Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci appartenga

by gabriella

plutotlavie2Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento

Raoul Vaneigem

La scuola ricorda i penitenziari – osserva Vaneigem – la sua bruttezza e il suo degrado incitano al vandalismo. Bisogna allora distruggerla? Domanda doppiamente assurda. Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano – e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi – professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti?

La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l’usura programmata dei loro materiali di paccottiglia. Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo alle energie represse. Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie, macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza, sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola pedagogica quotidiana.

Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella sfida il bagliore di entusiasmo che è loro negato. Così i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche e governative scadono – per assenza di creatività – nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l’intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?

Per evitare l’esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità hanno saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate. Il lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato della tirannia. La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell’insegnante e dell’allievo imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta, della frustrazione e della rabbia. Ma essa è anche il luogo privilegiato di una rinascita. Porta in gestazione la coscienza che è al centro della nostra epoca: assicurare la priorità di ciò che vive sull’economia di sopravvivenza.

Che l’infanzia sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il meraviglioso invece di esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si trovi l’insegnamento, se non vuole cadere in seguito nella barbarie della noia, di creare un mondo di cui sia permesso meravigliarsi. Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi che tanti sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così mediocri. Che cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles Fourier, nel corso di un’insurrezione, osservando con quale cura e quale ardore gli agitatori disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano una barricata in qualche ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero voluti tre giorni di lavoro ad una squadra di sterratori agli ordini di un padrone.

Perché diventare ciò che si è esige la più intransigente delle risoluzioni. Ci vuole costanza e ostinazione. Se non vogliamo rassegnarci a consumare delle conoscenze che ci ridurranno al miserabile stato di consumatori, non possiamo ignorare che, per uscire dall’imbroglio in cui si è impantanata la società del passato, dovremo prendere l’iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come? Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un impiego ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà tutto l’impiego che farete di voi stessi? Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che abolisce l’insoddisfazione in nome dell’insaziabilità.

Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle proprie capacità.

Ma ormai la scuola è un carcere affollato. Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non vedo che la sferza o l’astuzia. Ma non invocate l’impossibilità materiale di promuovere un insegnamento personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia, grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio, declinazioni…)? Oppure di verificare come in un gioco il grado di assimilazione e di comprensione?

Così liberato di un’occupazione ingrata e meccanica, l’educatore non avrebbe più che da dedicarsi all’essenziale del suo compito: assicurare la qualità delle informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione di individui autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno a leggersi e a leggere il mondo.

Raoul Vaneigem, Avertissement aux licéens

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