La paideia filosofica, Platone

by gabriella
Platone

Platone (427 – 347 a. C.)

In questo articolo cerchiamo di studiare il pensiero educativo platonico, senza affrontare la sua gnoseologia. Questo ci permette di non spezzare il filo della riflessione sull’evoluzione del concetto di areté e di apprezzare i significativi cambiamenti che intervengono nella paideia filosofica.

La lezione fa parte del programma di pedagogia antica, le cui videolezioni sono disponibili qui.

 

Indice

1. L’educazione è insegnare a pensare (videolezione 8)

1.1 La critica alla scrittura e all’insegnamento trasmissivo [Fedro]
1.2 Educare l’anima a riconoscere la verità [Menone e Simposio]

 

2. L’areté è senza padrone (videolezione 9)

2.1 La natura umana nel mito della biga alata [Fedro]
2.2 La libertà nel mito di Er [La Repubblica, X]

 

3. L’educazione nella città giusta (videolezione 10)

3.1 Schiavitù e liberazione: l’allegoria della caverna [La Repubblica, VII]
3.2 Politica ed educazione: libertà ed eguaglianza nella kallipolis

 

Il pensiero educativo di Platone si sviluppa in continuità con quello di Socrate di cui porta a termine la battaglia anti-sofista.

I suoi temi sono, infatti, come quelli del maestro e degli stessi sofisti, la ricerca di cosa sia la virtù (la perfezione dello spirito) o aretè e il problema di come e se sia possibile insegnarla. 

Lo sfondo su cui Platone costruisce le risposte a queste domande non è però uno scenario qualsiasi, ma quello disegnato dal più grande filosofo della tradizione occidentale. Ecco perché, discutendo della virtù, Platone ci mostra via via cosa significa apprendere e cosa insegnare, cosa vuol dire essere intelligenti, essere liberi ed essere giusti.

 

1. L’educazione è insegnare a pensare

Non è, questa mia, una scienza come le altre,
ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima
dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento
e una vita vissuta in comune, poi si nutre di se medesima
.

Platone, Lettera VII

1.1 La critica alla scrittura e all’insegnamento trasmissivo

Come sappiamo, Socrate aveva scelto di non scrivere, perché la parola scritta e l’insegnamento dogmatico senza discussione, cristallizzano il pensiero dell’autore ed espongono il lettore ad un ascolto inutile e acritico.

Platone riprende questo tema nel Fedro in cui fa raccontare a Socrate il dialogo tra Theuth, il creatore semidivino della scrittura, e Thamus, il re d’Egitto, di cui condivide le critiche:

Questa scienza, o re – dice Teuth – renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e per la memoria».

Gli risponde allora il re Thamus:

Theuth e Thamus

«O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per quelli che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente.

Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizia di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti. [Fedro, 274e, 275a]

l’autentica educazione è nel dialogo

L’autentica educazione, la vera paideia, per Platone, è quindi, solo quella che forma la capacità di pensare.

Nessun valore ha, invece, quella sapienza apparente fatta di molte conoscenze, senza vera comprensione della realtà, cioè tutte le nozioni che abbiamo imparato e immagazzinato senza che ci abbiano resi diversi e migliori.

Nella Lettera VII, il filosofo descrive questa comprensione profonda della realtà come qualcosa che possediamo da sempre, ma che si accende in noi improvvisamente per opera dell’educazione:

non è questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, poi si nutre di se medesima.

 

1.2 Educare l’anima a riconoscere la verità

Uno dei passaggi più importanti della riflessione platonica sull’educazione si trova nel Menone in cui Platone mostra, contro i sofisti, che cogliere la verità delle cose scartando le distorsioni soggettive è possibile se si insegna all’anima a farlo, rendendola capace di riconoscere la verità.

Nel Menone, infatti, il Socrate platonico fa dimostrare ad uno schiavo analfabeta il teorema di Pitagora, limitandosi a fargli notare gli errori commessi nel corso dell’esercizio.

