Saharawi

by gabriella

Un reportage de La Stampa dai campi profughi Saharawi allestiti in pieno deserto dal Marocco che ha occupato il Sahara occidentale, recintato le terre ricche di acqua e giacimenti ed esiliato quattrocentomila saharawi esercitando su di loro un controllo durissimo, fatto di dipendenza alimentare, mine, repressione.

Quando ventitre anni fa Bechir accettò, come tutti i suoi commilitoni dell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi (ELPS), di riporre in un cassetto le armi e mettere un punto a una guerra ventennale combattuta contro il Marocco per la liberazione del Sahara Occidentale lo fece non senza qualche dubbio. Sapeva che la via diplomatica sarebbe stata ricca di insidie e ostacoli, ma sperava che l’impegno della comunità internazionale avrebbe potuto portare a dei risultati concreti, senza più spargimenti di sangue.

Ma dal 1991, l’anno del cessate il fuoco voluto dalle Nazioni Unite per poter preparare un referendum per l’indipendenza di questa parte di deserto, nulla, davvero nulla, è cambiato per la popolazione Saharawi. I figli di Bechir sono nati in quegli stessi campi profughi nei quali la sua generazione è stata costretta a fuggire. Tende, case di mattoni di sabbia, in una delle aree più inospitali di tutto il Maghreb. Nel sud dell’Algeria, tra Tindouf e il confine con la Mauritania. Un luogo che è un deserto piatto e pietroso, freddo d’inverno e soffocante d’estate, spesso sferzato da un forte vento che riempie gli occhi, la bocca e le case di sabbia.

Qui, tra capre costrette a mangiare la plastica perché non hanno altro a disposizione e un tasso di disoccupazione che cresce di anno in anno, la popolazione Saharawi, composta da circa 170 mila persone, si trova ancora costretta a vivere senza un futuro, senza prospettive.

Il fallimento della comunità internazionale che in 23 anni non è riuscita, nonostante una missione, la Minurso (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara), creata appositamente per questo, a dare vita a un referendum, è sotto gli occhi di tutti. Anche dei Saharawi, che ora, a quarant’ anni dall’inizio del loro esilio, si chiedono se valga ancora la pena aspettare o se invece non sia il caso di imbracciare di nuovo i fucili per riprendersi quello che, a loro detta, gli appartiene. Ed ecco quindi che sono iniziate manovre militari nel deserto e ispezioni delle varie basi dell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi da parte dei vertici del governo del Fronte Polisario.

Sognando uno Stato che non c’è

Alcune donne in un improvvisato mercato nel campo profughi di Smara

Donne durante una manifestazione per l’indipendenza

Manovre militari dell’Esercito Popolare di Liberazione Saharawi

Un soldato si riposa con in spalla la bandiera del Sahara Occidentale

Un villaggio nel mezzo del Sahara controllato dal Fronte Polisario

Una donna manifesta in sostegno del Fronte Polisario

Uno dei pochi negozi nel campo profughi 27 Febbraio

Democratica (Rasd) non usa mezzi termini per spiegare il pensiero del Fronte Polisario, il braccio politico della popolazione Saharawi, sulla questione:

«Non possiamo e non vogliamo più aspettare, la nostra pazienza è finita. Abbiamo accettato le condizioni poste dalla comunità internazionale, abbiamo acconsentito al dialogo, ma non è servito a nulla. Il Marocco continua a provocare e a non accettare neppure di discutere della base elettorale per questo referendum nel quale oramai nessuno crede più. Noi siamo pronti a riprendere le armi per riconquistare la nostra terra».

L’insofferenza e l’impazienza le si respira girando tra i campi profughi. Le si respira a Smara, a Rabouni ad Auserd, le si respira parlando con gli anziani che hanno partecipato alla sanguinosa guerra contro Rabat, ma le si respira anche confrontandosi con quei giovani che la loro patria non l’hanno mai vista ma che sono consapevoli del fatto che in questi campi, per loro, non c’è alcuna prospettiva.

