Nicola Gallerano, L’uso pubblico della storia. Bodei, Fine delle filosofie della storia?

by gabriella

Staccandosi dalla connotazione negativa che Jurgen Habermas aveva attribuito alla locuzione ‘uso pubblico della storia’, lo storico italiano Nicola Gallerano mostra come da sempre nell’operazione storiografica «la dimensione cognitiva si affianchi e si mescoli con quella affettiva, intrisa di valori, predilezioni, scelte non o pre-scientifiche». Nello specifico le rotture da cui è nata la contemporaneità hanno da una parte fatto perdere la fiducia ingenua di cui erano portatori gli storicismi classici e dall’altra hanno fatto emergere un bisogno di identità e di radicamento i cui effetti sono rintracciabili in una «ipertrofia dei riferimenti storici nel discorso pubblico».

Dall’Introduzione di Nicola Gallerano a L’uso pubblico della storia, F.Angeli, Milano, 1995, p. 7-8.

«Uso pubblico della storia» è una definizione che risale a Jurgen Habermas ed è stata da lui applicata alla «disputa tra gli storici» tedeschi [in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987, pp. 102-103]. Per uso pubblico della storia Haberman intende un dibattito che è in ultima istanza etico e politico sul passato. Un dibattito che si svolge «in prima» e non già «in terza» persona, a sottolineare cioè che non si tratta di una disputa scientifica – che richiede appunto la “terza” persona – ma di un contesto che coinvolge direttamente memoria, identità individuali e collettive, giudizi politici sul presente e sul futuro.

L’uso pubblico della storia non è certo un fenomeno di questi giorni; si può dire che sia nato con la nascita della storia come attività conoscitiva. In questi anni, tuttavia, ne abbiamo sperimentato una intensificazione, persino un’ipertrofia: un risultato cui hanno concorso almeno due fattori. Da un lato la grande svolta della storia contemporanea, avviata nel 1989 con il crollo del comunismo e la fine del bipolarismo, ha indotto una riscrittura impaziente del passato ad opera dei più diversi soggetti (politici, operatori del media, ma anche storici): tanto più impaziente, quanto meno una storiografia degna del nome era in grado di offrire instant book e ricette miracolose per leggere un mutamento vissuto come epocale. Dall’altro, questo mutamento ha coinciso con l’asserita perdita di peso e di credibilità scientifica della storiografia, annunciata anche dagli addetti ai lavori dopo le vicende contrastate degli ultimi vent’anni: uno storico americano è giunto ad affermare che «in quanto impresa dotata di scopi, tecniche, convinzioni comuni, la disciplina della storia ha cessato di esistere» [P. Novick, That Noble Dream. The ‘Objectivity Question and the American Historical Profession, Cambridge University Press, 1988].

Ma la congiuntura certamente straordinaria che stiamo vivendo, se è lo stimolo principale che ci ha spinto a interrogarci oggi sull’uso pubblico della storia, non deve oscurare il fatto che queste pratiche hanno a loro volta una storia e possono essere periodizzate. Quanto ai contenuti, i dibattiti odierni sul passato del novecento non nascono dal nulla: la «disputa tra gli storici» ad esempio, precede il 1989 e anticipa i termini del conflitto attuale sulla seconda guerra mondiale, sul fascismo e sul nazismo, sulla identità nazionale dei paesi europei, ecc.. Più in generale, è forse possibile datare con qualche precisione la fase nella quale l’uso pubblico della storia ha assunto caratteri peculiari, trasformando il passato in un’arena dei conflitti politici del presente e non negandosi alcun settore della comunicazione: l’ipotesi che qui viene formulata è che un punto di svolta decisivo sia collocabile negli anni Venti e Trenta, dopo la Grande Guerra e quando si fa diffuso e incisivo l’uso dei mezzi di comunicazione di massa.

Remo Bodei, Fine delle filosofie della storia?

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