Sabina Tosi Cambini, Chi ruba i bambini?

by gabriella

zingara-rapitriceI risultati del più recente studio socio-giuridico sui rapimenti di minori da parte di rom, in un estratto della relazione tenuta da Sabina Tosi (UniFi) al Convegno Internazionale La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia [Università Milano-Bicocca, 16-18 giugno 2010]. L’inchiesta, che ha esaminato tutti i casi di cronaca dal 1986 al 2007 (quaranta casi in tutto) ha evidenziato come al racconto del tentato rapimento non fosse associato alcun reale rapimento, oltre ad una serie di costanti, come l’assenza di testimoni, e una comunicazione scorretta da parte dei media. L’autrice ha pubblicato lo studio nel 2007 per l’editore CISU, con il titolo La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007).

 

Introduzione

Questo contributo presenta alcuni risultati della ricerca da me condotta sui (presunti) rapimenti di bambini non rom da parte di rom e sinti in Italia1: uno studio condotto in parallelo con quello di Carlotta Saletti Salza volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai Tribunali per i Minori italiani a famiglie gagé. La ricerca ha coperto gli anni dal 1986 al 2007, i casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa (notizie nazionali e locali) e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali. L’analisi ha, quindi, preso in considerazione ventinove casi, oltre undici di sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un racconto di un tentato rapimento. La consultazione
dell’archivio ci ha dato modo di arrivare ad un corpus di notizie che ho studiato sincronicamente e diacronicamente. Alla confusione che generano i media al momento della denuncia del fatto, dando come provato e “vero” il tentato rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine. Nei pochi casi in cui questo accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c’entrano niente, ma è perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità.

In maniera random si è cercato anche di verificare se per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo: si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto nessun arresto. D’altra parte – come  dicevamo e come alcuni casi dimostrano – laddove le Forze dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o nessuna notizia. La comparazione dei casi ha aperto a strade particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta di ‘donne contro donne’ ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro del rapimento’ per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara (ma i controlli lo smentiscono regolarmente).

Pogrom dei rom di Porticelli

Pogrom dei rom di Porticelli

Dopo la comparazione dei casi, ho esaminato i fascicoli giudiziari dei casi per i quali erano state aperte la procedura e l’azione penale. Durante la ricerca, inoltre, ho intervistato alcuni avvocati e Pubblici Ministeri, e seguito i dibattimenti dei casi di Lecco e di Firenze. Su 29 casi di presunto tentato rapimento, solo 6 hanno portato all’apertura del procedimento e dell’azione penale: Desenzano del Garda (Brescia), 1996; Castelvolturno (Caserta), 1997; Minturno (Latina), 1997; Roma 2001; Lecco 2005; Firenze 2005: a questa lista potremmo ora aggiungere anche il caso di Ponticelli (Napoli). Le sentenze sono state differenti: sentenza di colpevolezza per tentato sequestro di persona (art. 56 c.p. e art. 605 c.p.), sentenza di colpevolezza per tentata sottrazione di persone incapaci (art. 56 c.p. e art. 574 c.p.), assoluzione perché il fatto non sussiste, archiviazione del caso. L’analisi di questi casi è cominciata attraverso le notizie dell’archivio ANSA e proseguita con il contatto con le forze dell’ordine. Dopo aver ottenuto le corrette e necessarie informazioni, ho richiesto e ottenuto il permesso di visionare i fascicoli presso i Tribunali. Per quanto riguarda i casi di Lecco e Firenze ho potuto osservare i dibattimenti e le interazioni dei partecipanti nelle aule durante i processi. Inoltre, le trascrizioni – quando contenute nei fascicoli – sono state estremamente
preziose per analizzare il seguito, la forma e il contenuto delle varie “azioni”: formulazione dell’accusa, difesa, interrogazione dei testimoni ecc.

