Michel Foucault, La nascita dell’economia politica

by gabriella

Foucault2L’economia, nel doppio senso che l’inglese distingue in economy (l’oggetto) e economics (la disciplina che lo studia), comincia a costituirsi come campo solo nell’era moderna, in un lungo processo che culmina alla fine del XVIII secolo con la costituzione di un nuovo sapere: l’economia politica. Michel Foucault ha studiato questa genesi nel sesto capitolo de Le parole e le cose, un testo che ha il grande merito di mostrare come oggetto e disciplina si strutturino insieme, evitando quindi il grande anacronismo delle “storie interne”, e cioè quella forma narrativa antistorica che mette in scena un oggetto eternizzato nelle forme in cui oggi ci appare e segue l’affinamento degli strumenti concettuali forgiati per analizzarlo come se lo avessero sempre avuto di fronte.

 

‹ion�3��’à?€����������‡‡†‡‡ˆˆˆ‡ˆˆˆˆˆˆ1. Dall’analisi delle ricchezze all’economia politica

Lo sguardo archeologico di Foucault cerca di restituire la dimensione particolare del dibattito da cui nasce l’economia politica, senza cedere alla tentazione di vedere nei dibattiti del passato l’anticipazione di temi e problemi dell’oggi. Mantiene cioè operante quel rapporto di alterità che è condizione fondamentale della conoscenza storica (e antropologica). Attraverso i caratteri del tutto particolari dei problemi, Foucault contribuisce inoltre a indicarci la profonda storicità della teoria economica che non è letta come il progressivo affinarsi di una lettura di un dominio del reale (l’economia) dato come presente da sempre, ma mostra invece come il dibattito teorico e la costituzione del dominio economico procedano parallelamente.

I concetti che saranno alla base dell’economia politica – sostiene Foucault – sono stati pensati, nel corso del XVII e XVIII secolo, a partire da un altro terreno epistemologico, quello dell’analisi delle ricchezze. Per comprendere come si sviluppa il campo dell’economia politica è dunque necessario portare alla luce il campo dell’analisi delle ricchezze che lo precede e che lo rende possibile.

Il pensiero economico del XVI secolo è – secondo Foucault – limitato al problema dei prezzi (carattere assoluto o relativo del rincaro e della svalutazione) e della sostanza monetaria (rapporto tra i vari metalli e tra peso e valore nominale: i due problemi sono collegati poiché il metallo funziona come segno della ricchezza in quanto è esso stesso ricchezza, un “contrassegno reale”).

1.1 Moneta misura e monetmonetaa sostituto

Nel pensiero del XVI secolo la moneta può funzionare come misura solo in quanto contrassegno reale, cioè in quanto contiene una quantità di metallo conforme al suo valore nominale. Il segno, il valore imposto, non è che indice del peso, della misura. Ma proprio mentre viene imposta la riduzione della moneta segno alla moneta misura, si vengono a delineare alcune peculiarità della moneta segno che ne compromettono la funzione di misura. In primo luogo la legge di Gresham: moneta cattiva scaccia moneta buona.

  • Il bimetallismo, di cui parla anche Marx nella Critica dell’economia politica, fa sì che, a causa dell’oscillazione del rapporto di scambio dei due metalli (oro e argento) la moneta coniata nel metallo che si apprezza rispetto all’altro sparisca dalla circolazione per essere fusa e scambiata come metallo.
  • Jean Bodin

    Jean Bodin

    La tosatura delle monete: le monete di oro o argento erano spesso soggette a limatura o taglio di parti del metallo prezioso. Il bordo inciso delle monete nacque proprio per limitare il fenomeno della tosatura.

In secondo luogo il rapporto tra moneta e movimento dei prezzi, che fa apparire la moneta stessa come merce tra le merci e non come modello assoluto di tutte le equivalenze. La moneta ha un suo prezzo, il suo valore si modifica in relazione alla sua scarsità o frequenza. Nel 1568 Jean Bodin constata che l’aumento della massa metallica in circolazione, dovuta all’importazione dalle miniere del Nuovo Mondo, ha causato un rincaro reale delle merci. La causa del rialzo dei prezzi non è la tosatura, ma è l’abbondanza di oro e argento, di ciò che dà stima e prezzo alle cose.

