Paolo Ercolani, Le metamorfosi del potere

by gabriella

leviathanParafrasando un celebre frammento di Eraclito, in cui il grande filosofo antico si riferiva alla natura, potremmo dire che l’epoca della società in rete, o della globalizzazione, è quella in cui il potere ha subito una trasformazione tanto poco percettibile quanto sostanziale e profonda: siamo infatti passati dal potere che nasconde, censura, manipola o coarta il flusso delle informazioni (o disinformazioni), a quello che ama nascondersi, trasfigurare i propri meccanismi di funzionamento e influenza, mascherare i luoghi del proprio abitare e operare. Lo scopo è sempre lo stesso, la perpetuazione del potere stesso, ma le modalità mutate debbono indurre a più di una riflessione. Dal Rasoio di Occam.

 

 

1. Luci e ombre

Il Potere che ama nascondersi è quello a cui non importa più se e quanto la popolazione possa o debba sapere, perché il suo essere nascosto, tale per cui non si sa bene chi lo detiene, da dove e con quali modalità di esercizio, gli consente comunque di attuare un dominio sulla pubblica opinione (nonché sulle menti e sui corpi degli individui), ancora più capzioso perché in grado di inserirsi nei meandri della mente collettiva e assurgere al rango di senso comune consolidato, pensiero unico difficilmente smentibile se non al prezzo di essere tacciati di follia o paranoia.

 A un livello squisitamente tecnico la questione non deve sorprendere più di tanto, se è vero che già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause:

«il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce»[1].

 Tanto l’oscurità più totale, quanto un eccesso di luce producono degli esseri umani incapaci di pervenire alla distinzione chiara delle cose e quindi alla conoscenza, limitandoli bene che vada a una pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. E qui entra in gioco la Rete, onnipotente e generosissima dispensatrice di informazioni infinite e di ogni genere, in cui è possibile rintracciare l’avallo a qualsiasi ipotesi anche strampalata e al suo contrario. Il risultato, ovviamente, è quello di una impossibilità di approssimarsi a delle verità nitide, abbagliati dalla troppa luce dell’«opulenza informativa» e dimentichi che il tutto confina paurosamente con il nulla.

 Entriamo così nel nerbo di quel «cambiamento radicale» nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere di cui ci parlava Maldonado:

«Nel passato, anche quello più recente, tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, ora invece è l’opulenza informativa che viene privilegiata»[2].

 Siamo perfettamente all’interno dell’intuizione di Platone, ripresa efficacemente da Günther Anders quando nel 1980 descriveva il «metodo odierno» del potere, che impedisce la comprensione non più fornendo poche notizie ai cittadini, ma fin troppe, mettendoci in una condizione per cui

«veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta»,

e impedendoci quella «visione d’insieme» delle cose che per Hegel rappresentava una dote imprescindibile nel cammino della conoscenza[3].

 

2. L’èra post-democratica

 Che non si sta parlando di questioni minimali, è un fatto agevolmente riscontrabile non appena ci si riferisca ai grandi padri del liberalismo contemporaneo, concordi nell’affermare che il cammino della democrazia, per quanto imperfetto e irto di contraddizioni, avanza inesorabile soltanto laddove vi siano cittadini informati e critici, disposti a impegnarsi nelle faccende della società civile in seguito all’acquisizione di una conoscenza che si traduce in costruzione del bene comune. Informazione e autonomia critica sono le doti fondamentali dei cittadini di una democrazia, quelle che permettono di esercitare il «controllo pubblico del potere»,

«tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, e praticamente illimitato»[4].

 Insomma, se una delle essenze dell’essere umano è quella di configurarsi come homo politicus, nella misura in cui si serve della propria ragione e delle conoscenze a disposizione per contribuire al progresso della società, questa facoltà va potenziata e resa possibile dalla «pianificazione» di un consorzio sociale in cui siano ampiamente garantite le libertà degli individui, a partire da quelle

«istituzioni sociali che proteggano la libertà di critica e di pensiero» e impediscano di votarsi a platoniche «autorità pseudo-razionali»[5].