Questo passaggio ci è presentato di solito dai manuali con la spiegazione che conoscere è ricordare, perché lo schiavo non ha ricavato la soluzione né dall’insegnamento di qualcuno né dall’esperienza, ma dal ricordo di una vita precedente conservato nell’anima.

Ma, al di là degli aspetti mitico-religiosi, come la credenza nell’immortalità dell’anima e nella reincarnazione, con l’episodio dello schiavo Platone sottolinea semplicemente che noi non apprendiamo attraverso l’esperienza che spesso invece ci trae in inganno, ma che abbiamo una predisposizione innata al conoscere che si risveglia a contatto con l’esperienza.

Come è possibile pero risvegliarla senza cadere nell’inganno delle apparenze? È evidente che l’esposizione all’esperienza non è sufficiente, sottolinea Platone: è necessario, invece, che qualcuno la risvegli nell’anima e le insegni a (ri)conoscere la verità, distinguendola dall’apparenza.

Diotima di Mantinea

È su questo aspetto che insiste il Simposio. La conoscenza, infatti, spiega la sacerdotessa Diotima a Socrate, è come l’amore, una specie di manìa, perché porta la mente fuori dal corpo alla ricerca della verità, come l’eros della bellezza.

Questa educazione dell’anima che la rende capace di conoscenza è dunque la volontà di sapere, il coraggio di non fermarsi all’opinione, di dubitare delle apparenze e di coltivare il senso critico: è l’atto di nascita del termine filo-sophia (usato sporadicamente dai filosofi precedenti, primo tra i quali Piatgora) che significa infatti amore, desiderio di sapere.

È lei che ci permette di trovare una sapienza che, secondo Platone, in qualche modo ci appartiene già (altrimenti non sapremmo nemmeno di doverla cercare), ma che non possederemo mai del tutto (perché la ricerca è infinita).

 

2. L’areté è senza padrone

Nel capitolo precedente abbiamo affrontato il tema dell’educazione di fronte alla verità, andando a cercare la risposta di Platone nei testi del Fedro, del Menone e del Simposio.

Come abbiamo visto, Platone sostiene che la vera paideia consiste nell’insegnare a pensare e non nel trasmettere le conoscenze sviluppate dalla tradizione come volevano i sofisti.

Conoscere e comprendere sono attività naturali per la mente umana, alla quale occorre solo imparare a dubitare delle immagini che le arrivano attraverso i sensi e a non scambiare le opinioni con la verità.

Ma perché, se conoscere è naturale, questa sapienza è così rara e difficile da conquistare?

E’ davvero possibile farlo?

Platone risponde a queste domande nel Fedro e in alcuni celebri passi della Repubblica, descrivendo la struttura dell’anima umana e affrontando il tema della libertà, pagine in cui delinea una propria antropologia e una originale psicologia.

 

2.1 La natura umana

L’auriga è la razionalità umana

l’anima volitiva e l’anima desiderante

Nel Fedro Platone descrive l’anima come una realtà complessa nella quale operano principi diversi che possono essere in conflitto l’uno con l’altro.

La metafora che impiega per dare forma a questa idea è quella di una biga alata il cui auriga è la  razionalità umana posta al comando di due cavalli alati, uno bianco, espressione dei sentimenti più elevati, cioè dell’anima volitiva, l’altro nero, simbolo dell’anima desiderante e delle sue passioni.

Secondo Platone, il comportamento giusto è quindi legato alla capacità degli individui di orientare razionalmente la loro volontà e di sottometterle le passioni, resistendo al richiamo del mondo sensibile.

Bisogna chiederci però se siamo liberi di farlo, perché se quello razionale è il comportamento giusto, occorre dimostrare che l’anima umana può svincolarsi dalla grande influenza dei sensi e che può imbrigliare le passioni rappresentate dal cavallo nero.

 

2.2 La libertà nel mito di Er

Er

Le moire

Nel X libro della Repubblica Platone affronta perciò il tema della libertà con uno dei suoi racconti più belli, il mito di Er, che contiene la storia di un soldato caduto in battaglia e tornato in vita dopo dodici giorni per raccontare cosa accade alle anime dei defunti.