1.2 Il mercantilismo: lo scambio e la costituzione del campo dell’analisi delle ricchezze

Per far emergere il campo dell’analisi delle ricchezze avrebbe dovuto dissolversi la configurazione del pensiero economico del XVI secolo e in particolare avrebbe dovuto rovesciarsi la relazione tra la moneta come misura e come sostituto e il prezzo. Nel XVI secolo le due funzioni (misura e sostituto) della moneta sono basate sul raddoppiamento del carattere intrinseco del metallo che la costituisce. Il metallo nobile è il prezioso per eccellenza, ed è per questo che può avere prezzo, misurare tutti i prezzi, scambiare con tutto ciò che ha prezzo. Il XVII secolo rovescia questa impostazione mettendo all’origine lo scambio. E’ nello scambio che si stabiliscono i rapporti tra moneta e ricchezze. Scipion de Grammont, riflettendo sul valore della moneta, scriveva (nel 1620):

La moneta non trae il proprio valore dalla materia di cui è composta, ma dalla forma che è l’immagine o il contrassegno del principe.

L’oro è prezioso perché è moneta, non il contrario. Per quanto scarsi i metalli nobili sono pur sempre in eccesso rispetto a tutti i possibili usi non monetari. La moneta (e il metallo) riceve il proprio valore dalla sua funzione di segno. Il valore delle cose non si riferisce più al valore del metallo ma si stabilisce di per sé, in riferimento a criteri di utilità, piacere o scarsità. Sono i rapporti reciproci tra le cose a definirne i valori, che il metallo si limita ad esprimere, rappresentare. Ciò che rende il metallo nobile (in sé quasi privo di utilità) perfetto per rappresentare le ricchezze (attraverso la monetazione) sono alcune sue caratteristiche materiali:

  1. è duro, imperituro, inalterabile;
  2. è infinitamente suddivisibile;
  3. è concentrato;
  4. è trasportabile;
  5. è facile da coniare.

Il rapporto tra moneta e ricchezze è dunque un rapporto arbitrario. Il mercantilismo libera la moneta dal postulato del valore intrinseco del metallo. La moneta ricava valore dalla sua funzione di segno universale. Ciò le permette di rappresentare e mettere in moto la ricchezza, di farla circolare. Il denaro diventa ricchezza solo quando assolve la sua funzione rappresentativa, quando cioè sostituisce le merci nello scambio, quando permette loro di spostarsi, quando permette di pagare le materie prime e il lavoro per produrre altre merci consumabili.

1.3 Pegno e prezzo

Sulla base delle esperienze della fine del XVII secolo (la scarsità del metallo circolante, che causa stagnazione economica e discesa dei prezzi) la concezione mercantilistica evolve secondo Foucault in una concezione della moneta-pegno. La moneta non è solo segno convenzionale, ma anche sostituto reale dei beni. Il rapporto di rappresentazione tra moneta e ricchezze è un rapporto proporzionale: la variazione dell’uno o dell’altro termine del rapporto farà variare la proporzione espressa nel sistema dei prezzi. John LockeLocke, la legge quantitativa:

Se prendiamo il grano come misura fissa, troveremo che l’argento ha subito nel proprio valore le stesse variazioni delle altre merci… La ragione è evidente. Dalla scoperta delle Indie, esiste dieci volte più argento nel mondo di quanto ne esisteva prima: esso vale anche nove decimi meno, cioè occorre darne 10 volte più di quanto se ne dava 200 anni fa per comprare la stessa quantità di merci» (John Locke, Considerations of lowering of interests).

Montesquieu

Montesquieu

Bisogna considerare le monete e le ricchezze come due masse gemelle che si corrispondono necessariamente:

Come il totale dell’una sta al totale dell’altra, la parte dell’una starà alla parte dell’altra (Montesquieu, L’esprit des lois). se l’industria, le arti e le scienze introducono nel cerchio degli scambi nuovi oggetti… occorrerà applicare, al nuovo valore di queste nuove produzioni, una proporzione dei segni rappresentativi dei valori; essendo presa sulla massa dei pegni, tale proporzione diminuirà la sua quantità relativa e proporzionalmente aumenterà il suo valore rappresentativo per far fronte a più valori, la sua funzione essendo di rappresentarli tutti, nelle proporzioni che ad essi convengono» (Graslin, Essai analytique sur les richesses).

Scompare dunque il tema medievale del “giusto prezzo”. Il prezzo può essere solo più o meno “adeguato”. Il problema analitico di quest’epoca è quello di comprendere quale sia la consistenza della massa monetaria adeguata a rappresentare le ricchezze, a mettere in moto, a far circolare le ricchezze che entrano nel ciclo dello scambio.

