Sigmund Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, 1909. Il caso del piccolo Hans

by gabriella
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Freud con Herbert Graf (nato nel 1903) nel 1905 circa

Il primo esempio di analisi infantile eseguito da Freud attraverso il resoconto del padre del bambino. Lo psichiatra ricostruisce l’origine della nevrosi del piccolo Herbert, figlio del musicologo Max Graf, di cui cambia il nome in Hans per poterne includere il caso nei suoi diari.

La nevrosi di Hans, che si manifesta con l’emergere della fobia del piccolo per i cavalli, si sviluppa, nelle circostanze descritte nei diari, durante la fase edipica dello sviluppo psicosessuale del bambino. Freud ne illustra la complessità, portando il bambino alla guarigione attraverso il metodo catartico, una terapia della parola (talking cure la definirà la paziente del dott. Breuer) che permette l’accesso alla coscienza dei sentimenti e dei desideri istintuali che erano stati rimossi perché ritenuti inaccettabili. S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1989, vol. V, pp. 508-511, 587-589. Tratto da Filosofico.net.

 

Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, 2, 3, poscritto

Quel pomeriggio padre e figlio erano venuti a consultarmi nel mio studio. Conoscevo già il bricconcello, tutto sicuro di sé ma tanto simpatico che mi faceva sempre piacere vederlo. Non so se si ricordasse di me, ad ogni modo si comportò in modo impeccabile, come un ragionevolissimo membro del consorzio umano. La visita fu breve. Il padre cominciò col dire che, nonostante tutte le spiegazioni, la paura dei cavalli non era diminuita. Dovemmo anche convenire che tra i cavalli, di cui aveva paura, e i moti palesi di tenerezza verso la madre, non c’erano molte relazioni.

Ciò che sapevamo non era certo in grado di spiegare i particolari che appresi soltanto allora: che lo infastidiva soprattutto ciò che i cavalli hanno davanti agli occhi e il nero intorno alla loro bocca. Ma mentre guardavo i due seduti davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura, mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale, come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi a Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma.

Credeva che perciò il babbo fosse arrabbiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla sua mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà.

– Come puoi credere che io sia arrabbiato con te? – m’interruppe il padre,
– t’ho mai sgridato o picchiato?
– Oh sì – lo corresse Hans, – mi hai picchiato.
– Non è vero; ma quando?
– Questa mattina – rispose il bambino, e il padre si ricordò che al mattino Hans gli si era gettato all’improvviso con la testa contro la pancia e che, quasi automaticamente, egli aveva risposto con uno scappellotto. Fatto singolare, il padre non aveva messo in riferimento questo particolare col contesto della nevrosi; ora però si rese conto. Anch’esso costituiva un’espressione della disposizione ostile del piccino verso di lui e fors’anche del bisogno di ricevere una punizione per questo.
Ritornando a casa Hans chiese al padre:

– Com’è che il professore sapeva già tutto prima? Forse parla col buon Dio?

 Sarei straordinariamente fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria. Dopo quella visita ricevetti quasi ogni giorno ragguagli sulle variazioni dello stato del piccolo paziente. Non ci si poteva aspettare che, grazie alla mia spiegazione, egli si liberasse di colpo delle sue angosce; si vide però che ora gli era offerta la possibilità di portare avanti le sue produzioni inconsce e dipanare la sua fobia. Da quel momento in poi Hans attuò un programma che potei preannunciare al genitore.

Il 2 aprile si nota il primo reale miglioramento. Finora non era mai stato possibile convincerlo a trattenersi per un po’ di tempo fuori del portone, e quando si avvicinava un cavallo rientrava a precipizio in casa, spaventatissimo; oggi invece è rimasto davanti al portone un’ora, anche quando passava qualche carrozza, il che avviene piuttosto spesso davanti a casa nostra. Qualche volta, vedendo da lontano una carrozza, faceva per correr dentro, ma poi tornava indietro subito, come se ci avesse ripensato. Ad ogni modo, l’angoscia sembra ridotta a un residuo e i progressi avvenuti dopo la spiegazione sono innegabili.

La sera dice:

– Adesso che arriviamo fino davanti al portone, possiamo anche andare al Parco municipale.

