Salvatore Biasco, La fiscalità di vantaggio nell’economia globale

by gabriella

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Poiché siamo appena diventati un paradiso fiscale per miliardari stranieri (concedendo loro una flat tax a € 100.000) (nel 2014, NDR), può essere  utile rileggere uno stralcio della relazione tenuta nel settembre 2014 dal deputato e docente di Politica monetaria internazionale Salvatore Biasco alla “European Interparliamentary Conference Under Article 13 of the Fiscal Compact”, organizzata per il semestre italiano di presidenza europea.

Il testo si incentra sulla competizione fiscale nell’economia di mercato e illustra i meccanismi della fiscalità di vantaggio [che ha portato a una tassazione del 2% dei grandi capitali multinazionali, mentre la pressione fiscale sul lavoro e sui beni immobili si è inasprita in modo insostenibile] e della tax avoidance (elusione fiscale) che generano, secondo la Commissione europea, una perdita di gettito di mille miliardi di euro solo nei paesi UE.

Come mostra il relatore [qui il testo integrale], la corsa al ribasso delle aliquote e la creazione di regimi particolaristici e preferenziali per il capitale estero, sposta la competizione dal piano industriale (efficienza, innovazione di prodotto) a quello delle opportunità fiscali, creando condizioni di disinvestimento del capitale e delle attività produttive e producendo un effetto spillover negativo sugli stati che la subiscono.

 Nel video sottostante la satira del gruppo tedesco Die Anstalt (L’azienda).

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1.Un bilancio europeo

1.1 Introduzione e sintesi

E’ bene iniziare con una sintesi su ciò che tratta il saggio. Non è di percezione comune che in campo fiscale si giochino pezzi della regolazione del capitalismo mondiale. Ed è sfuggito a molti che – sempre in campo fiscale – è stata varata l’unica vera regola mondiale da molti anni a questa parte, siglata da un concerto di paesi a ottobre 2014, quella che porta allo scambio automatico di informazioni tra amministrazioni fiscali (di cui dirò).

Pur essendo una rivoluzione da non sottovalutare, che pone qualche serio problema ai grandi patrimoni, a evasori e al denaro sporco, è una regola incompleta. Non pone, infatti, altrettanti problemi alla capacità della multinazionali di sfuggire legalmente alla tassazione, di sottrarre quest’ultima al paese in cui hanno prodotto reddito e sostanzialmente tenerla per sé, Non solo un danno di gettito, ma un’alterazione conseguente della concorrenza a proprio favore. Dovrà pure essere affrontata una situazione che vede imprese come Amazon, Apple, Starbrook e tantissime altre riuscire a pagare, sì e no, il 2% sui propri profitti, mentre altre sono soggette a tassazione piena e il lavoro è ipertassato.

Si insiste molto sulla perdita di efficacia dello Stato nazionale di fronte alla globalizzazione finanziaria. Ma, in questo campo, è così solo in parte. Gli Stati nazionali (soprattutto europei) non hanno perso potere impositivo a causa della globalizzazione, ma a causa della competizione fiscale.

L’anello debole in campo fiscale è proprio l’Europa. Ed è dall’Europa – da un’altra Europa – che potrebbe iniziare la rimonta qualora l’Unione si ponesse come propulsore di un aggregazione tra paesi che con la forza del numero e della ragione impongano (con lo stesso processo politico che ha portato alla condivisione delle informazioni), lo standard mondiale in materia di fiscalità delle imprese transfrontaliere.

La sinistra deve agitare la bandiera della tassazione unitaria (e non frammentata, come è ora nelle convenzioni internazionali) delle multinazionali, che porti a una tassazione consolidata su base mondiale, ripartita secondo indici di effettiva presenza nei singoli paesi. In Europa il passaggio a questo principio può essere l’occasione per abbinarvi la realizzazione di una armonizzazione fiscale in materia di tassazione diretta, un allargamento del bilancio comunitario e metodi di compensazione di paesi più deboli, che perdono i vantaggi che hanno tratto dalla competizioni fiscale.