L’autorità più razionale che ha reso possibile il progredire delle società occidentali è lo Stato, inteso come res publica e quindi luogo in cui l’individuo è cittadino in quanto caratterizzato da diritti e doveri universalmente riconosciuti (almeno in linea teorica), a cominciare dal diritto-dovere per antonomasia: l’espressione di un consenso politico ed elettorale informato e maturo, volto alla formazione di quel potere legislativo in vista del bene comune.

Naturalmente, il potere dello Stato, esposto alle degenerazioni e agli abusi propri di ogni condizione di supremazia, oltre che a livello costituzionale e di equilibrio dei poteri, dovrebbe essere controllato dai cittadini stessi, la cui vigilanza interessata alla tutela dei propri diritti porta a un controllo efficace degli stessi governanti, secondo quanto sanzionato dalla stessa Corte di giustizia dell’Unione europea[6]. Si tratta di quella «democrazia di sorveglianza»[7] di cui parla Pierre Rosanvallon, che oggi viene minata dal forte indebolimento dei due pilastri su cui essa ha trovato fondamento e determinatezza pratica e concettuale: da una parte lo Stato, ormai «incapace di controllare le reti globali della ricchezza, del potere e delle informazioni»[8]; dall’altra l’opinione pubblica, uniformata, indebolita e alla fine resa passiva da un sistema di vecchi e nuovi media fondato su quella che Pasolini chiamava «misologia», cioè da un’operazione meticolosa e sistematica di distruzione del libero pensiero, dell’autonomia critica e dell’impegno politico e culturale, al punto da qualificare la nostra come l’epoca della «mediacrazia»[9].

 

3. L’impero invisibile

Sulle macerie dello Stato e di un’opinione pubblica informata e critica si è determinato un Potere nuovo, che trova nell’economia e nella tecnica i pilastri su cui fondarsi. Un Potere sovranazionale e ramificato ben oltre i confini statuali, capace di essere al tempo stesso in tutti i luoghi e in nessuno. Che alla ricerca del bene comune sociale ha sostituito il perseguimento del profitto economico, mentre alle dinamiche istituzionali fondate sul consenso e sul pronunciamento democratico dei cittadini oppone sempre più la platea virtuale, indistinta e quindi sterile della popolazione in Rete.

Quello che Daniel Estulin ha chiamato «potere invisibile», perfettamente in grado di sostituirsi al vecchio Stato, esattamente come l’idea di «Paese» viene soppiantata da quella di «Impresa mondiale Spa» e il «popolo» stesso perde di rilevanza a favore dei più impersonali «interessi»[10]. Lo sappiamo bene noi in Italia, del resto, che per un anno abbiamo avuto un governo, quello presieduto dai cosiddetti «professori», capitanato da un Presidente del Consiglio (Mario Monti) che non si faceva alcuno scrupolo a dichiarare che il suo obiettivo non era il benessere dei cittadini e della loro qualità della vita, bensì il soddisfacimento degli asettici e impersonali diktat numerici imposti dai famigerati mercati.

Un potere invisibile e apparentemente impersonale, quindi, di cui è arduo scorgere la localizzazione precisa e anche gli individui che la compongono, ma che vede delimitata con certezza la sua piattaforma ideologica e programmatica: il neo-liberismo più spinto e incurante delle istanze politiche e di giustizia sociale, la ricerca spasmodica ed esclusiva del profitto, in nome del quale tutti gli stati sono chiamati non solo a sottomettersi ai diktat dei mercati, delle agenzie di rating e dell’FMI, ma a riconfigurarsi del tutto fino ad assumere la nuova identità di stati-mercato o stati imprese. In cui evidentemente gli abitanti non sono più cittadini depositari di diritti politici e sociali, ma soggetti consumanti e pedine di un ingranaggio i cui fini non hanno a che fare con il benessere diretto della popolazione.

 Si tratta di un meccanismo tanto efficace quanto pervasivo e globale, che ha condotto lo studioso finlandese di politica internazionale Heikki Patomäki a esprimersi in termini di «sistema panottico»[11], quindi capace di vedere tutto e tenere sotto controllo ogni cosa, senza però lasciarsi scorgere a sua volta con chiarezza da chi non vi è dentro.