Lo studio di FreudLa mattina del 3 aprile viene a letto da me [il lettino posto nello studio di Freud, NDR], mentre negli ultimi giorni non era mai venuto e anzi sembrava fiero di questa sua riservatezza. Gli chiedo:

– Perché oggi sei venuto?
Hans: – Quando non ho più paura non vengo più.
Io: – Allora tu vieni da me perché hai paura?
Hans: – Quando non sto con te, ho paura; quando non sto a letto con te, ho paura, ecco. Quando non avrò più paura, non vengo più.
Io: – Allora tu mi vuoi bene, e la mattina presto a letto hai paura, e perciò vieni da me?
Hans: – Sí. Perché mi hai detto che io voglio bene alla mamma e che è per questo che ho paura, mentre invece io voglio bene a te?”

Il piccolo è qui straordinariamente esplicito. Egli fa capire che in lui l’amore per il padre è in conflitto con l’ostilità verso il padre, rivale nei confronti della madre, al quale egli fa il rimprovero di non avergli fatto rilevare questo gioco di forze opposte che doveva trovar sfogo nell’angoscia. Il padre non comprende ancora completamente suo figlio perché, durante questo colloquio, non fa che convincersi della sua ostilità verso di lui, quell’ostilità che io gli avevo fatto rilevare nell’ultima visita. Ciò che segue serve in realtà a dimostrare più i progressi del padre che quelli del figlio; tuttavia lo riferirò senza cambiare nulla.

Purtroppo non comprendo subito il senso di questa obiezione. Poiché Hans ama la mamma, vuole evidentemente che io non ci sia piú, in modo da mettersi al posto del padre. Questo desiderio ostile represso si tramuta in angoscia per la sorte del padre, sicché egli viene la mattina da me per vedere se ci sono ancora. Questa spiegazione non mi viene purtroppo in mente lí per lí, e gli dico:

– Quando tu sei solo, è che hai paura per me e allora mi vieni a trovare.
Hans: – Quando tu sei via, io ho paura che non torni più a casa.
Io: – Forse ti ho minacciato qualche volta di non tornare più?
Hans: – Tu no, ma mamma sí. La mamma mi ha detto che non ritornava più a casa – (probabilmente aveva fatto i capricci e la mamma l’aveva minacciato di andarsene).
Io: – Questo l’ha detto perché tu eri cattivo.
Hans: – Sì.
Io: – Tu perciò hai paura che io me ne vada via perché sei stato cattivo, e allora vieni da me.

Appena fatta colazione mi alzo da tavola e Hans dice:

Papà, perché trotti subito via? – Noto che ha detto ‘trotti’ invece di ‘corri’ e gli rispondo: – Ah, ecco! tu hai paura che il cavallo trotti via – Hans ride.”

Sappiamo che questa parte dell’angoscia di Hans ha due componenti: paura del padre e paura per il padre. La prima proviene dall’ostilità verso il padre, la seconda dal conflitto tra tenerezza, che qui è esagerata per reazione, e ostilità.

Il padre continua: Questo è senza dubbio l’inizio di una fase importante. Il fatto che il piccolo si azzardi al massimo a uscire dal portone, senza allontanarsi dalla casa, che a metà strada, al primo accesso d’angoscia, ritorni sui suoi passi, è dunque motivato dalla paura di non trovare più a casa i genitori perché sono andati via. Egli è inchiodato alla casa dal suo amore per la madre, e teme ch’io me ne vada a causa dei desideri ostili (allora, sarebbe lui il padre) che nutre nei miei riguardi.

La scorsa estate ero solito partire spesso da Gmunden alla volta di Vienna, per motivi di lavoro, e allora era lui il padre. Ricorderò a questo proposito che la paura dei cavalli è legata all’episodio di Gmunden quando un cavallo doveva portare i bagagli di Lizzi alla stazione [p. 499]. Il desiderio rimosso di vedermi andare in carrozza alla stazione, per restare solo con la mamma (il desiderio che ‘il cavallo s’avvii’), si era poi tramutato nell’angoscia di vedere i cavalli avviarsi; e in effetto nulla lo agita di più che il vedere un carro avviarsi dal cortile del Dazio centrale, sito dirimpetto al nostro appartamento, e i cavalli mettersi in moto.

Tutta questa parte nuova (malanimo nei confronti del padre) è potuta venire in luce soltanto dopo che il bambino ha appreso che io non ero adirato con lui per il fatto ch’egli vuole tanto bene alla mamma.