I muri della vergogna

Duemilasettecento chilometri di terra, sabbia e filo spinato, dal confine algerino a quello mauritano. Da un lato il territori “liberati” controllati dal Fronte Polisario, dall’altro quelli “occupati” sotto il regno di Mohammed VI. Da un lato deserto, qualche sporadico villaggio, tende di nomadi, e nulla più, dall’altro ricchi giacimenti di fosfato, acque tra le più pescose del pianeta e petrolio, tant’è vero che la società petrolifera statunitense Kosmos inizierà a breve a trivellare in mare aperto. In mezzo una lingua di terra tra le più minate al mondo, che ha già fatto 2.500 vittime, tra militari e civili.

Secondo alcune stime il numero delle mine antiuomo e anticarro presenti nei pressi del muro dal lato controllato dal Fronte Polisario si aggirerebbe tra i 7 e i 10 milioni. Tra queste, migliaia di ordigni inesplosi e cluster bombs che ogni anno feriscono, e uccidono, decine di persone, per lo più nomadi che in quelle aree portano a pascolare i loro greggi, e bambini che scambiano gli ordigni per giocattoli.

«Stavo facendo pascolare le capre, nella zona vicino al muro, non lontano da Mehaires, aveva piovuto per cui mi ero spinto fino a lì perché in quella zona c’era più acqua. Ho poggiato il piede per terra, mi sono accorto che avevo pestato qualcosa ma non ho potuto fare nulla. E così ho perso una gamba»

racconta Embarel Mohamed, nel suo negozio di alimentari nel campo profughi 27 Febbraio. Il conflitto tra Marocco e Fronte Polisario, seppur silenziato da un traballante cessate il fuoco, continua quindi a mietere vittime, nel silenzio dei media che paiono essersi dimenticati di una crisi nella quale l’intera comunità internazionale ha enormi responsabilità.

La timeline della costruzione dei sei muri da parte del governo Marocchino, che dividono le aree della comunità Saharawi da quelle sotto il controllo di Rabat.

Le mine Antiuomo

Sminamento delle aree circostanti al muro ogni anno suddiviso per paesi produttori delle mine rinvenute. Nel 2009 e 2010 non sono stati collezionati dati.

Nei territori “occupati”, quindi formalmente in territorio marocchino, la comunità Saharawi, che conta più di 300mila persone, vive sparsa tra le città di Layyoune, Dakhla, Smara, Boujdour, discriminata dalle istituzioni di Rabat e dalla popolazione marocchina. Le violenze nei confronti dei saharawi da parte delle forze di sicurezza del Marocco sono pressoché quotidiane. I saharawi che manifestano per strada per l’indipendenza del Sahara Occidentale, per le difficili condizioni di vita e la repressione vengono picchiati, arrestati, spesso torturati, e infine condannati dai tribunali militari a pene che arrivano fino all’ergastolo.

Embarel Mohamed, commerciante, ha perso una gamba a causa di una mina antiuomo nel Sahara Occidentale

Nel corso della guerra sono scomparsi nel nulla, dai territori sotto il controllo marocchino, migliaia di saharawi, molti di loro, quasi quattrocento, mancano ancora all’appello. Ma le sparizioni di attivisti non sono una cosa del passato. Associazioni come Afapredesa (Asociación de Familiares de Presos y Desaparecidos Saharauis) denunciano nuove e continue sparizioni nel nulla di attivisti, manifestanti, giovani e meno giovani. Molti provano a scappare e a superare il muro che divide il Marocco dal Sahara Occidentale sotto il controllo del Fronte Polisario, ma in pochi ce la fanno perché il controllo dell’esercito marocchino è rigido e l’area densa di pericoli, in primis le mine. Nonostante le denunce e gli appelli di numerose ong e associazioni che invitano la comunità internazionale a prendere provvedimenti nei confronti del Marocco per le violazioni dei diritti umani, la missione Minurso è una delle poche al mondo che non ha alcun potere nell’ambito del controllo del rispetto dei diritti umani.