1.4 Il ciclo delle ricchezze

Oltre ad essere al centro della riflessione sul rapporto tra prezzi e moneta, il grande disastro spagnolo seguito all’importazione dei metalli preziosi dal nuovo mondo è anche all’origine delle riflessioni dei mercantilisti sul ciclo delle ricchezze. Il caso spagnolo insegna infatti che
“l’eccessiva abbondanza di denaro che fa, finché dura, la potenza degli stati li risospinge inesorabilmente e naturalmente nell’indigenza” (Cantillon).
L’afflusso di grandi quantità di metalli preziosi, infatti, causando un rapido aumento dei prezzi, rende conveniente per i privati comprare all’estero le merci a minor costo, e, in questo modo, fa che il metallo rifluisca inesorabilmente lasciando lo Stato in condizioni peggiori di prima. A contrastare questo fenomeno c’è il movimento opposto della popolazione. Se il denaro tende a muoversi dai paesi dove vi è più abbondanza (e prezzi più alti) a quelli poveri (con prezzi inferiori), la popolazione, attirata dalla possibilità di ottenere salari più elevati, si muove sulla direttrice opposta.
Alla politica spetta, secondo i mercantilisti, di comporre questi movimenti opposti, facendo sì che un aumento controllato e graduale della popolazione contribuisca ad aumentare le ricchezze prodotte e messe in circolazione. Perché questo avvenga è necessario, però, che il denaro in circolazione all’interno del paese continui ad aumentare (seppure leggermente), per potersi distribuire tra rendite, profitti e salari; e, a questo scopo, lo Stato deve adottare tutte le misure volte a favorire le esportazioni mantenendo una bilancia commerciale positiva nei confronti dell’estero. In altri termini, ciò che fa la prosperità di una nazione non è la quantità assoluta di ricchezze, ma la composizione positiva di due movimenti (della popolazione e della moneta). Questo introduce nel gioco dei segni un indice temporale (un indice che doveva apparire necessariamente da quando la moneta è assimilata al credito). E’ prospera una nazione che vede aumentare le ricchezze, rappresentate dai metalli preziosi.

1.5 Teoria del valore

La teoria della moneta tentava di stabilire come i prezzi possono caratterizzare le cose, come la moneta può rappresentare le cose in un sistema di segni. La teoria del valore intende invece rispondere alla domanda: perché esistono cose che valgono più di altre? Da cosa deriva il valore delle cose? Perché alcune cose che sono inutili hanno grande valore, mentre altre che sono utili non valgono niente (il paradosso del valore: l’acqua e i diamanti)?
Il carattere enigmatico del valore:
«perché una cosa possa rappresentare un’altra in uno scambio è necessario che entrambe esistano già cariche di valore; eppure il valore non esiste che all’interno della rappresentazione (attuale o possibile), cioè all’interno dello scambio e della scambiabilità. Donde due possibilità simultanee di lettura: la prima analizza il valore nell’atto stesso dello scambio, nel punto di incrocio del dato e del ricevuto; l’altra lo analizza in quanto anteriore allo scambio e condizione prima perché questo possa avere luogo» (Le parole e le cose, p. 210).
La lettura psicologica degli utilitaristi (Condillac, Galiani, Graslin) analizza il valore muovendo dallo scambio degli oggetti del bisogno, vale a dire degli oggetti utili; l’altra lettura, quella fisiocratica (Quesnay) parte dalla nascita degli oggetti di cui lo scambio fisserà poi il valore, cioè dalla prolissità della natura.

2. Gli economisti classici

2.1 Adam Smith e l’introduzione del concetto di lavoro

Adam-Smith-The-Wealth-of-NationsCiò che avviene di nuovo con Smith (e ancor di più con Ricardo) e che fa dissolvere l’analisi delle ricchezze facendo emergere l’economia politica è lo spostamento del concetto di lavoro, che fa della produzione, e non più dello scambio, la figura fondamentale nello spazio del sapere economico.

«Il lavoro annuo di una nazione è il fondo primitivo che fornisce al consumo annuo tutte le cose necessarie e comode alla vita; e tali cose sono sempre o il prodotto immediato di questo lavoro o comprate da altre nazioni con questo prodotto» «Il valore d’una derrata qualsiasi, per colui che la possiede e che non intende usarne o consumarla personalmente, ma che ha l’intenzione di scambiarla con un’altra cosa, è pari alla quantità di lavoro che tale derrata lo pone in condizione di comprare o ordinare»