Ripercorriamo ora questi temi procedendo con ordine.

 

1.2 Manca un modello europeo

europaMentre in campo finanziario risulta evidente che il carattere aperto del sistema richiede la necessità di formulare e perseguire un programma di regolazione su scala quanto meno europea (e altrettanto, per la gestione macroeconomica in campo istituzionale) non appare altrettanto ovvio che lo stesso respiro è richiesto nel campo della fiscalità diretta.

Questa è rimasta in un ambito politico circoscritto ai singoli Stati, perché ad essi è riconosciuta la prerogativa specifica, come se i sistemi fiscali all’interno non fossero plasmati in vari modi dall’interazione continentale (e mondiale). Eppure venire a capo dei danni che si sono prodotti attraverso l’uso disinvolto dell’autonomia fiscale di alcuni Stati a scapito di altri dovrebbe essere uno dei punti chiave di un progetto politico dei democratici europei.

Nel campo della tassazione diretta, oggi l’Europa é pervasa da una competizione fiscale che ha trovato e trova legittimazione in una visione liberista di come debba funzionare l’Unione. Una visione che ha anteposto una competizione tra Stati al governo comunitario della materia”, sebbene ciò provochi perdite rilevanti di gettito sui redditi prodotti dai fattori più mobili, che devono essere poi compensate a carico di quelli meno mobili (lavoro e patrimoni immobiliari).

Non si tratta solo di rimuovere regimi particolaristici “dannosi”, relativi agli aiuti di Stato (un obiettivo, che, sebbene condivisibile, è stato trattato con zelo tale da risultare in una ancora più esasperata competizione, come dirò), ma di trovare un modello uniforme di struttura fiscale per l’Europa. In un periodo di scarso impegno europeistico dei governanti e di deciso affievolimento di slancio nell’opinione pubblica (a dir poco), indicare questa via può sembrare radicale, ma è un tema che va comunque posto sul tappeto.

La finalità ultima dovrebbe essere sia il recupero del gettito sottratto attraverso la competizione fiscale, compensando (per ciò che riguarda la competizione intra-Unione) i paesi più deboli, sia l’avvio di un processo concreto di sostanziale detassazione del lavoro (che altrimenti rimarrà allo stadio di irrealizzabile esortazione). Da ultimo, dovrebbe condurre anche all’individuazione di fonti di gettito che possano allargare significativamente il bilancio comunitario. E non è secondario che in questo contesto l’Europa si ponga alla testa di una proposta di superamento dei presupposti ormai obsoleti che governano gli accordi internazionali in materia fiscale per approdare a uno standard mondiale di tassazione adeguato alla nuova realtà del capitalismo integrato.

Oggi non solo non esiste un modello europeo per la tassazione diretta, ma non esistono nemmeno codici mutualmente conformi di tassazione e regolazione. Nella imposizione diretta, la convergenza verso soluzioni comuni dei sistemi nazionali consiste solo nell’imitazione di istituti introdotti in altri paesi europei, che i singoli paesi scelgono qua e là in un in un bricolage discrezionale, visto che la varietà di soluzioni date altrove rende difficile far riferimento a una costruzione da prendere come benchmark.

Persino sui principi non vi è uniformità se consideriamo che il principio della progressività dell’imposta personale è disatteso in numerosi paesi (soprattutto dell’Est) che adottano una flat tax(sia pure attenuata dalla graduazione delle deduzioni ammesse). E ciò fa pensare che lo stesso modello sociale europeo stia diventando un’astrazione che attiene (con arretramenti) a un numero limitato di paesi dell’Unione.

 

2.3 La convergenza non è sempre positiva

fiatNon bisogna pensare, tuttavia, che qualsiasi convergenza sia sempre positiva e in grado di garantire un più efficiente funzionamento del mercato interno, o di portare a una maggiore giustizia impositiva.

Non lo è quando quella convergenza non è un disegno organizzato con finalità specifiche e di razionalità complessiva, ma solo un puro derivato di inseguimento fiscale per paura di perdere le basi imponibili.

