Oliver Sacks, Il paradosso creativo del deficit e della malattia

by gabriella

Antropologo su Marte

«Sono stato un essere senziente, un animale pensante di questo splendido pianeta, ed è stato un enorme privilegio e un’immensa avventura».

30 agosto 12015

Oliver Sacks è morto il 30 agosto 2015. Sotto un brano del suo Antropologo su Marte sul potenziale benefico dell’ipercompensazione – una dinamica psicologica di per sé non esente da rischi.

La circostanza da cui Sacks prende avvio, nella prefazione di Un antropologo su Marte [Milano, 1998], mi ha ricordato un’esperienza analoga di molti anni fa e la sottile soddisfazione nel constatare quali possibilità possano aprirsi a chi abbia deciso di sbucciarsi una mela pur avendo perso temporaneamente l’uso di un braccio.

Le osservazioni di questo clinico, così comuni ma anche così innovative in un ambito oggi incline al riduzionismo e al biologicismo delle neuroscienze, meritano di essere attentamente considerate dagli studiosi di psicologia.

L’immaginazione della natura è più ricca della nostra

Freeman Dyson

Sto scrivendo con la mano sinistra, sebbene io sia decisamente destrimane. Un mese fa sono stato operato alla spalla destra e a tutt’oggi non devo usare il braccio destro – né sarei capace di farlo. Scrivo in modo lento e goffo, ma ogni giorno che passa acquisto disinvoltura e naturalezza. E’ un continuo adattarmi a imparare a usare la sinistra: non solo per scrivere ma anche per fare molte altre cose. Per compensare il fatto di avere un braccio appeso al collo, sono diventato molto abile – prensile – con le dita dei piedi.

oliver-sacksSulle prime, quando mi immobilizzarono il braccio, per qualche giorno mi sentii sbilanciato; ma ora cammino in modo diverso e ho scoperto un nuovo equilibrio. Sto sviluppando modelli diversi, abitudini diverse ... un’identità diversa, si direbbe, almeno in questa sfera particolare.

Di sicuro, in alcuni dei miei programmi e dei circuiti del mio cervello stanno avvenendo dei cambiamenti: cambiamenti che alterano i pesi, le connessioni e i segnali sinaptici, ma i nostri metodi di visualizzazione dell’attività cerebrale sono ancora troppo grossolani per poterli mostrare.

Alcuni dei miei adattamenti sono intenzionali e pianificati, e li ho appresi, almeno in parte, attraverso un processo di prova ed errore (nella prima settimana mi sono fatto male a tutte le dita della mano sinistra), ma moltissimi sono avvenuti da sé, inconsciamente, attraverso riprogrammazioni e riadattamenti dei quali non so nulla (non più di quanto sappia o possa sapere sul modo in cui cammino normalmente). Il mese prossimo, se tutto andrà bene potrò cominciare ad adattarmi di nuovo, a riacquisire uso completo (e “naturale”) del braccio destro, a reinserirlo nella mia immagine corporea, in me stesso, insomma a diventare nuovamente un essere umano abile e capace di servirsi della destra.

In queste circostanze, però, la guarigione non è affatto automatica, come accadrebbe nel caso di un semplice processi di cicatrizzazione tissutale: essa comporta tutto un insieme di aggiustamenti muscolari e posturali, un’intera sequenza di nuove procedure (e la loro sintesi) nonché l’apprendimento e la scoperta di una nuova via verso la guarigione. Il mio chirurgo, un uomo comprensivo che ha subìto lui stesso la stessa operazione, mi ha detto:

“Esistono consigli, divieti e raccomandazioni di ordine generale. Ma i particolari bisogna trovarseli da sé”.

Jay,  il mio fisioterapista, ha detto qualcosa di simile:

“L’adattamento segue una strada diversa in ogni persona. Il sistema nervoso crea le sue vie. Lei è un neurologo, e deve accorgersene in continuazione”.

L’immaginazione della natura, come ama ripetere Freeman Dyson, è più ricca della nostra; egli parla meravigliandosene, di questa ricchezza del mondo fisico e biologico, dell’infinita varietà di forme nel mondo fisico e in quello dei viventi. Per me, come medico, la ricchezza della natura deve essere studiata nei fenomeni della salute e della malattia, nelle infinite forme di adattamento individuale attraverso cui gli organismi umani – le persone – adattano e ricostruiscono se stessi quando vengono posti di fronte alle sfide e alle vicissitudini della vita.