Er racconta di aver visto le anime scegliere il loro destino, dopo essere passate davanti alle tre Moirai Cloto, la filatrice, Lachesi, la distributrice, ed Atropo, la tagliatrice.

È Lachesi a rivolgersi alle anime che arrivano nell’Ade:

Anime, che vivete solo un giorno comincia per voi un altro periodo di generazione mortale, portatrice di morte. Non vi verrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio (theos) non è responsabile.

Agamennone

Ulisse

Davanti allo sguardo di Er passano così anime illustri, come quelle di Ulisse e Agamennone, che il soldato vede scegliere il proprio destino sulla base dell’esperienza vissuta: Ulisse, stanco di avventure e peregrinazioni sceglie infatti la vita oscura del mendicante, mentre Agamennone, sazio di sangue e lotte di potere, lascia il mondo degli uomini ma, non volendo rinunciare alla regalità, sceglie la vita di un’aquila.

Dopo aver scelto il loro destino le anime bevono l’acqua del fiume Lete che provoca oblio, dimenticando dunque la propria scelta e le esperienze precedenti.

Platone evidenzia così che la virtù è «senza padrone», perciò chiunque può elevarsi ad essa attraverso l’educazione, ma che la libertà umana non è illimitata: la scelta di ognuno è vincolata dalle condizioni d’esperienza in cui la scelta si è determinata.

E’ chiaro così perché Platone e prima di lui Socrate, tenessero in così bassa considerazione l’educazione classica dell’uomo greco, cioè la paideia omerica basata sull’etica aristocratica.

L’aretè omerica

A differenza di quanto dicono i poeti, gli uomini nascono uguali: nessuno è aristos per nascita o condizione, ma lo diventa scegliendo o disprezzando la conoscenza e la virtù.

Poiché l’eccellenza è senza padrone, è compito di ogni uomo scegliere chi essere e forgiare la propria personalità diventando se stesso.

 

 

3. L’educazione nella città giusta

3.1 Schiavitù e liberazione: l’allegoria della caverna

Nei capitoli precedenti abbiamo visto come Platone si rappresenta la condizione umana in rapporto all’educazione: la virtù è accessibile a tutti, la strada per migliorarsi è la discussione libera che abbatte le false credenze ed eleva l’anima alla ricerca della verità. Ognuno, dunque, è artefice di se stesso attraverso l’educazione.

La società greca era però ben lontana dal garantire a tutti gli uomini un uguale accesso all’educazione e la possibilità di migliorarsi diventando capace di pensiero e di parola. Il problema educativo si faceva perciò essenzialmente politico.

I sofisti lo avevano già posto su questo piano, proponendo ai cittadini liberi privi di educazione di diventare loro allievi per apprendere l’areté della parola efficace ed eccellere nell’arena politica.

La paideia filosofica, i sofisti

Platone però va molto oltre, perché è il primo autore della nostra tradizione culturale a capire che per rinnovare veramente la società occorre rinnovare l’educazione e viceversa, per rinnovare l’educazione bisogna cambiare lo stato (nella modernità vedremo farlo ad autori dell’importanza di Comenio e Marx).

È con Platone quindi, che il problema educativo diventa, per definizione, un problema politico.

Per questo, il testo educativo forse più importante di Platone è contenuto nella Repubblica, la Politeia, il libro dedicato alla vita dello stato.

È qui, nel 7 libro, che il filosofo propone l’allegoria della caverna nella quale mette in relazione la psicologia dei cittadini e la loro diversa capacità di conoscere con la guida della città.

siamo schiavi incatenati alle catene dell’ignoranza

Platone immagina la condizione umana in modo simile a quella di uno schiavo incatenato all’interno di una caverna, nella quale può guardare solo avanti, verso il fondo buio.

La luce esterna penetra a stento nell’antro la cui unica fonte di luce è rappresentata dal fuoco che arde dietro un muretto e proietta le ombre degli oggetti sul fondo della caverna.

Ciò che gli schiavi incatenati possono vedere sono così solo le ombre delle cose proiettate sul fondo della caverna che scambiano per cose reali.