Nel pomeriggio esco nuovamente con lui fuori del portone; va di nuovo davanti alla casa e vi resta anche quando passano le carrozze, ha paura soltanto di certe carrozze e corre dentro al portone. – Non tutti i cavalli bianchi mordono – mi spiega; ciò significa che, in virtù dell’analisi, alcuni cavalli bianchi sono già stati riconosciuti come il ‘babbo’ e quindi non mordono più, però ce ne sono altri che mordono ancora.

[…]

Domandiamoci ora: qual danno ha procurato a Hans il portare alla luce in lui complessi solitamente rimossi dai figli e temuti dai genitori? Forse che perciò egli ha seriamente tentato di tradurre in atto le sue pretese verso la madre, o forse che alle cattive intenzioni contro il padre sono subentrati i fatti? Certo, è quello che avranno temuto i molti che, misconoscendo la natura della psicoanalisi, credono che render coscienti le cattive pulsioni significhi renderle piú forti. Queste sagge persone agiscono con coerenza quando ci supplicano per l’amor del cielo di non occuparci delle brutture che si nascondono dietro le nevrosi. Ma, cosí facendo, essi dimenticano di esser medici e vengono fatalmente a rassomigliare al Sanguinello shakespeariano in Molto rumore per nulla, che consiglia alla ronda di tenersi lontana da ogni contatto con i ladri che incontrasse per via. “Con gente di quella specie, meno che ci vi immischiate o avete a che fare, meglio è per la vostra onestà.”

Al contrario, le uniche conseguenze dell’analisi sono che Hans guarisce, che non ha piú paura dei cavalli e che assume una specie di tono cameratesco con il padre, come questi ci riferisce divertito. Ma quel che il padre perde in rispetto lo riacquista in fiducia: “Credevo che tu sapessi tutto, perché hai saputo la cosa del cavallo.” L’analisi non annulla l’effetto della rimozione; le pulsioni precedentemente represse restano represse; ma essa ottiene lo stesso effetto per altra via, sostituendo al processo della rimozione, che è automatico ed eccessivo, il graduale dominio temperato e adeguato conseguito con l’aiuto delle massime istanze psichiche, in una parola: sostituendo alla rimozione la condanna. Ciò sembra darci la prova, da tempo cercata, del fatto che la coscienza – l’essere coscienti – ha una funzione biologica, e che il suo avvento implica un importante vantaggio. [Nota aggiunta nel 1923: La parola “coscienza” è qui usata in un senso in cui l’ho poi evitata, ossia nel senso del nostro normale concepir pensieri ammissibili alla coscienza. Noi sappiamo che tali processi di pensiero possono anche svolgersi preconsciamente, e faremo bene a considerare il loro “essere coscienti” da un punto di vista puramente fenomenico. Ciò non vuol dire, naturalmente, che anche il divenir cosciente in tal senso fenomenico non adempia una funzione biologica].

Se la cosa fosse dipesa soltanto da me avrei osato dare al bambino anche una spiegazione che i genitori ritennero di ricusargli. Avrei confermato i suoi presentimenti istintivi rivelandogli l’esistenza della vagina e del coito, e in tal modo avrei ulteriormente ridotto i suoi residui insoluti e messo fine al suo torrente di domande. Sono convinto che non ne avrebbero sofferto né il suo amore per la mamma né la sua natura di bimbo e che avrebbe compreso egli stesso che, per occuparsi di queste importanti, anzi imponenti questioni, avrebbe dovuto attendere in pace che si fosse adempiuto il suo desiderio di diventare grande. Ma l’esperimento pedagogico non fu condotto cosí a fondo.