Difetti, disturbi e malattie, possono in questo senso, avere un ruolo di paradosso, portando alla luce risorse, sviluppi, evoluzioni e forme di vita latenti che, in loro assenza, potrebbero non essere mai osservati e nemmeno immaginati.  E’ proprio il paradosso della malattia, questo suo potenziale “creativo” che forma il tema centrale di questo libro.

Perciò, se è vero che si può inorridire alla vista della devastazione prodotta dai disturbi o alle malattie dello sviluppo, è vero anche che a volte è possibile considerarle eventi creativi, perché pur distruggendo particolari vie, certi modi di fare le cose, possono tuttavia forzare il sistema nervoso ad aprire nuove strade e ad escogitare nuovi modi, inducendolo a crescere e a evolvere in maniera inaspettata. Quest’altra faccia dello sviluppo   o della malattia è qualcosa che vedo potenzialmente, quasi in ogni paziente; ed è proprio di essa che mi interessa parlare qui.

Considerazioni simili vennero introdotte da Alexander R. Lurija che, più di qualunque altro neurologo del suo tempo, studiò la sopravvivenza a lungo termine di pazienti colpiti da tumori, ictus o traumi cerebrali (e i modi e gli adattamenti dei quali si servivano per sopravvivere) Da giovanissimo, Lurija studiò anche i bambini sordi e ciechi con il suo mentore Lev S. Vygotskji. Quest’ultimo faceva osservare l’integrità, più che i deficit, di questi bambini:

VygotskijUn bambino deficitario presenta un tipo di sviluppo diverso, particolare, .. Se un bambino sordo o cieco raggiunge nello sviluppo lo stesso livello di un bambino normale, significa che i bambini deficitari raggiungono lo stesso livello in un altro modo, per un’altra via, con altri mezzi e per il pedagogo è particolarmente importante conoscere lo speciale percorso lungo il quale deve condurre il bambino. La chiave di questa peculiarità è data dalla legge di trasformazione del “meno” del deficit nel “più” della compensazione.

Il fatto che potessero aver luogo fenomeni di adattamento così radicali richiedeva, a giudizio di Lurija, una nuova concezione del cervello, da intendere non come qualcosa di programmato e statico, ma piuttosto come un sistema adattivo sommamente efficiente, dinamico e attivo, equipaggiato per l’evoluzione e il cambiamento, costantemente impegnato ad adattarsi alle necessità dell’organismo (prima tra tutte quella di costruire un sé e un mondo coerenti, indipendentemente dalla presenza di difetti o disturbi della funzione cerebrale).

Il fatto che il cervello sia differenziato fin nei minimi dettagli è un chiaro dato reale: ci sono centinaia di minuscole aree cruciali per ogni aspetto della percezione e del Lurijacomportamento (dalla percezione del colore e del movimento fino, forse, all’orientamento intellettuale dell’individuo). Il miracolo sta nel modo in cui tali aree cooperano e sono reciprocamente integrate nella creazione di un sé [1].

Questa idea della grande plasticità del cervello, capace degli adattamenti più impressionanti, perfino nelle circostanze particolarissime (e spesso disperate) di handicap neurale o sensoriale, è arrivata a dominare la mia personale percezione dei miei pazienti e delle loro vite, al punto che a volte sono spinto a chiedermi se non sia necessario ridefinire i concetti stessi di “salute” e “malattia” per considerarli non più nei termini di una “norma” rigidamente definita, ma in quelli della capacità dimostrata dall’organismo di creare un ordine e un’organizzazione nuovi, adatti alla sua disposizione e alle sue esigenze, così particolari e alterate.

La malattia implica una contrazione della vita, ma tali contrazioni non devono aver luogo. Quale che sia il loro problema, mi sembra che quasi tutti i miei pazienti siano protesi verso la vita, e non solo a dispetto delle loro condizioni, ma sovente proprio a causa di esse e perfino con il loro aiuto. […]

Noteedelman

1. Questo, in effetti, è il problema, la domanda ultima, delle neuroscienze, e non può ricevere risposta, nemmeno in linea di principio, senza una teoria globale della funzione cerebrale capace di mostrare le interazioni di ogni livello, dai micromodelli delle risposte dei singoli neuroni, ai macromodelli di una vita vera, vissuta. Una teoria di questa portata, cioè una teoria neuronale dell’identità personale è quella della selezione dei gruppi neuronici, nota anche come “darwinismo neurale“, proposta qualche anno fa da Gerald M. Edelman.

 

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