Uno di loro però riesce a liberarsi, riuscendo così a vedere direttamente le cose e gli uomini incatenati, di cui prima vedeva solo le immagini riflesse sul fondo. Raggiunta la libertà cerca l’uscita per fuggire dalla prigione in cui è nato e conoscere la realtà esterna, illuminata dalla luce del sole.

le cose reali

Giunto all’esterno resta abbagliato dalla luce, ma a poco a poco i suoi occhi si abituano al chiarore e riesce a guardare le cose in sé. Può così volgere lo sguardo al sole, la cui luminosità però può reggere per poco.

La liberazione dello schiavo, che coincide con l’attività del filosofo, non avrebbe significato per Platone, se egli non tornasse nella caverna dai suoi fratelli affrontando lo scherno e il rischio di essere ucciso. La ricerca filosofica non ha, infatti, nessun valore se non contribuisce a determinare il comportamento giusto sia nella sfera individuale che nella vita pubblica.

 

3.2 Politica ed educazione. Libertà ed eguaglianza nella città giusta

Platone delinea, così, il profilo di uno stato ideale nel quale la giustizia è data dall’armonia che si produce con il comportamento giusto di ognuno nell’attività in cui opera secondo la propria attitudine personale.

i reggitori

difensori

produttori

Lo stato appare così un grande organismo vivente, le cui parti svolgono ognuna il proprio compito, contribuendo alla salute o benessere dell’insieme: alla guida dello stato ci sono i reggitori, i governanti-filosofi, alla sua difesa i difensori-soldati e al lavoro per la sua sussistenza i produttori-lavoratori, in una distinzione di ruoli che riflette la dinamica interiore descritta nel Fedro con il mito della biga alata.

È infatti l’indole “auriga”, quella dell’individuo che si è preso cura della propria educazione, lavorando lungamente su di sé, ad indicare il filosofo-reggitore, mentre è l’indole volitiva e coraggiosa del cavallo bianco quella dei difensori-soldat. Quella desiderante e legata alle cose materiali indica infine la natura dei produttori-lavoratori.

Gli uomini, infatti, condividono la stessa natura nella quale la ragione (simboleggiata dall’auriga) si intreccia con la volizione (l’anima irascibile rappresentata dal nobile cavallo bianco) e con i desideri (l’anima concupiscibile incarnata dal cavallo nero).

Non ci sono dunque anime elevate o ignobili – d’oro, d’argento e di metallo vile – per natura o per destino, ma ognuno è potenzialmente filosofo, guerriero o umile contadino a seconda della parte di sé che decide di far emergere o, in termini platonici, della funzione dell’anima a cui decide di obbedire.

A differenza di quanto dicono i poeti, gli uomini nascono uguali, nessuno è aristos (eccellente) per nascita o condizione, ma lo diventa scegliendo o disprezzando la conoscenza e la virtù.

Questa è, infatti, la lezione di Er, nella quale l’ammonimento della moira Lachesi a scegliere il proprio daimon (destino) e a decidere in qual conto tenere la virtù e la conoscenza, indica esattamente il compito di ogni uomo di decidere chi essere, di forgiare la propria personalità diventando se stesso (tema che, come vedremo, sarà al centro del pensiero educativo aristotelico).

La paideia filosofica, Aristotele

Questa faticosa costruzione dell’uomo non avviene però astrattamente, nel vuoto delle circostanze, ma nel vincolo delle condizioni e dell’esperienza in cui ognuno si trova a vivere (lo testimoniano le scelte che Ulisse e Agamennone operano sotto lo sguardo stupito di Er).

Ognuno è perciò potenzialmente libero, ma condizionato di fatto dalle materiali condizioni di vita in cui si trova ad operare le proprie scelte. È questo il problema a cui Platone intende dare risposta nella parte centrale della Repubblica.

