Nietzsche, Felicità e temporalità

by gabriella

Passi dagli aforismi 1 e 4 della Seconda inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita.

Friedrich_Nietzsche1. Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piolo, per così dire, dell’attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l’uomo poiché egli si vanta, di fronte all’animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello — giacché egli vuole soltanto vivere come l’animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L’animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire — ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò.

Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo.  Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l’animale vive in modo non storico: perché esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi essere altro che sincero. L’uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato: questo l’opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, vedere il gregge che pascola o, in più intima vicinanza, il bambino che non ha ancora niente di passato da rinnegare e gioca in beatissima cecità tra i recinti del passato e del futuro. E tuttavia gli si deve disturbare il gioco: solo troppo presto viene richiamato dal suo oblìo. Impara allora a comprendere la parola «c’era», quella parola d’ordine con cui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano all’uomo per ricordargli che cos’è in fondo la sua esistenza — qualcosa di imperfetto mai perfettibile. Quando infine la morte porta l’oblìo desiderato, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza e imprime così il sigillo su quella conoscenza — che l’esistenza, cioè, è soltanto un essere stato senza interruzioni, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddirsi.

Se ciò che mantiene in vita il vivente e che continua a spingerlo a vivere è, in un certo senso, una felicità, cercare una nuova felicità, forse nessun filosofo ha più ragione del Cinico, poiché la felicità dell’animale, come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo. La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico.Chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos’è la felicitàe ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.

Immaginatevi l’esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a se stesso, vedrebbe scorrere ogni cosa l’una dall’altra in un movimento di punti e si perderebbe in questa fiumana del divenire: infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito. Ad ogni azione occorre l’oblìo: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l’oscurità.Un uomo che volesse sentire in tutto e per tutto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere soltanto del suo ruminare e di un sempre ripetuto ruminare.Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare. Ovvero, per spiegarmi ancor più semplicemente sul mio tema: vi è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente viene danneggiato e alia fine va in rovina, sia esso unuomo, un popolo o una civiltà.

[…]

4. […] Infine l‘uomo moderno si trascina dietro una massa enorme di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occasione rumoreggiano regolarmente nel corpo, come si narra nella favola. Con questo fracasso si tradisce la caratteristica più propria di quest’uomo moderno: la curiosa opposizione di un interno al quale non fa riscontro nessun esterno, e di un esterno al quale non fa riscontro nessun interno, un’opposizione che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene raccolto a dismisura senza fame, anzi contro il bisogno, ora non agisce più come motivo trasformatore e incalzante verso l’esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che quell’uomo moderno, con singolare superbia, indica come «interiorità» a lui peculiare. Inoltre si dice che si possiede il contenuto e che manca solo la forma; cosa che, per ogni essere vivente, è una opposizione assolutamente innaturale. Per questo motivo la nostra cultura moderna manca di un contenuto vitale, perché non la si può pensare senza questa opposizione, vale a dire essa non è una vera cultura ma solo un sapere di una certa specie intorno alla cultura, essa si arresta solo al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, ma non ne scaturisce una risoluzione di cultura. Ciò che al contrario è realmente motivo e che si manifesta esternamente in forma di azione, spesso non significa molto di più che un’indifferente convenzione, una pietosa imitazione o persino una grossolana smorfia. Allora il sentimento s’acquieta nell’interiorità, simile a quel serpe che ha inghiottito interi conigli e si stende quindi quietamente al sole e si astiene da tutti i movimenti, eccetto i più necessari. Il processo interiore: questo è ora la cosa stessa, questo è la «cultura» vera e propria. Chiunque passi desidera ora unicamente che una tale cultura non soccomba per l’indigestione. Ci si figuri, per esempio, un Greco che passi davanti ad una tale cultura: egli percepirebbe che per gli uomini moderni «colto» e «storicamente colto» sembrano così connessi come se fossero una cosa sola, divisi soltanto dalla quantità delle parole. Se egli ora esprimesse la sua tesi: una persona può essere molto colta e in nessun modo dotata di una cultura storica, si penserebbe di non avere udito esattamente e si scuoterebbe il capo.

Quel famoso piccolo popolo di un passato non troppo remoto, intendo appunto i Greci, aveva ostinatamente mantenuto nel periodo della sua maggior forza un senso non storico; se un contemporaneo potesse per magia tornare in quel mondo, probabilmente troverebbe i Greci molto «incolti », e così sarebbe certamente esposto al pubblico ludibrio il segreto così meticolosamente occultato della cultura moderna: infatti noi moderni non caviamo nulla da noi stessi: solo colmandoci e soverchiandoci di epoche, costumi, arti, filosofie, religioni, cognizioni straniere, diventiamo qualcosa meritevole di stima, vale a dire enciclopedie ambulanti, quali forse ci definirebbe un antico Greco sbalestrato nel nostro tempo. Nelle enciclopedie si trova però ogni valore solo in ciò che c’è dentro, nel contenuto, non in ciò che sta al di sopra o che è legatura e copertina; e così tutta la moderna cultura è sostanzialmente interna: sulla parte esterna il rilegatore ha impresso parole di questo tenore: «Manuale di cultura interna per barbari esterni».

 

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