Molte spinte a questo tipo di convergenza derivano dalla giurisprudenza creata dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea, la quale, in nome di un malinteso fondamentalismo con cui interpreta la “libertà di stabilimento” – a partire dalla infelice sentenza Cadbury Schwrepess2 – è stata sempre poco attenta alle conseguenze sistemiche delle sue sentenze e molto sensibile alla china liberista della costruzione europea.

Valga per tutti l’esempio di come si sia esteso in Europa agli inizi del ‘2000 il sistema di Partecipation Exempion (Pex) favorevole alla tassazione delle holding. Quel sistema, proprio, a suo tempo, dei paesi del Benelux, è stato adottato progressivamente dai Paesi europei che volevano evitare la delocalizzazione delle holding. Ha finito per soppiantate la natura sistemica del preesistente sistema di tassazione a favore di un modello a-sistemico e farraginoso. Affinché ciò potesse non avvenire sarebbe occorso un disegno europeo, che non é mai venuto lasciando i Paesi a decidere da soli3.

Non si può neppure dire che attraverso la diffusione di questa costruzione si sia posto fine, per ciò che riguarda le holding, alla competizione fiscale, perché questa si é trasferita sul piano ordinamentale nelle legislazioni di alcuni paesi (ad esempio, Regno Unito e Olanda), che facilitano i comportamenti opportunistici consentendo alle società costituite nel paese di applicare la normativa corrispondente (quella, ad esempio che consente di blindare la proprietà attraverso il voto maggiorato) e, al tempo stesso, di trasferire in una altro Paese la sede di direzione effettiva e quindi la residenza fiscale (valga per tutte la vicenda del trasferimento di sede della Fiat)4. Da qui sta prendendo origine la diffusione del riconoscimento del voto maggiorato5, anche se non (ancora) quello della libertà di disgiunzione tra sede giuridica e fiscale.

Oggi diviene parimenti inevitabile che con lo stesse modalità si diffonda, nell’ambito della competizione in corso per attrarre la sede centrale delle multinazionali, il sistema del patent box. Esso consente una tassazione ad hoc (tra il 5% e il 10%) ai profitti correlati allo sfruttamento dei brevetti. E’ chiamato anche “innovation box” per il suo scopo apparente di incoraggiare l’innovazione e i lavori qualificati nella ricerca e sviluppo, ma che ben che vada remunera la commercializzazione dei brevetti esistenti piuttosto che lo sviluppo di nuovi e si rivela un’altro dei canali per competere fiscalmente.

Per quanto i Paesi si adeguino non c’è mai un punto di caduta: in alcuni di essi (Gran Bretagna, in primis) si è arrivati a rendere rilevante il 100% del profitto conseguito su prodotti che cadono in questo regime anche quando l’incidenza dei brevetti è secondaria nella loro produzione6. L’esito effettivo è che si è costruito un altro canale di tax avoidance che concorre a quei 1000 miliardi di euro di tassazione persi annualmente dagli Stati membri (secondo le stime dello stessa Commissione)7.

Potrei andare avanti, citando la convergenza che si é stabilita col regime di tassazione degli interessi e dividendi di residenti esteri8 e farei rientrare nel quadro anche l’avvicinamento delle aliquote societarie, avvenuto in una corsa verso il basso, che i paesi più grandi hanno dovuto necessariamente intraprendere (e che hanno compiuto allargando la base imponibile)9.

Un procedimento che, seppure potenzialmente neutro per il gettito, non lo è per altre conseguenze: sia di rendere restrittivi e rigidi i criteri di deducibilità degli ammortamenti e degli interessi passivi (indebolendo potenzialmente le imprese più deboli e indebitate, ma anche quelle innovative), sia di rimbalzare sulla progressività nella tassazione personale, che, se fosse troppo pronunciata, renderebbe conveniente alle persone più ricche di trasformare i redditi personali (tassati di più) in redditi da capitale (tassati di meno).