Un potere del genere è perfettamente in grado di influenzare e perfino determinare le politiche degli stati, fino proprio a sostituirvisi del tutto, perché opera in un contesto, quello della globalizzazione e dei network, che sembra aver realizzato il sogno secolare dei liberisti di ogni tempo: un campo di azione dove non vi sono regole che intralciano il libero gioco della concorrenza, dove non vi sono limiti etici o persino morali imposti dai governi, dove insomma non ci sono le leggi né lo Stato, e persino a livello diplomatico sono le negoziazioni fra grandi imprese a contare nei rapporti di forza internazionali, ben più di quanto possano incidere gli attori istituzionali e governativi[12].

Si tratta di una regressione rispetto alla grande conquista politica acquisita dal genere umano con la modernità: se allora si costruirono i grandi stati  seguendo l’imperativo per cui «bisogna uscire dallo stato di natura», oggi siamo tornati a un terreno di libertà talmente assoluta (per i soggetti economici e tecnocrati più forti e influenti) da configurarsi come anarchia, quella dimensione in cui l’unico criterio in vigore è la legge del più forte.

 

4. Homo sapiens/homo videns, homo politicus/homo religiosus

Come è fisiologico e perfino necessario che accada, il terreno su cui è avvenuta questa mutazione strutturale del potere, è stato sapientemente preparato da quella che possiamo definire una vera e propria «riconfigurazione dell’essere umano». Insomma, da una vera e propria riconfigurazione delle menti di coloro che formano l’opinione pubblica, dei cittadini destinatari dei messaggi e della propaganda che il potere vuole (e ha interesse di) diffondere.

Si tratta di ricostruire in maniera sintetica, e quindi inevitabilmente schematica, un percorso lineare. Il primo stadio è avvenuto quando, con l’esplodere del mezzo televisivo, le nostre società hanno gradualmente introiettato la dimensione in cui si rivela «la centralità dello schermo e la nascita di una cultura delle immagini»[13]. Ciò aveva condotto, per esempio secondo il politologo italiano Giovanni Sartori, a quella che lui definiva una regressione dall’homo sapiens all’homo videns, regressione prodotta da un mezzo, quello televisivo, «che inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere» da cui risulta atrofizzata tutta la nostra capacità astraente, di elaborazione cognitiva di ciò che guardiamo e, con essa, «di tutta la nostra capacità di capire».

Il secondo stadio è quello per cui è avvenuta la trasformazione dall’homo politicus all’homo religiosus, ossia da un uomo che si fa carico kantianamente delle proprie responsabilità esistenziali e sociali, utilizzando la propria ragione per migliorare il consorzio umano senza la presunzione di risultati ottimali e definitivi, a un uomo che, per dirla con Freud, sacrifica volentieri buona parte della propria autonomia e libertà per sottomettersi a degli ordini superiori da cui aspettarsi un risultato ottimale e definitivo. Forze trascendenti o trascendentali che, alla stregua di un dio, come potrebbero essere la Rete o il Mercato, garantiscano all’uomo di potersi occupare esclusivamente dei propri scopi individuali ed egoistici perché tanto v’è una mano invisibile, un ordine spontaneo, o un’armonia prestabilita a garanzia comunque del progresso e della prosperità della società intera[14].

Si tratta di un passaggio epocale che non ha segnato soltanto il trapasso dalla società industriale a quella in Rete, ma anche e soprattutto la fine di una certa forma mentis illuministica, in cui prevaleva il sapere aude di kantiana memoria, a favore di un ritorno al noli altum sapere sed time che San Paolo aveva lanciato come monito all’uomo cristiano.

Oggi non ci viene più richiesto di votarci alla forza trascendente di un dio, sottomettendoci al quale otterremo la salvezza eterna, bensì di affidarci anima e corpo alle virtù salvifiche del dio Mercato, i cui effetti benefici dobbiamo aver fede che saranno garantiti malgrado per ottenere il risultato sarà necessario un certo numero di vittime. Una forma di escatologia terrena che abbiamo già visto nel corso della storia, per la quale si doveva essere disposti a tollerare sacrifici e vittime nell’immediato in vista del bene supremo finale garantito.

