i poteri privati: di un costituzionalismo di diritto privato che imponga limiti e vincoli non soltanto ai poteri pubblici ma anche ai poteri economici e finanziari, e perciò la riaffermazione del primato della Costituzione in luogo di quella nuova grundnorm che è la lex mercatoria: in materia di lavoro, di ambiente, di diritti sociali. Lo strumento consegnatoci dalla nostra tradizione è di nuovo la costituzionalizzazione di limiti e vincoli, correlativi ai diritti e ai beni fondamentali, sia allo stato che al mercato.

Ciò vale anzitutto per i beni comuni. La nostra tradizione conosce da sempre, quale tecnica di sottrazione al mercato di tali beni, la figura dei beni demaniali. Ma tali beni sono di solito previsti come demaniali dalla legge ordinaria, in Italia dal codice civile, e possono perciò, come in Italia è avvenuto con le privatizzazioni, essere sdemanializzati per legge. Solo la stipulazione in costituzioni rigide e in trattati internazionali di quei beni che riteniamo vitali – l’aria, l’acqua, i farmaci salva-vita, il cibo per l’alimentazione di base – come beni fondamentali può garantirne l’inalienabilità e l’accessibilità a tutti. Solo l’istituzione di demani costituzionali – di livello europeo e, in prospettiva, internazionale – può garantire i beni vitali, sottraendoli alla devastazione e all’appropriazione privata.

Ma lo strumento della costituzionalizzazione vale anche per la garanzia, a livello europeo oltre che statale, dei diritti sociali. Voglio qui ricordare, tra le esperienze costituzionali più avanzate e recenti, quella brasiliana: l’introduzione nella Costituzione brasiliana, agli articoli 198 e 212, di vincoli di bilancio, cioè la previsione di quote del bilancio dell’Unione, dei singoli Stati e dei municipi destinate obbligatoriamente alla soddisfazione dei diritti sociali: 18 e 25% a sostegno del diritto all’istruzione, quote da stabilirsi annualmente a sostegno del diritto alla salute e simili. In materia di bilancio, del resto, sarebbe opportuno la costituzionalizzazione di un’autentica progressività fiscale, diretta ad assicurare tetti massimi a qualunque reddito. Sono infatti incompatibili con la democrazia redditi e ricchezze sterminate in capo a singole persone: non solo per l’insostenibilità di eccessive disuguaglianze sociali, ma anche per i poteri politici impropri, di condizionamento o peggio di corruzione della sfera pubblica, di fatto inevitabilmente associati alle eccessive ricchezze private.

Infine la costituzionalizzazione, dopo lo smantellamento per via legislativa operato sistematicamente in questi anni del diritto del lavoro, si richiede altresì, contro l’arbitrio delle contingenti maggioranze, per le concrete garanzie dei diritti dei lavoratori, prima tra tutti “il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”, già previsto dall’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione Europea. D’altro canto, nell’impossibilità di garantire, in una società capitalistica, la piena occupazione, un’effettiva garanzia della sopravvivenza che parimenti dovrebbe essere stipulata nelle costituzioni è il diritto a un reddito minimo di cittadinanza. La sopravvivenza infatti non è più, come riteneva Locke, un fatto naturale, affidato alla libera iniziativa e alla volontà di lavorare delle persone, ma è sempre più un fatto legato all’interdipendenza e all’integrazione sociale, e non può perciò non far parte, come il diritto alla vita, delle clausole elementari del patto costituzionale.

3.3. Da ultimo la rifondazione della rappresentanza. In questi ultimi vent’anni di berlusconismo si è prodotta in Italia una deformazione delle istituzioni rappresentative generata da molteplici fattori: la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con sistemi di tipo maggioritario che hanno verticalizzato la rappresentanza e trasformato le forze politiche in partiti personali e talora padronali con vocazioni populiste; la deformazione nel dibattito pubblico e nel senso comune dell’immagine stessa della democrazia politica, identificata, ben più che nella rappresentanza della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza e soprattutto del suo capo; l’idea di una legittimazione assoluta proveniente dal voto popolare e la conseguente insofferenza per i limiti costituzionali e per la separazione dei poteri; lo svuotamento infine del ruolo del parlamento, attraverso una legge elettorale che ha trasformato le elezioni dei parlamentari nella loro nomina da parte dei vertici dei partiti – ai quali, ben più che agli elettori, essi rispondono e dai quali dipendono – e la rottura e il sostanziale capovolgimento del rapporto di fiducia tra parlamento e governo.

Contro una simile crisi, ovviamente, non bastano rimedi giuridici. E tuttavia alcuni rimedi, pur se insufficienti sono necessari: l’esclusione di conflitti di interesse attraverso norme rigorose sulla non eleggibilità di quanti hanno corposi interessi privati; l’imposizione ai partiti, quanto meno come condizione del loro finanziamento pubblico, di statuti democratici; l’introduzione di istituzioni indipendenti di garanzia secondaria, competenti su tutte le questioni e i contenziosi elettorali, dal controllo sui finanziamenti ai partiti a quello sulla regolarità delle elezioni e sulle cause di ineleggibilità; la stipulazione infine della separazione tra cariche di partito e cariche istituzionali, in grado di ristabilirne il ruolo di mediazione rappresentativa, di favorirne il radicamento sociale e di promuovere il ricambio dei gruppi dirigenti.

E’ difficile di fronte a questa triplice crisi essere ottimisti. Sarebbe tuttavia necessaria, nel momento in cui si prospetta una vittoria elettorale del centrosinistra, una consapevolezza delle dimensioni e della gravità e profondità della crisi. Accompagnata da un’altra consapevolezza: che in quel che è accade e è accaduto non c’è nulla di naturale né di irreversibile; che una, anzi una molteplice quantità di vie d’uscita dalla crisi è possibile; che questa uscita dipende da un rinnovato rapporto dei partiti della sinistra con la società: non solo con i suoi bisogni ma anche con il mondo della cultura giuridica ed economica progressista. Dipende in breve da una rifondazione e da un’autoriforma della politica.

Tratto da Lo Straniero, Dicembre 2012/Gennaio 2013 – n. 150/151.

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