[…]

 

2.4 Google, Apple, ecc e…

AmazonGoogleAppleLe azioni difensive risultano, poi, impotenti quando lo svuotamento dei profitti ottenuti in sede europea é dirottato legalmente in sussidiarie situate in aree a bassa o nulla fiscalità da imprese multinazionali insediate in paesi europei; paesi, che riconoscono e ammettono o concordano con il contribuente l’uso di queste pratiche. Paesi che puntano, più che sulle entrate tributarie potenziali di cui consentono l’evaporazione, sulle esternalità che l’insediamento della sede operativa delle multinazionali sul loro territorio può produrre in termini di ricadute economiche (specie in posti di lavoro qualificati ad altra retribuzione e l’utilizzo di istituzioni finanziarie in loco).

L’attenzione ultimamente si é appuntata su casi emblematici di multinazionali (Apple, Amazon, Starbruck, Hp, Google15, iceberg di una fenomeno estesissimo) sui quali anche l’Unione ha aperto un’inchiesta, a cui il Lussemburgo si è permesso di non collaborare adeguatamente, rifiutandosi di svelare dettagli del suo sistema di tassazione.

Il meccanismo di tax avoidance è abbastanza uniforme. Le multinazionali usano i prezzi (e la locazione legale) delle transazioni interne per attribuire un basso margine di profitto alle attività in paesi ad alta tassazione e dove hanno una quota significativa di mercato, ma che risultano solo importatori e consumatori del prodotto specifico (che i prezzi amministrati rendono a basso valore aggiunto). Potenzialmente esse dirigono i profitti nel paese dove è insediata l’unità operativa, ma da questo eseguono pagamenti deducibili a sussidiarie create ad hoc per prestiti, uso del marchio o dei brevetti o altri servizi, collocate in paradisi extra U.E. a bassa o nulla tassazione.

Talvolta queste sussidiarie “posseggono” semplicemente una forma di usufrutto (economic ownership) su proventi della casa madre (che ha la legal ownership). Inutile dire che l’headquarter sarà in paesi, quali Lussemburgo, Olanda o Irlanda e, in parte, il Belgio, dove la tassazione già in origine sia bassa (talvolta concordata a priori16), dove non è prevista ritenuta alla fonte su pagamenti per servizi immateriali all’estero17, né la pratica di dislocare (fittiziamente) le filiali sia messa in discussione quando la filiale é posseduta al 100%.

Sarebbe interessante seguire i tanti e fantasiosi casi di pratiche fiscali delle imprese. Per citare solo pochi casi concreti, presi come esempio, può avvenire che i profitti pre tasse dichiarati dalla capogruppo europea di Starbucks’, situata in Olanda, abbiano generato solo 342 mila euro di tasse nel 2013 (anno in perdita dichiarata, come nel 2012 e 2011) su vendite europee per 92,5 milioni di euro (il 55% e passa delle quali ha a fronte costi per diritti di sfruttamento del marchio “pagati” a affiliate con base in paradisi fiscali)18.

Amazon, situata in Lussemburgo, adotta le stesse pratiche, ma questa volta i pagamenti per servizi immateriali sono verso un’affiliata anch’essa lussemburghese, praticamente esente da tasse (i profitti imponibili: 3 cent per ogni 1000 euro di fatturato)[questa, per inciso, è la condizione dei lavoratori Amazon. NdR] 19. Tra parentesi, si stima che in Lussemburgo vi sia la sede di 40.000 holding. Google ricorre a una triangolazione Irlanda – Olanda – Bermude (scendiamo a 2 cent tassabili ogni 1000 euro di fatturato).

Più clamoroso è il caso della Apple; non tanto perché su 57 mld di profitti in Europa paga 7,7 mln (meno di 1½%) di euro di tasse (media degli ultimi due bilanci), quanto perché incanala i profitti effettivi in pagamenti deducibili a tre sussidiarie della sua sede legale irlandese che non hanno residenza fisica dichiarata in nessuna parte del mondo, una della quali non ha mai pubblicato bilanci (legalmente secondo la legge irlandese)20.