 

5. Dalla società dell’informazione a quella della formazione

 Molte di queste riflessioni e considerazioni si sono sviluppate attraverso la lettura di due volumi recentemente usciti nel nostro Paese. Apparentemente diversi, negli argomenti trattati come nella biografia degli autori (uno degli storici più importanti al mondo da una parte,  e quello che forse è il massimo esperto di televisione in Italia dall’altra),  ma in realtà legati da un filo rosso quanto mai importante, che può essere espresso in questi termini: si tratta di due volumi la cui lettura consente di comprendere come si sono trasformate le società occidentali nel passaggio epocale dalla società industriale, o dal vecchio mondo pre-Ottantanove, all’epoca della globalizzazione e dei network.

Carlo Freccero, nel suo Televisione (Bollati Boringhieri 2013), riesce perfettamente, attraverso appunto l’analisi dell’old media più famoso, a delineare tanto i connotati delle società europee (tradizionalmente costruite sugli ideali del servizio pubblico, della giustizia sociale e, più in generale, di una concezione del consorzio umano in cui il profitto non ricopre un ruolo determinante), quanto i fondamenti culturali della società americana (Stato minimo, competizione sociale, massima centralità del profitto come ideale regolativo). La seconda è quella che ha prevalso con l’affermazione del mondo globalizzato, attraverso un passaggio storico culturale che Freccero sintetizza in una pagina che vale la pena di riportare:

«Il Novecento come teatro delle grandi ideologie politiche finisce simbolicamente con la caduta del muro di Berlino. Cade il muro dell’ideologia, cade il muro del comunismo […] Ma il crollo di un muro non significa necessariamente il raggiungimento della libertà. E’ un lieto fine, come nelle favole. Ma se nelle favole c’è il lieto fine è perché la narrazione si interrompe nel momento migliore […] Il crollo del muro di Berlino, così come è stato immortalato dai filmati e dalle fotografie, è diventato un icona di libertà. Ma celebra semplicemente la sostituzione di un ordine con un altro ordine, di un muro con un altro muro: annunciava l’uscita dal comunismo, ma, allo stesso tempo, affermava la vittoria di quel liberismo duro e puro, dei cui eccessi paghiamo oggi le spese dopo il crollo, altrettanto simbolico, del mercato di Wall Street» (C. Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 125-126).

Dall’altra parte troviamo lo straordinariamente ricco volume in cui Antonio Carioti intervista, con domande mai banali né comode, lo storico Luciano Canfora praticamente su duemila anni di storia del mondo (Intervista sul potere, Laterza, Roma-Bari 2013). Ed è proprio da questa notevole ricostruzione di lungo periodo (resa possibile dalla cultura storica sterminata di Canfora), in cui la storia antica si intreccia con quella moderna e contemporanea attraverso accostamenti e similitudini suggestivi, che si aprono degli squarci illuminanti di riflessione sul cambiamento epocale dei nostri tempi. Tempi per i quali Canfora arriva a parlare di «post-democrazia», poiché

«siamo entrati in una fase in cui la democrazia politica è quasi completamente archiviata: ormai il potere è in gran parte delegato a soggetti non elettivi, di carattere tecnico, magari anche ragguardevoli, che si impongono attraverso strumenti sempre più sofisticati» (p. 28).

 Di fronte a un Occidente in piena implosione («la catastrofe è sotto gli occhi di tutti», p. 255), in cui il potere è esclusivamente potere economico, mentre la cultura e il consenso democratico devono sottomettersi alle logiche quantitative e strutturalmente inique di un capitalismo a cui è venuto a mancare il suo contraltare (quel comunismo rispetto al quale Canfora, comunque, non nega un bilancio storico anche fallimentare), lo storico non si tira indietro e formula una proposta costruttiva che, ci piace pensare, deriva proprio dal concetto di historia magistra di ciceroniana memoria:

«Io mi limito ad avanzare un’ideuzza, che spesso ripeto. A mio parere, il luogo dove le tendenze oligarchiche dominanti possono e devono essere messe in discussione è il laboratorio immenso costituito dal mondo della formazione e della scuola. Per quanto ammaccato in mille modi, nei nostri paesi avanzati resta una struttura che tocca e pervade l’intera società. E’ lì che l’educazione anti-oligarchica, su base critica, può farsi strada. Ecco perché, facendo un bilancio di quanto mi è accaduto di pensare nel corso di questi anni, ritengo che deprezzare e dequalificare il mondo dell’insegnamento, tanto nella scuola quanto nell’Università, sia un gesto suicida» (L. Canfora, Intervista sul potere, a cura di A. Carioti, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 264).