Il lavoro contenuto in una determinata merce costituisce la misura del suo valore di scambio. Non si tratta, in realtà di qualcosa di completamente nuovo: era già in Cantillon, Quesnay, Condillac. Ciò che, secondo Foucault, fa di nuovo Smith è spostare il lavoro costituendolo come unità di misura irriducibile, invalicabile e assoluta. Ciò che le ricchezze rappresentano non è più l’oggetto del desiderio, ma il lavoro. Questo porta Smith a doversi confrontare con un problema: come può il lavoro essere la misura universale del valore se esso stesso ha un prezzo e questo varia? Smith sostiene che il lavoro, per chi lavora, è sempre uguale. Ciò che può variare, date certe condizioni di mercato, è il prezzo delle merci che si possono comprare con esso e, dall’altra parte, la quantità di prodotto che è possibile produrre, data la particolare produttività del lavoro, dovuta da un lato al perfezionamento delle tecnologie e dall’altro alla specializzazione delle attività produttive. E’ qui che interviene un concetto che in Smith gioca un ruolo essenziale: quello di divisione sociale del lavoro. Questo costituisce, infatti, il criterio in base al quale si misura l’evoluzione sociale ed economica di una società. Quanto più il lavoro è suddiviso, tanto più è produttivo e in grado di generare ricchezza. Questo fa sì che vi possano essere differenze tra le quantità di lavoro che possono essere incorporate in una stessa merce. L’esempio classico di Smith è quello della fabbrica di spilli.

Il piú grande miglioramento nelle forze produttive del lavoro, e la piú grande parte dell’abilità, della destrezza e del giudizio con cui ovunque è diretto o praticato, sembrano essere stati gli effetti della divisione del lavoro medesimo […].

Prendiamo dunque un esempio della divisione del lavoro in una manifattura di poco momento e che spesso è citata, quella, cioè, dello spillettaio. Un operaio non educato in questa manifattura, che a causa della divisione del lavoro ha fatto uno speciale mestiere, non abituato all’uso delle macchine che vi s’impiegano, ed all’invenzione delle quali la stessa divisione del lavoro ha probabilmente dato occasione, con gli ultimi sforzi di sua industria forse appena farà uno spillo in un giorno, e certamente non ne farà mica venti. Ma nel modo, con cui ora si esegue tale manifattura non solo è essa uno speciale mestiere, ma si divide in molti rami, di cui la piú gran parte è similmente un mestiere speciale: un uomo tira il filo del metallo, un altro dirizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto l’arrota all’estremità ove deve farsi la testa; farne la testa richiede due o tre distinte operazioni, collocarla è una speciale occupazione, pulire gli spilli ne è un’altra, ed un’altra ne è il disporli entro la carta; e in questo l’importante mestiere di fare uno spillo si divide in circa diciotto distinte operazioni, che in alcune fabbriche sono tutte eseguite da distinte mani, benché in altre dallo stesso uomo se ne eseguono due o tre. Ho veduto una piccola fabbrica di questa manifattura, ove dieci uomini solamente erano impiegati, ed ove però ciascuno di loro eseguiva due o tre operazioni. Essi quantunque fossero assai poveri, e perciò non usassero molto le macchine necessarie, pure quando a vicenda vi s’impegnavano facevano dodici libbre di spilli in un giorno. Una libbra contiene piú di mille spilli di grandezza media. Quei dieci individui dunque potrebbero insieme fare piú di quarantottomila spilli in un giorno. Ciascuno di loro dunque, facendo una decima parte di quarantottomila spilli, può essere considerato farne quattromilaottocento in un giorno. Or se essi avessero lavorato separatamente e indipendentemente l’uno dall’altro, e senza che alcuno di loro fosse stato educato ad una speciale operazione, ciascuno di loro non avrebbe potuto compiere venti spilli, e forse neanche uno in un giorno, cioè certamente non la duecentoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono intanto capaci di compiere in conseguenza di una bene accomodata divisione e combinazione delle loro differenti operazioni.

La divisione del lavoro sociale si presenta in Smith come criterio di classificazione dell’avanzamento della civiltà: in una società primitiva c’è molta variabilità di occupazioni per lo stesso individuo, ma pochissima variabilità a livello sociale generale. Smith identifica quattro fasi dell’avanzamento della civiltà in base alla divisione del lavoro:

1) età dei cacciatori, economia basata sul prelievo dei frutti spontanei, la caccia, la pesca; società molto poco differenziata;

2) età della pastorizia, aumento demografico; aumento degli scambi che riguardano sopratutto quei prodotti dell’allevamento che risultano in eccesso rispetto alle necessità dei produttori; inizio di concentrazione della ricchezza e del potere;

3) età dell’agricoltura, aumento demografico, maggior divisione del lavoro, concentrazione ulteriore di ricchezza e potere;

4) età del commercio, incremento di scambi e divisione del lavoro, creazione di ampi mercati, favorita anche dalla maggiore facilità dei trasporti. Tornando a Foucault, il passaggio realizzato da Smith può essere detto in questo modo: se per l’esperienza soggettiva di chi scambia ciò che si scambia è l’utile (il bisogno o il piacere), per l’economista a circolare attraverso lo scambio è il lavoro. L’equivalenza tra gli oggetti non è più stabilita in riferimento ad altri oggetti, ma in virtù di qualcosa di esterno e di radicalmente eterogeneo.

se esiste un ordine delle ricchezze, se questo può comprare quello, se l’oro vale due volte più dell’argento, ciò accade non perché gli uomini hanno desideri suscettibili di confronto, o perché, attraverso il loro corpo, sperimentano la medesima fame, o perché il cuore di tutti quanti obbedisce alle medesime sollecitazioni; ma perché sono tutti assoggettati al tempo, alla fatica e, toccando il limite, alla morte» (Le parole e le cose).