Osservata da punto di vista delle imprese che concorrono con quelle citate (o in simili casi) si può percepire quanto la concorrenza fiscale sia (oltre che lesiva delle finanze di quei paesi cui vengono sottratte entrate) distorsiva della concorrenza nel mercato, in quanto concede possibilità di cannibalismo a a quelle che sono pressoché esente da tasse (a meno che i concorrenti non siano in grado di imitarle e rincorrerle in questo cimento)21.

 

2.5 …. l’economia digitale

Costruzioni simili possono presentarsi con l’intera economia digitale22, quando le imprese che vendono servizi da un portale possono entrare in rete da qualsiasi luogo. A volte quei servizi non sono connessi a una consegna fisica (esempio, musica, software, ecc.). E’ difficile perfino individuare con certezza dove i profitti vengano distratti, perché è difficile individuare dove il server – considerato la sede operativa dell’impresa – sia collocato, al limite presso una qualche piattaforma fuori da acque territoriali.

Ma, anche in casi più standard, le imprese dell’economia digitale possono non aver bisogno di una stabile organizzazione nel paese in cui vendono e non sono quindi suscettibili di tassazione in loco. Fra l’altro il potere di enforcement dei pagamenti da parte dello Stato in cui avvengono le vendite svanisce, come già appare evidente con l’applicazione dell’iva.

 

