Massimo Recalcati, Libertà e vincoli affettivi e simbolici

by gabriella
Gorz e sua moglie

André Gorz e Dorine poco prima del loro suicidio

Tratto da Repubblica del 10 dicembre 2014.

Il nostro tempo esalta l’autonomia dell’Io come l’espressione più appagante della nostra libertà e considera la maturità psichica come la capacità di vivere nella più assoluta indipendenza, senza appoggiarsi all’altro. Questo è il mito della libertà come pura negazione dei vincoli simbolici e affettivi.

E tende ad irridere coloro che, al contrario, ammettono la loro vulnerabilità e la loro dipendenza dall’esistenza dell’altro. Alla luce della psicoanalisi il sogno di un soggetto che si fa il proprio nome da se stesso è un sogno puramente narcisistico. La vita umana è tale solo se sa riconoscere i propri rapporti di dipendenza senza negarli ferocemente. Senza la presenza dell’altro, dell’amore, la vita perde il suo senso. Tuttavia esistono legami dove la presenza dell’amato si è a tal punto insediata in noi stessi che la nostra vita fatica a vivere senza questa presenza. Senza questa presenza essa precipita traumaticamente nel buio.

Non necessariamente dobbiamo giudicare questi legami come patologici. Personalmente tendo a considerare assai più patologico chi vive dell’autosufficienza del proprio Io senza esporsi al rischio del legame. Si rilegga in questa luce, per fare un solo esempio, la struggente Lettera a D. di Andrè Gorz. La si rilegga senza pregiudizi né morali, né clinici. È la storia di un amore grande e irripetibile. È la storia di una avventura vissuta dai due protagonisti senza riserve. È una storia che ha coinciso con la vita dei due protagonisti. Si può allora giudicare il gesto estremo di Gorz di seguire nel regno dei morti la sua donna persa a causa di una malattia mortale? Non sarebbe forse meglio in questi casi tacere? Non sarebbe più opportuno sospendere ogni giudizio di fronte a qualcosa che non si può dire mai del tutto? Frequentemente l’esperienza ci mette di fronte alla impossibilità di chi sopravvive all’amato di continuare a vivere. Il suicidio, come nel caso di Gorz, non è il solo modo in cui questa verità può emergere. Una morte di crepacuore, una malattia grave, un incidente mortale o una scompensazione psichica profonda possono essere espressioni differenti di questa stessa impossibilità.

In questi casi l’assenza reale dell’amato risulta impensabile, traumatica, psichicamente indigeribile. Non si riesce a trasformare in una presenza simbolica; la vita non può più continuare perché ha perso il suo fondamento. Freud definiva con l’espressione “lavoro del lutto” la via alternativa a questo annientamento. Attraverso la fatica atroce di questo lavoro si può sopravvivere alla perdita dell’amato perché si riesce a trasformare l’assenza reale in una presenza simbolica; l’amato non è più di questo mondo, ma continua a vivere in noi e con noi.

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