[…] Rispetto alla letteratura citata, qui ci troviamo di fronte a casi che presentano due importanti e contemporanee basi di partenza: – la maggior parte delle volte non c’è nessun testimone oculare dell’evento, per cui abbiamo solo la testimonianza della madre (o dei genitori) e la sua versione dei fatti contro quella dell’imputatogli imputati (ma potremmo dire le imputate, dato che si tratta esclusivamente di donne) sono immigrati, spesso senza permesso di soggiorno (“sedicenti”), altrettanto spesso senza un domicilio fisso (“senza fissa dimora”), ma soprattutto zingari, nomadi. L’unico che supera in debolezza ‘strutturale’ un immigrato, è – appunto – un nomade. Il secondo dei due elementi è determinante rispetto a molti passaggi della procedura penale. Tra i più significativi, quelli che riguardano l’applicazione delle misure cautelari: la convalida dell’arresto e la decisione da parte del GIP di applicare le misure cautelari in carcere (previa indicazione del PM); e del mantenimento di queste durante tutto il procedimento.

Secondo il Codice di Procedura Penale, come abbiamo visto nell’introduzione e poi nella trattazione dei singoli casi, a seguito di arresto in flagranza gli agenti di polizia pongono l’arrestato a disposizione del PM mediante la conduzione nella casa circondariale dove l’arresto è stato eseguito (art. 386 comma 4). L’udienza di convalida – che deve tenersi entro 48 ore – viene svolta per convalidare l’arresto, da una parte, e per stabilire se deve essere o meno convalidata una misura restrittiva della libertà personale. Questo vuol dire che il processo va avanti ma la persona fino alla sentenza di giudizio è libera, se non viene applicata la misura restrittiva, altrimenti rimane in carcere per tutto il tempo della procedura e dell’azione penale. Secondo il C.P.P., il pubblico ministero dispone che l’arrestato sia custodito nella casa circondariale qualora dalla misura non restrittiva possa derivare grave pregiudizio per le indagini (art. 386 comma 5) ovvero sussistano specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini (art. 274 lett. a) oppure vi sia concreto pericolo che l’arrestato si dia alla fuga (art. 274 lett. b) o ancora quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale (art. 274 lett. c). La personalità, secondo il medesimo articolo, viene desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali.

Come viene giustificata per le nostre arrestate la scelta di farle rimanere in carcere sia prima che dopo la sentenza? Il fatto di essere nomadi apre ad una realtà autoevidentein cui i tratti non sono messi in discussione – per cui la misura restrittiva è prassi: sia che la persona abbia precedenti penali (in questo caso ne rafforza l’argomentazione negativa) sia che sia incensurata (ma in questo caso diviene preponderante l’aspetto della dimora non fissa – anche quando in realtà la persona è domiciliata – perché tutt’uno con la sua ‘condizione’). Nell’ordinanza di convalida del 5 dicembre 1996, il GIP del Tribunale di Brescia (prendendo in considerazione la richiesta del PM) nella valutazione degli indizi di colpevolezza riconosce completa attendibilità alla versione della madre, alla quale era già stata riconosciuta dai carabinieri, i quali avevano giustificato l’arresto in flagranza “in considerazione dell’esiguo tempo trascorso dal verificarsi del fatto, tenuto conto che la nomade era stata sorpresa con gli indumenti ricevuti immediatamente prima” (dalla relazione di servizio dell’Ispettore L. P. del 02/12/1996). Nell’ordinanza della Corte di Appello di Brescia n. 216/97 del 30 giugno 1997 si legge:

considerato che il reato odiosissimo posto in essere dalla imputata, in una con la sua condizione di nomade, è indice allarmante di una personalità non aliena da comportamenti estremamente antisociali per il che insostituibile difesa della collettività appare il mantenimento della misura cautelare in atto”.

Nell’ordinanza del Tribunale di Napoli per il caso di Castelvolturno n. 253/97 del 31 gennaio 1997, i Giudici scrivono:

Invero la circostanza secondo cui l’indagata, essendo nomade, potrebbe darsi alla fuga e quindi impedire ulteriori individuazioni di persona ad opera delle persone presenti ai fatti…

Così come – sempre per il caso di Volturno – il GIP del Tribunale di S. M. Capua Vetere (ordinanza del 7/2/1997):

Comunque, questo GIP ritiene di ribadire la permanenza ed attualità delle esigenze cautelari, sia in riferimento al pericolo di fuga (art. 274 lett.b) – ricollegabile alle condizioni personali dell’indagata – che in riferimento al pericolo di reiterazione, attese le modalità della condotta che portano a ritenere il fatto non episodico.