La città sarà, infatti, giusta solo se guidata da chi è capace di contemplare razionalmente il bene generale e di agire in modo libero e autonomo (filosofi-reggitori), difesa da chi sa mettere l’ardimento e il coraggio al servizio di tutti (difensori) e alimentata da chi ama circondarsi delle cose e dei piaceri materiali (produttori).

la ragione per cui esiste lo stato è la divisione del lavoro

La ragione per cui gli uomini vivono in società, per Platone, è la divisione del lavoro cioè il reciproco servizio che crea le condizioni per la vita libera, la quale sarebbe impossibile se ognuno dovesse procurarsi da solo tutto ciò che gli occorre.

Ma come realizzare le condizioni di una scelta davvero libera, cioè non condizionata dalla nascita, così da far emergere la scelta autonoma, la propensione, il bisogno di autorealizzazione di ognuno?

Nella città giusta, la kallipolis, la diversità dei compiti non è ereditata dalla famiglia in cui si nasce, ma dalle attitudini che ogni individuo avrà sviluppato fin dall’infanzia e che l’educazione avrà saputo valorizzare. La divisione dei ruoli poggia quindi sulle attitudini e sulla scelta, non sulla diseguaglianza di partenza dei cittadini.

abolizione della proprietà

e della famiglia

Platone ritiene necessario abolire la famiglia e la proprietà, quali condizioni orginarie di diseguaglianza, ed attribuire ad ogni posizione sociale il tipo di felicità corrispondente.

L’ottima repubblica è uno stato in cui uomini e donne, sciolti da vincolo sentimentale esclusivo, vivono nella perfetta comunione dei beni e dei figli; figli che appartengono a tutta la città e a cui lo stato riserva quindi le stesse cure e la stessa educazione.

Solo così è possibile realizzare quell’uguaglianza delle condizioni che offre ad ognuno la possibilità di scegliere liberamente in quale direzione sviluppare la propria personalità.

Anche le bambine saranno educate con i loro fratelli (anche se in classi separate), senza che vi sia preclusione di principio per la loro inclusione futura tra i reggitori o i difensori: la comune natura umana è infatti l’elemento di sostanza mentre, in relazione alla sfera pubblica, le differenze tra maschi e femmine sono puramente accessorie.

«Noi perseguiamo alla lettera, con molta decisione e pervicacia, la tesi secondo cui a nature differenti non toccano mansioni uguali, ma non abbiamo assolutamente indagato a quale specie appartengono l’una e l’altra natura e a che cosa miravamo con la nostra definizione, quando abbiamo assegnato diverse mansioni a ciascuna natura, e mansioni uguali alla stessa natura» […].

«Se dunque», proseguii, «il sesso maschile e quello femminile risulteranno differenti in rapporto a una determinata arte o a un’altra occupazione, diremo che l’assegnazione dei rispettivi compiti va fatta con questo criterio; se invece risulteranno differenti solo per il fatto che il sesso femminile partorisce e quello maschile feconda, diremo che per quanto concerne la nostra questione non è ancora stato dimostrato che la donna differisce dall’uomo, ma resteremo dell’idea che i nostri guardiani e le loro donne debbano svolgere le stesse mansioni» […].
«Pertanto, caro amico, nel governo della città non c’è alcuna occupazione propria della donna in quanto donna, né dell’uomo in quanto uomo, ma le inclinazioni sono ugualmente ripartite in entrambi, e per sua natura la donna partecipa di tutte le attività, così come l’uomo, pur essendo più debole dell’uomo in ognuna di esse» […].

«Allora le leggi che abbiamo fissato non sono impossibili da realizzare né simili a pii desideri, se davvero la nostra legislazione è conforme alla natura; piuttosto vanno contro natura, a quanto pare, le disposizioni vigenti contrarie alle nostre!» […].
«Quindi abbiamo stabilito una legislazione non solo realizzabile, ma anche ottima per la città».
«È così ». Repubblica, V, 454c-457a.

Comunismo platonico

 

Esercitazione

1. Illustra in dieci righe qual è il significato dell’educazione in Platone, spiegando perché nel Fedro il filosofo contrappone il dialogo alla parola scritta.

2. Illustra in dieci righe il significato pedagogico del mito di Er.

3. Illustra in dieci righe il significato pedagogico del mito della biga alata.

4. Illustra in dieci righe il significato pedagogico dell’allegoria della caverna.

 

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