Note

1. La base di questo saggio è la Relazione tenuta alla “European Interparliamentary Conference Under Article 13 of the Fiscal Compact” (29-30 settembre 2014), organizzata per il Semestre Europeo di Presidenza dell’Italia dalla Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio. Sezione: “Il coordinamento delle politiche fiscali europee”. Rispetto a quel testo, che verrà pubblicato in Rassegna Tributaria, n 1, 2015, questo é ampiamente rimaneggiato per essere reso meno tecnico e accessibile al lettore non specialista e più esplicito nel senso e significato politico dei temi. E’ stato anche adattato per costituire una delle parti aggiuntive nella nuova edizione (prevista in primavera) del libro dell’Autore “Ripensando il Capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra” (Luiss University Press).
L’Autore è professore di Economia Monetaria Internazionale ed è stato Presidente della Commissione Bicamerale per la Riforma Fiscale nella XIII Legislatura (1996-2001) e autore del Libro Bianco sulla imposizione delle imprese (2007), redatto dalla Commissione che porta il suo nome.
2. La sentenza Cadbury – Schwrepess fu emessa in relazione al ricorso presentato da questa società madre di diritto britannico contro l’autorità fiscale nazionale. La materia del contendere riguardava i profitti di due controllate costituite in Irlanda per fruire della minore aliquota di tassazione dei profitti. La causa fu intentata (nel 2000) contro l’Amministrazione britannica, che – secondo la legge vigente nel Paese – obbligava la società residente a pagare la differenza tra l’imposta assolta all’estero e l’imposta che avrebbe dovuto essere assolta nel Regno Unito se la società avesse avuto sede in tale Stato. La sentenza (del settembre 2006) fu favorevole alla Cadbury in nome del principio sancito nei trattati di “libertà di stabilimento”, che da lì in poi diventa il principio che priva le singole autorità di un argine alla concorrenza fiscale.
3. Il sistema di tassazione delle holding è tanto significativo quanto poco percettibile nell’informazione comune. La Pex esenta le holding dalla tassazione dei dividendi che esse ricevono dalle loro controllate, in quanto considera che la tassazione sia stata già assolta dalle imprese partecipate ovunque collocate (il che può aver qualche giustificazione sistemica). Ma poi esenta anche da tassazione le plusvalenze (e minusvalenze) realizzate dalle holding nello smobilizzo di partecipazioni (il che ha giustificazioni fragilissime o inesistenti). E’ conseguenza non secondaria della Pex il fatto che quel sistema costringa – se si vogliono tassare i dividendi percepiti dalle persone fisiche (residenti) – a imporre su di essi una doppia tassazione, in quanto quei dividendi (sia pure inclusi in misura solo forfettaria nel reddito) non riconoscono alla persona fisica ciò che l’impresa erogatrice ha già pagato su di essi come tassa sui profitti.
L’elemento distintivo del sistema adottato in precedenza dalla maggioranza dei paesi considerava in linea di principio la tassazione societaria solo di pertinenza dei soci (persone fisiche o giuridiche) di cui la tassazione dei profitti era solo una anticipazione da scontare poi nella tassazione sui dividendi (attraverso il credito di imposta). Lasciava un intreccio razionale tra tassazione societaria e personale e trattava in principio le plusvalenze alla stregua di reddito prodotto (come in realtà sono). Il credito d’imposta, tuttavia, riguardava solo i residenti. A seguito di una sentenza della Corte che ne aveva chiesto la correzione per evitare (in questo caso giustamente) un trattamento discriminatorio dei soggetti residenti rispetto ai non residenti, il passo naturale successivo sarebbe stato l’estensione del credito d’imposta anche ai dividendi percepiti da soggetti esteri (che la Corte si é guardata dal chiedere). Ma questa strada “naturale” non avrebbe potuto essere intrapresa che in un quadro di reciprocità fissato da un indirizzo che avesse reso veramente europeo il sistema di imputazione del credito d’imposta. Questo indirizzo non é mai venuto, lasciando che si affermasse la costruzione del Benelux, che i singoli paesi hanno adottato per evitare di perdere la sede delle holding e dovendo comunque superare il vecchio sistema per adempiere ai dettati della Corte.
4. La nuova società della Fiat é di diritto olandese, ma ha sede fiscale in Gran Bretagna. Con il voto maggiorato non vale più il principio di un’azione – un voto, ma gli statuti possono prevedere che particolari azioni abbiano un diritto di voto maggiorato. In tal modo la maggioranza azionaria può blindare la proprietà.
5. In Italia varato nell’agosto 2014, ma mancante ancora di un regolamento Consob.
6. L’Italia ha varato il suo patent box a partire da gennaio del 2015. Poiché alla concorrenza fiscale non c’é fine é lecito chiedersi se non sarebbe stato meglio porre con determinazione il problema della concorrenza fiscale durante il suo semestre di presidenza dell’Unione Europea nella seconda metà del 2014.
7. La stima proviene dalla precedente Commissione, ma anche recentemente Algirdas Semeta, commissario per Fiscalità e Unione doganale ha fatto riferimento alla stessa cifra. Per promemoria, il bilancio dell’Unione in termini di stanziamenti si aggira intorno ai 150 miliardi di euro.