Ma – si ricorda – T. M. (l’imputata) possiede regolare carta di identità, è domiciliata in una casa a Castelvolturno, ed è incensurata. Ma il fatto di essere considerata nomade giustifica di per sé qualsiasi decisione a tutela della collettività: per cui il pericolo di fuga sussiste (pur essendo facilmente controllabile dalle forze dell’ordine) e la possibilità che ripeta il delitto è considerata alta (pur essendo una persona incensurata). Allo stesso modo, per il caso di Roma non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi pendenti di Z. A. risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente basta a renderla pericolosa e capace di commettere ancora delitti. Per Lecco, si ha la stessa conclusione (seppur le due donne rom sono regolarmente soggiornanti sul territorio italiano); così commenta l’avvocato difensore: “Nell’affrontare un processo devi affrontare questi pregiudizi”.

Già dai verbali delle udienze di convalida (e dalle ordinanze derivanti) si intuisce il ragionamento con cui il Pubblico Ministero e i Giudici leggono la situazione che si apre davanti a loro (e precedentemente gli Agenti delle forze dell’ordine): la versione antitetica dei fatti da parte delle uniche due persone presenti, una la madre (o i genitori) del bambino oggetto del presunto rapimento, l’altra (o le altre) le zingare accusate. Il ragionamento di base – in pratica – è che non è possibile che un cittadino (una madre, in questi casi) all’improvviso si inventi una cosa del genere, quindi il resoconto è per forza ‘vero’; come dire: non c’è nessuna ragione per la quale pensare che dica il falso. Tale ragionamento ritorna incessantemente nei documenti dei fascicoli e nelle sentenze,  producendo in sostanza una ripetizione a catena della lettura dell’evento la cui matrice è di fatto la relazione delle forze dell’ordine rispetto all’arresto. La colpevolezza è perciò fin da subito data per evidente. I casi mostrano una grave forzatura degli strumenti giuridici riferiti a categorie deboli: l’arresto in flagranza e l’applicazione delle misura cautelari – ben al di là dei criteri di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari e soprattutto l’esistenza del tentativo di rapimento desunta da indizi non gravi né precisi e concordanti, non chiedendosi che cosa le donne rom avrebbero fatto del bambino.

Questa ultima domanda, che sarebbe fondamentale, rimane sospesa forse perché si ritiene che non valga la pena porla in quanto è come se già tutti lo sapessero e tutt’ al più la questione si può mettere in un inciso, come si legge nella sentenza della Corte d’Appello di Milano sul caso di Lecco: “Sottrarre un neonato alla madre, appropriandosene per farne cosa propria, forse – non s’intravede più benevola finalità – da esibir nella questua (magari in altra città od altro Paese), spettacolo peraltro non infrequente…”. Anche il caso e il processo di Ponticelli riproducono pienamente i meccanismi in atto, fuori e dentro le aule dei tribunali, descritti dal lavoro di ricerca qui presentato. Nella motivazione dei giudici napoletani del rifiuto alla minorenne dell’affievolimento della misura della custodia cautelare in carcere – dopo un anno e mezzo dalla condanna -, non solo si vedono agire apertamente gli stereotipi, ma siamo probabilmente di fronte ad una discriminazione diretta. La Motivazione che V.A.

…è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l’essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in uno alla mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva” e che gli “…schemi di vita Rom … per comune esperienza determinano nei loro aderenti il mancato rispetto delle regole,

somma tutta una serie di deformazioni e di forzature. In una successione di luoghi comuni essa attribuisce come colpa ad una ragazza l’appartenenza stessa al suo sistema socio-culturale e familiare; quindi sorregge questa valutazione negativa con il rilievo – che dice tratto dalla “comune esperienza” – che gli schemi di vita Rom determinano nei loro aderenti il mancato rispetto delle regole. In un crescendo, dal livello più generico dell’appartenenza ad una determinata cultura e della propensione del gruppo ad atti criminosi, passa all’ affermazione che proprio per questo c’è un concreto pericolo
di recidiva, logicamente riferita al reato per cui si procede di rapimento di infanti; da tutto ciò conclude che la minorenne è indegna di una misura cautelare più lieve.

bambina bionda-grecia

Maria

Un classico dello stereotipo razzista: Il recente caso del “rapimento” della bambina bionda

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