E’ questo, per Foucault, un passaggio fondamentale, che introduce una dimensione centrale, quella della finitudine.

2.2 David Ricardo e i fondamenti dell’economia politica

David Ricardo

David Ricardo

Si può dire che, per Foucault, Ricardo sia il vero fondatore dell’economia politica. Mentre Smith rimane, infatti, all’interno del sistema settecentesco della rappresentazione, Ricardo ne fuoriesce completamente.

Per Smith il lavoro rappresenta la misura costante del valore delle cose. Ma per poter fare del lavoro la misura costante del valore è necessario supporre che la quantità di lavoro necessaria per produrre una cosa sia pari alla quantità di lavoro che questa cosa può a sua volta acquistare.

Ricardo riconosce in Smith una confusione tra il lavoro in quanto attività necessaria alla produzione e il lavoro merce che può essere comprata e venduta. Ora, se il lavoro in quanto attività produttiva può essere ritenuto la misura costante del valore, il lavoro merce non può invece essere utilizzato come misura costante, dal momento che è soggetto alle stesse variazioni di tutte le altre merci.

La differenza tra Smith e Ricardo sta in questo: per il primo il lavoro, per il fatto di essere analizzabile in giornate di sostentamento, può servire da unità comune a tutte le altre merci (di cui fanno parte le derrate stesse necessarie per il sostentamento); per il secondo la quantità di lavoro consente di stabilire il valore di una cosa, non già soltanto perché questa è rappresentabile in unità di lavoro, ma in primo luogo e fondamentalmente perché il lavoro in quanto attività di produzione è «la fonte di ogni valore». Questo non può più essere definito come nell’età classica, movendo dal sistema totale delle equivalenze, e dalla capacità che possono avere le merci di rappresentarsi a vicenda. Il valore ha cessato d’essere un segno: esso è divenuto un prodotto.

Il lavoro è dunque fonte del valore. E’ dal lavoro che nasce ogni possibile valore. Non è più all’interno della catena della rappresentazione, dove tutti gli elementi sono definiti nello scambio. Non è più lo scambio lo sfondo invalicabile dell’analisi delle ricchezze (non si da più, come ancora in Smith, la situazione originaria del baratto per costituire il discorso economico). Con Ricardo la possibilità stessa dello scambio è fondata sul lavoro. L’analisi della produzione deve necessariamente precedere l’analisi dello scambio.

Tutto ciò ha per Foucault tre conseguenze:

  1. si instaura una serie causale radicalmente nuova: le ricchezze, invece di distribuirsi in un quadro costituendo un sistema di equivalenze, si organizzano e accumulano in una concatenazione temporale. Si passa così dallo spazio simultaneo delle differenze e identità al tempo delle produzioni successive;
  2. la nozione di rarità nel periodo classico si riferiva al bisogno (aumentava o diminuiva in relazione all’aumento o alla diminuzione dei bisogni). Nel pensiero classico vi è rarità perché c’è desiderio di oggetti e c’è ricchezza perché la terra produce di più di ciò che è necessario al sostentamento di chi la coltiva, liberando dei beni che ne possono rappresentare altri nello scambio. Ricardo rovescia i termini dell’analisi: l’apparente generosità della terra è dovuta alla sua crescente avarizia; ciò che è primario non è il bisogno, quanto una scarsità originaria. Il lavoro compare solo nel momento in cui gli uomini non riescono più a cibarsi dei soli frutti spontanei della terra: l’umanità non lavora altro che sotto la minaccia della morte per fame. L’accesso sempre più arduo ai mezzi di sostentamento comporta una crescita continua dell’intensità del lavoro necessario. La positività dell’economia si situa nella cavità antropologica di una specie sempre in lotta per allontanare la morte.
  3. la necessità di usare per la produzione alimentare terre sempre meno fertili e produttive porta a far espandere progressivamente la rendita fondiaria a danno degli altri redditi fino a determinare una sorta di stagnazione dell’economia.
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