8. A poco a poco esentati da tassazione in quasi tutti paesi con la presunzione di evitare una doppia tassazione con quella del paese di residenza e con la buona opportunità consentire ad essi di sfuggire a entrambe le tassazioni. Il regime si porta appresso la mancata tassazione dei capital gain realizzati da persone fisiche non residenti.
9. La media dell’aliquota formale sui profitti è passata in Europa dal 45% del 1980 al 24% del 2014, con una varianza sempre più ridotta.
10. Il senso del “particolaristico” era individuato nella non accessibilità dei residenti allo stesso regime.
11. Un bella messa a punto dei temi relativi alla “concorrenza dannosa” è in V. Ceriani, Competitività dei sistemi fiscali, in XXI Secolo, ed Enciclopedia Treccani, Roma, 2009
12. La cui aliquota è fissata al 12,5%
13. I pallini indicano le linee di azione e di programma
14. La direttiva risparmio mirava a riportare a tassazione nel paese di residenza i proventi finanziari realizzati altrove, ma erano esentati Lussemburgo, Austria e Irlanda, che potevano applicare ai residenti esteri una tassazione alla fonte, senza aderire per 10 anni al sistema informativo. Quella direttiva lasciava ampi spazi ai singoli per sfuggire al sistema informativo.
15. Ma anche Ikea, PepsiCo. FedEx, Procter&Gamble, Vodafone, Microsoft, ecc. ecc. Una recente inchiesta giornalistica inserisce anche 21 imprese italiane in Lussemburgo (senza contare la sede lussemburghese di fondi distribuiti in Italia, che appartiene a un altro ordine di problemi).
16. Gli accordi avvengono attraverso il cosiddetto tax ruling o Apa (transaction tax agreement) in cui le imprese chiedono preventivamente quale sarà la loro tassazione in caso di trasferimento; lo schermo rimane quello dell’applicazione di aliquote “normali” di tassazione (che non danno luogo a “concorrenza dannosa”, 25%, ad esempio in Olanda), quando la sostanza é la concessione di abbattimenti di base imponibile, che finiscono per ridurre in modo irrisorio i profitti tassabili.
17. In Italia, ad esempio, questa tassazione esiste, anche se é solo del 5%. In ciascuno dei paradisi fiscali interni all’Unione non sono previste ritenute alla fonte su pagamenti per beni immateriali.
18. Un inchiesta britannica porta in evidenza che dal suo arrivo in Gran Bretagna nel 1988 Starbucks’ ha pagato cumulativamente fino al 2012 tasse per 11,5 ml di euro contro vendite per 4,5 mld di euro.
19. Un’ordinazione di un libro da 50 euro, per intenderci, dà luogo a un profitto tassabile integrato di 1,5 centesimi di cent. Amazon ha otto mega magazzini in Gran Bretagna e 6000 dipendenti; ha un numero elevato di dipendenti in Francia, e Germania, ma il grosso dei profitti va nella sua sede lussemburghese dove ha 200 dipendenti.
20. Tutto ciò risulta dall’inchiesta del Senato americano sulla Apple. Spiegare quali scappatoie legali rendano ciò possibile complicherebbe la trattazione. Nei maggiori mercati europei di vendita dei suoi prodotti, Apple fissa i prezzi di acquisto (dall’Irlanda) in modo da limitare i profitti tassati in loco. Nel 2011, ad esempio, Apple ha dichiarato perdite della capogruppo locale in Germania e Francia e ha pagato tasse per 10,5 milioni di euro in Gran Bretagna su vendite per oltre 1300 milioni di euro.
21. Questo scritto era già redatto (la relazione ai Parlamenti Europei é del 30 settembre 2014) quando, un mese dopo, é scoppiato il caso Junker (premier del Lussemburgoper 15 anni), relativo agli accordi segreti siglati da questo Paese con molte multinazionali per ottenere il loro insediamento in cambio di remissione di tasse. Per ora sono emersi solo gli accordi intermediati dalla società di consulenza Pricewaterhouse Coopers. Se l’esistenza di tali pratiche era all’ingrosso nota a me é possibile che non fosse nota ai governanti europei? Perché non vi é stato posto termine nel corso degli anni, forse perché la concorrenza fiscale é benefica? Inoltre, come può esser sfuggito al Parlamento europeo che Junker era la persone meno adeguata e credibile per quella responsabilità?
22. E’ ormai il 5% del pil dei paesi occidentali ed é in rapida crescita da far presumere che sarà presto una frazione doppia.
23. La prima tranche di tassazione è dello Stato dove l’impresa opera con la stabile organizzazione locale (in pratica, la capogruppo sul territorio). Lo Stato in cui l’impresa madre opera a monte applicherà la seconda tranche secondo i propri criteri è così via riconoscendo quanto é già stato pagato in imposte sul reddito negli Stati con cui ha sottoscritto i trattati di doppia tassazione. Oggi il principio dell’Home State Taxation è minato non solo dalla gestione dei prezzi di trasferimento nel commercio interno alle conglomerate, ma anche dal fatto che nell’economia digitale la stabile organizzazione nel paese di vendita non è necessaria. Tuttavia, le nuove regole U.E. sulle imposte indirette (che entrano in vigore nel 2015) stabiliscono che ai soli fini Iva le imprese che attuano prestazioni on line in settori identificati e con importi di vendita superiori a certe soglie debbano identificarsi in ogni Stato U.E. di consumo dei servizi.

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