Che non sia possibile tracciare un netto confine tra “nervosi” e “normali”, sia bambini che adulti; che la “malattia” sia soltanto un concetto meramente pratico di sommazione; che la predisposizione e i casi della vita debbano combinarsi per varcar la soglia di questa sommazione; che pertanto numerosi individui passino continuamente dalla categoria dei sani a quella dei malati di nervi, mentre un numero assai minore compie il tragitto inverso, sono tutte cose che sono state dette tante volte e hanno trovato tanta eco, che non son io certo il solo a sostenerle. Ora, è perlomeno molto verosimile che l’educazione del bambino possa esercitare un profondo influsso a favore o a sfavore di quella predisposizione alla malattia che abbiamo menzionato come fattore della sommazione. Ma a che, deve mirare l’educazione? dove deve intervenire? È ancora difficile rispondere con sicurezza. Finora, essa si è posta per compito soltanto il dominio, o meglio la repressione delle pulsioni. I risultati sono stati tutt’altro che soddisfacenti e dove si è avuto qualche successo, questo ha riguardato soltanto un esiguo numero di privilegiati sfuggiti alla pretesa della repressione pulsionale. D’altra parte nessuno si è domandato per quali vie e in virtù di quali sacrifici si raggiunga la repressione delle pulsioni imbarazzanti. Se per contro noi sostituiamo a questo compito un altro, quello di rendere l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano, senza chiedergli di sacrificare la propria attività piú di quanto non sia strettamente necessario, ecco che allora i chiarimenti datici dalla psicoanalisi sull’origine dei complessi patogeni e sul nucleo di ciascheduna nevrosi meriteranno giustamente di essere considerati dall’educatore una guida di inestimabile valore per la condotta da tenere nei confronti del bambino. Quali conclusioni pratiche se ne possano trarre, fino a che punto l’esperienza possa giustificare l’applicazione di tali conclusioni nel nostro sistema sociale, lascio ad altri di decidere e di giudicare.

Non posso prender congedo dalla fobia del nostro piccolo paziente senza esprimere un’idea che conferisce per me un valore particolare all’analisi che permise la guarigione. Quest’analisi non m’ha rivelato, in senso stretto, nulla di nuovo, nulla che non avessi già appreso (spesso in modo meno chiaro e meno immediato) durante la cura di altri pazienti in età matura. Ma, poiché le nevrosi di questi altri malati potevano sempre esser ricondotte a quegli stessi complessi infantili che abbiamo scoperto dietro la fobia di Hans, sono tentato di annettere a questa nevrosi infantile l’importanza di un modello e di un tipo, opinando che la molteplicità dei fenomeni nevrotici di rimozione e l’abbondanza del materiale patogeno non impediscano la loro derivazione da pochissimi processi riguardanti gli stessi complessi rappresentativi.

poscritto del 1922

Oleg Shuplyak, Sigmund Freud

Oleg Shuplyak, Sigmund Freud

Qualche mese fa – primavera del 1922 – mi si presentò un giovanotto dichiarando di essere il “piccolo Hans”, sulla cui fobia infantile avevo pubblicato un rapporto nel 1909. Fui molto lieto di rivederlo, poiché circa due anni dopo la conclusione dell’analisi l’avevo perso di vista e per oltre un decennio non avevo saputo più nulla di lui. La pubblicazione di quella prima analisi di un bambino aveva suscitato molto rumore e ancor maggiore indignazione; tutte le sventure erano state profetate al povero ragazzo, violato nella sua innocenza e vittima di una psicoanalisi in sì tenera età.

Ma nessuna di queste profezie si era verificata. Hans adesso era un prestante giovane di diciannove anni. Mi disse che stava perfettamente bene e che non soffriva di disturbi o inibizioni di alcun genere. Non soltanto aveva attraversato indenne la pubertà, ma aveva sopportato senza conseguenze una delle più dure prove della sua vita emotiva: i genitori avevano divorziato passando ambedue a nuove nozze. Perciò egli viveva solo, pur mantenendo buone relazioni con tutte due i genitori: gli rincresceva soltanto che, scioltasi la famiglia fosse rimasto separato dalla giovane sorella che gli era molto cara.

Particolarmente notevole mi apparve una delle cose che mi disse il piccolo Hans, e di cui non tenterò neppure di dare una spiegazione. Dichiarò che, quando aveva letto il suo caso clinico, tutto gli era parso estraneo, non si riconosceva, non si ricordava di nulla, solo leggendo del viaggio a Gmunden gli era balenata l’idea, quasi un barlume di ricordo, di poter essere stato lui. L’analisi dunque, lungi dall’aver preservato gli avvenimenti dall’amnesia, vi era essa stessa soggiaciuta. Succede talvolta in modo simile nel sonno a chi ha familiarità con la psicoanalisi: costui è destato da un sogno, decide di analizzarlo senza indugio, si riaddormenta soddisfatto del risultato, e il giorno dopo sogno e analisi sono dimenticati.

 

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