In effetti, da queste parole del grande storico italiano si può evincere quello che è probabilmente il tratto saliente della società emersa dalla fine del Novecento: una società dell’«informazione» in cui il Potere ha visto bene di mortificare e marginalizzare al massimo grado il momento della «formazione», storicamente necessario alla costituzione di un’opinione pubblica critica e impegnata sul versante della res publica.

Né del resto ci si può più nascondere dietro a presunte teorie del complotto o della cospirazione, tendenti a dileggiare e smentire coloro che parlano di poteri forti e invisibili perfettamente in grado di controllare la vita pubblica e, soprattutto, quella privata di milioni di cittadini grazie al monitoraggio segreto delle telecomunicazioni.

Le recenti rivelazioni fornite al grande pubblico dall’ex tecnico della Central Intelligence Service Edward Snowden, infatti, dimostrano in maniera inoppugnabile come, per esempio la National Security Agency del governo americano, ha escogitato un sofisticato sistema tecnologico per monitorare tutto il traffico pubblico e privato di Internet e non solo, consentendo di ascoltare, leggere e decrittare e-mail, telefonate e navigazione in Rete dei privati cittadini. Il New York Times è arrivato a scrivere senza mezze misure che i documenti svelati da Snowden

«rendono manifesto che la Nsa considera la propria abilità di decrittare informazioni una facoltà di vitale importanza, in cui essa compete con la Russia, la Cina ed altre agenzie di intelligence»[15].

 Non ci possiamo permettere la visione idilliaca di un mondo, per dirla con le parole del poeta Tadeus Borowski, governato dalla giustizia e dalla moralità, perché in realtà la condizione umana è quella in cui

«il delitto non viene punito, né la virtù premiata»,

ma soprattutto dobbiamo essere consapevoli che «il mondo è governato dal potere»[16], un potere che è tanto fisiologico che esista quanto necessario che lo si conosca e lo si tenga quanto più possibile in una posizione trasparente e al servizio del bene della comunità. Abdicare rispetto a questo compito, significa rinunciare alla possibilità più essenziale di cui disponiamo in quanto abitanti di questo pianeta: quella di essere (ragionevolmente) liberi.

 

NOTE

 

[1] Platone, Repubblica: VII, 518a, testo greco  in Platonis Opera-The Works of Plato, a cura di J. Burnet, 5 voll., Clarendon Press, Oxford 1901-1907.

 

[2] T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 89-91.

 

[3] G. Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 234.

 

[4] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 19.

 

[5] K. Popper, The Open Society and Its Enemies, 2 voll., Routledge & Kegan Paul, London 1973, v. II, pp. 238-9.

 

[6] Cfr. L. Dubouis – C. Gueydan, Les Grands Textes du droit de l’Union Européenne, Dalloz, Paris 2002, t. I, pp. 440-2.

 

[7] P. Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006, cap. I.

 

[8] M. Castells, Communication Power, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 296.

 

[9] Cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 139 per il concetto di «misologia»; e P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti, pp. 186 sgg. per la teoria della «mediacrazia».

 

[10] D. Estulin, El imperio invisible, Bronce, Barcelona 2011, epílogo.

 

[11] H. Patomäki, Democratizing Globalization, Zeld, London 2001, p. 101.

 

[12] Cfr. S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), pp. 64 sgg..

 

[13] J. Van Dijk, The Network Society. Social Aspects of New Media, Sage, London 2006, p. 213.

 

[14] Per una disamina più approfondita e dettagliata di questo passaggio, mi permetto di rinviare al mio L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti, Dedalo, Bari 2012, in particolare il cap. I («L’innocenza del divenire»).

 

[15] Cfr. N.S.A. Able to Foil Basic Safeguards of Privacy on Web, The New York Times del 6 settembre 2013, p. A1.

 

[16] Cit. in J. Hillman, Kinds of Power. A Guide to Its Intelligent Uses, Doubleday, New York 1995 p. 244.

 

Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012).

(14 novembre 2013

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