Mario Perniola, Stranieri a se stessi

by gabriella

L’alternativa tra l’amore verso lo straniero e la paura nei suoi confronti, all’interno della quale resta prigioniero oggi il sentire occidentale, nasconde una realtà più sconvolgente: il fatto che il mondo occidentale sta diventando estraneo a se stesso. Ora, ci sono molti modi di provare un senso di estraneità nei confronti di se stessi, alcuni dei quali appartengono da tempo alla cultura occidentale. Per esempio la “mania”, di cui parlavano gli antichi greci distinguendone quattro specie (profetica, liberatoria, poetica ed amorosa). È indubbiamente una forma non patologica di estraneità nei confronti di se stessi, che ha esercitato un’enorme influenza attraverso i secoli. L’introduzione della nozione di inconscio nella cultura del Novecento ha poi aperto nuovi vastissimi orizzonti a questa problematica, accrescendo enormemente la conoscenza dei dispositivi profondi che operano occultamente nel modo di essere occidentale.Ma oggi abbiamo a che fare con un tipo di estraneità differente dalle manie e dall’inconscio. Per quanti sforzi siano stati fatti per avvicinare le manie antiche alle dipendenze moderne (dall’alcool, dalle droghe, dal sesso, dalla ginnastica, dal lavoro…), resta un abisso incolmabile tra la possessione religiosa (anche nelle forme degradate del vudù, della xangò, del candomblé…) e le addictions di cui siamo vittime. Quanto all’inconscio, è troppo ricco di valori simbolici condivisi e troppo connesso col linguaggio per poter ancora descrivere la condizione contemporanea, la quale è molto più prossima alla psicosi che alla nevrosi.

Infatti, il modo di essere psicotico implica una catastrofe dell’autocoscienza, della conoscenza di se stessi e della significazione. Nulla di quanto viene detto in un contesto psicotico può essere oggetto di interpretazione: infatti non c’è – come nel racconto del sogno o del sintomo nevrotico – un affetto o un pensiero inconscio che si nasconda dietro al linguaggio. Nella psicosi questo diventa autonomo rispetto a colui che parla, lo possiede, prolifera in modo illimitato appropriandosi di ogni cosa e dei suoi contrari.
L’estraneità rispetto a se stesso che caratterizza il modo di essere psicotico è perciò spenta, inaccessibile, inerte, stagnante rispetto a una mobilizzazione dialettica e post-dialettica, perché il soggetto ignora la struttura simbolica della lingua che parla. Lo psicotico non può accedere alla conoscenza dell’altro, dello straniero, proprio perché non può conoscere se stesso, perché alla sua base sta un rigetto, un’espulsione, una preclusione (o, come dice Lacan, una forclusion) dell’ordine simbolico, cioè della struttura della società.

A differenza di quanto avviene nella rimozione, questo non può ritornare alla coscienza dello psicotico, perché non c’è mai stato! Perché è stato scartato per così dire ab origine.
Non bisogna tuttavia credere che questa estraneità a se stessi manchi di aggressività. Al contrario, la tendenza aggressiva costituisce un aspetto fondamentale della psicosi, la quale – mancando di mediazione simbolica – resta prigioniera di quel fenomeno psichico che Lacan ha definito come lo stadio dello specchio. Tale stadio si riferisce all’esperienza del bambino nell’età compresa tra i sei mesi e i diciotto mesi di vita. Come è noto, essa ha origine dal confronto tra l’immagine di se stesso che il bambino vede riflessa nello specchio e l’esperienza del proprio corpo reale: mentre quest’ultimo manca ancora di coordinazione e di unità, l’immagine speculare esercita su di lui un potere di fascinazione e di seduzione che lo imprigiona in una fissazione invalidante (captation). Per Lacan lo stadio dello specchio costruisce l’identità dell’io, il quale è perciò segnato irrimediabilmente da una frattura che gli impedisce di accedere a una effettiva autocoscienza e lo aliena rispetto a se stesso. Esso è il paradigma dell’immaginario, il quale è appunto caratterizzato da un narcisismo inseparabile dall’aggressività nei confronti dell’altro (chiamato piccolo altro, per distinguerlo dal grande Altro dell’ordine simbolico). L’io, fintanto che resta prigioniero dell’immaginario, non ha mai davanti a sé un’effettiva alterità, ma sempre soltanto la propria immagine. La costituzione dell’io come rivale di se stesso gli preclude l’accesso a un “vero” conflitto; da un lato l’aggressività e il conflitto gli appartengono strutturalmente, dall’altro, tuttavia, l’altro che gli si para davanti è ancora sempre se stesso. In altre parole, il “tu” con cui si confronta l’io non costituisce mai una “vera” alterità.

L’analisi di Lacan risulta molto chiara se si pensa a certi rapporti privati di carattere sentimentale, in cui i due partner si confrontano in interminabili e inconcludenti diatribe colme di accuse reciproche e di recriminazioni: appare evidente a chi ne è testimone che essi sono incapaci di andare oltre alle rispettive immagini speculari e restano prigionieri di una struttura nella quale l’altro non è che l’immagine del loro io rispettivo. Naturalmente, anche molti altri rapporti duali come quello tra psicoanalista e paziente, tra benefattore e beneficato, tra docente e discente… sono soggetti alla captazione immaginaria. Non bisogna perciò lasciarsi ingannare dall’asprezza che talora assumono tali conflitti: tale asprezza dipende dalla aggressività implicita nello stadio dello specchio, essi non sono “veri” conflitti perché manca loro proprio l’esperienza dell’opposto.

Se dai contesti comunicativi personali e privati passiamo a quelli pubblici, la sostanza delle cose non cambia. La maggior parte delle discussioni intorno alla xenofilia e alla xenofobia resta presa nella captazione immaginaria, specie quando è trattata dalla comunicazione massmediatica. La discussione a favore o contro l’immigrazione appare perciò compromessa da un vizio d’origine: l’Occidente non conosce più se stesso! Ne è una prova il fatto che molti editori italiani non sappiano più riprodurre correttamente i caratteri greci.

Tratto da: http://www.agalmaweb.org/editoriale.php?rivistaID=7

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