Rossella Urru e la sfida del terrorismo islamico

Solo sabbia, rocce, e il buio. E nulla più. Ed è in questo buio che di notte avvolge il Sahara Occidentale che, oltre alle vecchie macchine dell’ELPS, si muovono rapidamente contrabbandieri, trafficanti di droga e terroristi. Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), il Movimento per l’unicità della Jihad nell’Africa dell’Ovest (MUJAO), Ansar Eddine, sono solo alcune delle sigle che negli ultimi anni, con attentati e rapimenti, hanno incendiato questa fascia di Africa. Sfruttano queste distese di sabbia, queste terre di nessuno, per spostarsi lungo quella fascia sahariana che è diventata negli ultimi anni una delle regioni più instabili del pianeta. L’incontro con i jihadisti per la comunità Saharawi è stato improvviso, scioccante. Una notte di ottobre 2011, una jeep, degli spari, e tre cooperanti, due spagnoli e un’italiana, Rossella Urru, che vengono rapiti e portati a tutta velocità oltre il confine con il Mali. Un rapimento che avrà un lieto fine (i tre sono stati liberati dopo 9 mesi di prigionia) ma che rappresenta uno spartiacque importante in questa terra arida e già ferita da anni di conflitto.

«Prima del rapimento dei tre cooperanti pensavamo che il fenomeno del terrorismo islamico non ci avrebbe toccato – racconta il comandante della quinta regione militare Sidi Augal – Abbiamo sempre avuto un solo nemico: il Marocco. Ma ora dobbiamo combattere su due fronti: per riprenderci la nostra terra illegalmente occupata da Rabat e per fermare la minaccia rappresentata dai terroristi».

Terroristi che in quest’area dove la povertà e la disoccupazione vanno di pari passo con il disinteresse della comunità internazionale trovano un brodo di coltura ideale per far crescere e propagare le loro idee.

Il Fronte Polisario e l’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi sanno che quella terrorista è una minaccia non solo per l’intera regione ma anche per la stabilità di una comunità che vive in estrema difficoltà da quattro decenni.

Un combattente dell’ELPS dorme durante una tempesta di sabbia vicino a Tifariti

«Il rischio è che i gruppi terroristi si infiltrino nei campi, nelle moschee, e facciano proselitismo, soprattutto tra i giovani, sempre più disillusi, che si chiedono quale possa essere il loro futuro, lontano dalla loro terra e lontano da parenti e amici che vivono nei territori occupati dal Marocco (circa 400mila persone ndr) – spiega Brahim Ahmed Mahmoud, sottosegretario alla Sicurezza del Fronte Polisario – I saharawi si trovano in mezzo a un vortice, in un’area esplosiva, e sono le uniche vittime di questa situazione. Facciamo del nostro meglio, con i mezzi a nostra disposizione, per controllare l’area e garantire la sicurezza, ma finché non potremmo riavere la nostra Patria, abbattere il muro marocchino che divide il Sahara Occidentale e riabbracciare i nostri fratelli che soffrono la repressione da parte delle forze di sicurezza di Rabat, tutto rimarrà più difficile».

Pattugliamenti diurni e notturni nel deserto, posti di blocco, check-point, scorte per i pochi occidentali che, nonostante gli inviti da parte dei vari governi ad abbandonare la regione, hanno deciso di continuare a lavorare nella regione, sono i mezzi a disposizione del Fronte Polisario per provare a mettere un freno all’avanzata del terrorismo in una regione dai confini porosi e dalle aride distese difficili da controllare.

Un terrorismo che ha toccato i Saharawi nel profondo, perché nel gruppo dei rapitori dei tre cooperanti c’erano anche alcuni (sicuramente uno) di loro, cosa che ha spinto il Marocco ad accusare il Fronte Polisario di fiancheggiare i jihadisti. Accuse respinte al mittente, ma che hanno contribuito a rendere ancora più dubbiosa la comunità internazionale rispetto a un impegno in questa regione. Insomma, quarant’anni sono passati ma poco o nulla è cambiato per i Saharawi. Nuove sfide si sommano a conflitti mai risolti, a tensione mai sopite. L’insofferenza dei giovani monta e la minaccia di una ripresa del conflitto armato contro il Marocco non sembra più essere solamente uno spauracchio utilizzato per attirare l’attenzione della comunità internazionale.

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: