L’antisemitismo religioso

by gabriella
Marc Chagall, La crucifixion blanche, 1938

Marc Chagall, La crucifixion blanche, 1938

Una ricognizione storica dell’antisemitismo di matrice religiosa, nello specifico cattolica, da tenere distinto da quello di matrice razziale. Il testo si compone di un articolo di Adriano Prosperi uscito su Repubblica del 10 febbraio 2006 e di uno stralcio del saggio storico di Simon Levis Sullam, pubblicato da Treccani.it, sull’antisemitismo della Chiesa cattolica nell’ottocento.

Vedete – […] – non hanno mai capito Gesù, uno dei nostri rabbi più compassionevoli. Quando escono dalla messa mattutina non hanno compreso ciò che hanno visto, hanno confuso tra il crocifisso e il vitello d’oro. Il mio dipinto intende aiutare i cristiani a fuggire dalla idolatria del nazionalismo cristiano o dalla ideologia dei crociati.

Marc Chagall

 

Adriano Prosperi, Pasque di sangue

pasque di sangueLa recensione di Adriano Prosperi a Pasque di sangue di Ariel Toaff.

La data del giorno della memoria è appena passata quando si deve aprire il dossier del cosiddetto “omicidio rituale” ebraico. Lo si fa con grande disagio. Ma due ragioni impongono che si torni a parlare di qualcosa che credevamo sepolto per sempre sotto gli orrori che ha prodotto e legittimato: la prima è che il libro esce in una autorevole collana di cultura storica; la seconda è che l´ipotesi che ci siano state delle “pasque di sangue” – sangue di bambini cristiani torturati e dissanguati – viene avanzata da uno storico che si chiama Toaff e che insegna in una università ebraica.

Immaginiamo che ci sia stata della sofferenza in uno storico ebreo davanti a una scoperta del genere e un conflitto interiore davanti al dovere professionale di non dire il falso e di non tacere niente del vero. Ma qui la sofferenza è cancellata dall´emozione di chi propone la madre di tutte le revisioni. La quarta di copertina
strizza l´occhio al lettore: questo libro “affronta coraggiosamente uno dei temi più controversi nella storia degli ebrei d´Europa”. Non si capisce bene dove sia il coraggio visto che la tesi qui sostenuta legittima le accuse dei vincitori e le persecuzioni dei vinti.

E comunque non si tratta certo di un tema controverso. Non lo è per gli storici: nessuno storico degno di questo nome, almeno finora, ha mai dato corpo all’accusa dell´infanticidio rituale ebraico. Né lo è più da tempo per la Chiesa cattolica nel cui nome operarono i giudici dei processi contro gli ebrei. Lentamente ma con decisione, le anime dei bambini presunte vittime degli ebrei, elette alla gloria degli altari a furor di popolo, ne sono state ufficialmente fatte discendere.

Ma vediamolo questo libro. La prima sorpresa è che non ci sono documenti nuovi, solo un uso diverso delle fonti già note. La prova della sua tesi Toaff la trova nelle confessioni fatte dagli ebrei nei processi intentati a loro carico: qui, secondo lui, imputati diversi a distanza di tempo e di luogo non solo riferirono gli stessi particolari ma rivelarono anche qualcosa che solo gli ebrei potevano conoscere. Toaff non lo dice, ovviamente, ma la prima parte del suo argomento è identica a quello che dicevano secoli fa gli inquisitori, quando le accuse di infanticidio rituale passarono dagli ebrei alle streghe: la realtà del Sabba stregonesco emergeva secondo loro dalla perfetta sovrapponibilità delle confessioni delle imputate.

La seconda parte dell’argomento è dottamente argomentata con una citazione di Carlo Ginzburg: quando nei documenti della violenza dei persecutori si trovano frammenti della cultura perseguitata che non trovano riscontro in quella dei persecutori si apre uno spiraglio sull’autentica identità delle vittime. Il principio è buono e ha consentito a Ginzburg di rileggere in modo nuovo un grande problema storico. Ma Toaff, buon teorico, è un pessimo seguace del metodo che propone. Il problema è semplice : è vero o no che nelle Pasque ebraiche veniva usato sangue cristiano procurato con infanticidi? Che gli imputati sottoposti a tortura lo ammettessero non è una prova, visto che questo era esattamente ciò che i giudici volevano far loro dichiarare.

Bisogna cercare riscontri puntuali di quelle conoscenze segrete svelate a giudici ignari: e Toaff non ce ne offre nessuno che appaia persuasivo. Però almeno una volta annuncia trionfante di aver trovato i “precisi riscontri” di cui va in caccia. Vediamoli. Si tratta della testimonianza resa da Giovanni da Feltre, ebreo convertito, nel celebre processo trentino del 1475 per l´infanticidio del piccolo Simonino. Giovanni era figlio dell’ebreo Sachetus, originario di Landshut, in Baviera, dove nel 1440 cinquantacinque ebrei erano stati bruciati con l´accusa di aver ucciso un bambino. Giovanni , dopo aver tentato di schermirsi, finì col confessare che suo padre nel giorno della Pasqua ebraica era solito versare sangue del bambino cristiano nel suo vino e spargerlo sulla mensa maledicendo i cristiani; e aggiunse che tutti gli ebrei facevano così in segreto e che lui lo aveva visto e sentito. Questo documento, così importante per lui, Toaff lo cita di seconda mano. Se avesse avuto la pazienza di risalire all’ottima edizione che ne hanno fatto Anna Esposito e Diego Quaglioni avrebbe scoperto:

1) che Giovanni era in prigione per altro reato, per cui la sua testimonianza di uomo “infamatus” non era valida in giudizio. Chi se ne servì fece un abuso di potere e torchiò un uomo che aveva motivi forti per prestarsi alla volontà del potere;

2) che Giovanni non rivelò qualcosa che il giudice non conosceva, ma confermò colorendolo con qualche dettaglio ciò che il podestà gli aveva suggerito nella domanda verbalizzata in processo.

La sua testimonianza fu decisiva per mettere in moto la feroce macchina giudiziaria. Ma quella testimonianza e l’intero processo furono giudicati nulli dal commissario apostolico inviato da papa Sisto IV (perché quel processo trentino fu così abnorme da attirare l´attenzione di Roma). Le regole di procedura penale tenevano conto di qualcosa che in questo libro non risulta mai con la dovuta chiarezza: il terribile potere della tortura, mezzo capace di far confessare qualunque cosa a chiunque. Le norme imponevano che si ricorresse alla tortura solo in presenza di prove e testimonianze valide. Sarebbe come se oggi, scomparso per fortuna (ma a qual prezzo) il sospetto di infanticidio rituale contro gli ebrei ma sopravvivendo altre categorie sociali di diversi, i giudici torturassero gli zingari ogni volta che scompare un bambino. Invece nel 1475 il podestà di Trento, spinto dal vescovo-principe Hinderbach, sottopose gli ebrei trentini a torture violentissime in assenza di prove valide e poi assunse come prova le confessioni dei torturati. Subito dopo in quel drammatico scorcio del ‘400 ci fu un´epidemia di casi di presunti infanticidi e di violenze antiebraiche. L’Inquisizione spagnola nacque sull’onda delle emozioni antiebraiche per il caso di un “santo bambino”.

Ancor oggi nelle chiese spagnole, nonostante i divieti della Chiesa di Roma, capita di vedere venerati bambini crocifissi da ebrei. Ma di questi casi Toaff curiosamente non parla: e questo perché ha un suo paradigma interpretativo che attribuisce l´infanticidio e più in generale l´omicidio rituale non a tutti gli ebrei ma solo agli ashkenaziti. Quel mondo ebraico di area germanica, imbarbarito nei rituali e dominato da una superstiziosa fiducia negli usi terapeutici e magici del sangue, oltre che animato da odii più radicati nei confronti della popolazione cristiana, gli è sembrato il candidato giusto per l’origine dell´infanticidio e per la sua diffusione fino nelle propaggini trentine e venete. Ma perché non ci dice che dal mondo germanico veniva anche il vescovo Hinderbach e che nella sua testa la convinzione della colpa degli ebrei era fissa fin da prima del processo? così fissa e stabile da andare in cerca in casa dell’imputato Samuele del coltello rituale del sacrificio e, non trovandolo, da accontentarsi di far confessare sotto tortura a Samuele che gli ebrei si erano irritualmente serviti di una tenaglia.

Resterebbe da dire del dubbio coniugio fra l´antropologia dei riti ebraici qui diffusamente esposta e la storia dei rapporti di potere e dei pogrom. Il modo di procedere del libro è come un gioco a carte truccate: le storie che le vittime raccontarono per saziare i carnefici sono prese per buone, ricucite con altre storie e amalgamate con abbondante salsa antropologica di storia dei rituali ebraici. Ma accostare pratiche rituali ebraiche più o meno connesse col sangue e ammissioni di infanticidi fatte da persone sotto tortura vuol dire costruire un castello senza fondamenta. Anche le streghe, eredi di quell’accusa inquisitoriale di infanticidio rituale già sperimentata contro gli ebrei confessarono ai giudici dell’Inquisizione (spesso perfino senza torture) di avere fatto morire bambini, di averli ritualmente mangiati, di avere maledetto la croce e trescato col demonio. Per rendere credibili le confessioni raccontarono molti episodi e denunziarono persone reali come complici.

Finché all’inizio del ‘600 un documento ufficiale del Sant´Uffizio romano ordinò che non si prestasse più fede né alle confessioni delle streghe pentite, per quanto circostanziati, né agli indizi di riti magici, né alle accuse delle popolazioni cristiane a proposito di presunti infanticidi: per procedere in via giudiziaria ci doveva essere il corpo del delitto, cioè la prova che i bambini erano stati effettivamente fatti morire dalle streghe con arti diaboliche. Così finì la storia del sabba stregonesco. Ben prima era entrato in crisi nella cultura dei giudici dell´Inquisizione anche quel paradigma dell’infanticidio rituale ebraico che ora salta fuori come uno scherzo carnevalesco di pessimo gusto. Arnaldo Momigliano diceva che, se uno storico sbaglia nell’uso delle fonti, ci pensano i colleghi a farglielo notare con la debita durezza. Però Momigliano non poteva prevedere che, cambiando i tempi, la critica storiografica venisse amministrata dai professori non dalla cattedra universitaria ma dalla redazione di un giornale o dallo studio di una televisione: con l´inevitabile dose di fretta e – talvolta, ma non necessariamente – di cinismo che ne deriva.

 

Simon Levis Sullam, L’antisemitismo religioso in Italia e in Europa

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Introduzione

In Italia «il giudaismo impera signore», denunciava sulle pagine de «La Civiltà cattolica» nell’ultimo decennio dell’Ottocento padre Raffaele Ballerini, e rimarcava tuttavia come ancora non fosse sorto uno scrittore italiano paragonabile al francese Edouard Drumont, recente autore di grande successo del voluminoso pamphlet antisemita La France juive1. Erano, in realtà, i fantasmi di un’antica tradizione antigiudaica che emergevano in forme nuove (poco o nulla contava nella penisola, allora e in seguito, la piccola minoranza ebraica) e la partecipe attenzione dell’organo gesuita per il sorgere dell’antisemitismo politico e dei suoi movimenti in Europa. Ma indubbiamente nuova era l’intensità con cui la ‘questione ebraica’ catalizzava l’attenzione della Chiesa e del mondo cattolico e, soprattutto, ne impegnava l’azione spirituale e culturale nello scontro con le trasformazioni e vicende politiche italiane ed europee alla fine del secolo XIX: tanto che è stato scritto che l’antisemitismo cattolico non possa essere visto in questo periodo solo come uno «strumento politico», ma debba essere considerato una vera «risposta religiosa […] alla modernità»2.

Ripercorrere centocinquant’anni di storia dell’antiebraismo cattolico in Italia significa – come per la citazione di «La Civiltà cattolica» – confrontare rappresentazioni e realtà; misurare sopravvivenze, continuità, rotture; indagare nuove forme ed emergenze di una tradizione teologica, religiosa, culturale e politica che conobbe momenti di notevole intensità specie nei primi cento anni di questa storia. Ma significa anche rilevare, infine, trasformazioni profonde nell’ultimo cinquantennio più vicino a noi, legate al mutamento e alle revisioni degli orientamenti ufficiali della Chiesa, come pure all’evoluzione degli atteggiamenti religiosi e alle trasformazioni e al declino della religiosità della società italiana. Una storia degli orientamenti cattolici antiebraici non dovrebbe e potrebbe essere fatta, inoltre, limitandosi a una dimensione nazionale: sia per la natura e i collegamenti per definizione extranazionali del mondo cattolico che per le influenze dirette e indirette, e persino per i processi di imitazione ed emulazione tra la Chiesa romana nelle sue varie espressioni, i diversi episcopati, i movimenti politici di ispirazione cattolica o singole personalità nelle principali nazioni europee (come nel riferimento iniziale a Drumont) che alla tradizione del cattolicesimo attinsero. Una distinzione e un confronto andrebbero sempre fatti, infine, tra gli orientamenti dei vertici della Chiesa, l’atteggiamento del clero ai diversi livelli (tanto influente nell’opera di trasmissione e diffusione) e, non ultimi, la visione e la mentalità del popolo dei credenti, seppure restino sempre i più difficili da conoscere e indagare e ancora richiedano scavi storiografici attenti soprattutto alla dimensione locale3

È certo, in ogni caso, che nei cento e più anni trascorsi tra l’Unità d’Italia e la fine del concilio Vaticano II, scarse modifiche subì la linea teologica ufficiale della Chiesa, improntata a un fermo antigiudaismo; e una frequente confluenza, commistione e talora coincidenza (nonostante distinzioni e prese di distanza) si ebbero, nel mondo cattolico, tra l’antigiudaismo religioso e l’antisemitismo politico di matrice laica e di natura ‘razziale’, per alcuni aspetti anche cronologicamente oltre le sue tragiche conseguenze nella Seconda guerra mondiale. Il Vaticano II e la dichiarazione Nostra Aetate, preceduti da modifiche di passaggi controversi della liturgia, segnarono dopo la seconda metà del secolo XX l’inizio di una graduale revisione delle posizioni antigiudaiche della Chiesa – a partire dal superamento dell’accusa di deicidio rivolta agli ebrei di ogni tempo – e avviarono la lenta diffusione di questi cambiamenti ai diversi livelli del clero e il loro riflettersi, quindi, nei messaggi che giungevano ai credenti, fino a giungere a una notevole marginalizzazione delle posizioni antiebraiche ufficiali a segmenti residuali del mondo cattolico. Si tratta quindi di una storia di lunghe persistenze di atteggiamenti che hanno contribuito a segnare tragicamente la storia europea tra la fine del XIX e la prima metà del secolo XX, con il riemergere e l’acutizzarsi di una tradizione secolare di ostilità religiosa che ha assunto anche le forme dell’odio politico e del pregiudizio razzista. Questi atteggiamenti sono gradualmente andati attenuandosi nella Chiesa e nel mondo cattolico, dagli anni Sessanta del Novecento fino a oggi, ma la loro storia e il loro lascito, assieme a limitate esplicite sopravvivenze, possono talora ancora interferire con gli atteggiamenti di aree del cattolicesimo verso il mondo ebraico, con le prese di posizione di singole ma visibili personalità cattoliche, con alcune decisioni della Chiesa.

 

Il «pericolo giudaico» tra Italia e Europa

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Il martirio del beato Simonino, Palazzo Salvadori Trento

Nel 1867, un anno dopo l’annessione del Veneto all’Italia, Pio IX confermava ufficialmente il culto del beato Lorenzino da Marostica (Vicenza), offrendo così nuovo alimento a uno dei culti popolari nati attorno all’accusa del sangue: l’accusa rivolta agli ebrei di utilizzare il sangue di bambini cristiani nei rituali della Pasqua4. Era l’inziativa – gesto minore ma rappresentativo – di un papa che, da ultimo con l’enciclica Quanta cura e con il Sillabo dei principali errori del nostro tempo, si era da tempo arroccato su posizioni di strenua difesa della tradizione cattolica e di scontro con la modernità culturale e politica. A questo profondo dissidio si sarebbero presto aggiunti l’epocale ferita della conquista di Roma da parte del neonato Stato italiano e il grave conflitto apertosi tra la Chiesa e lo Stato liberale. Uno degli strumenti e allo stesso tempo delle risposte di fronte a questo scontro con la modernità fu il ritorno alla tradizione antiebraica che, oggetto di una vera riviviscenza e di notevoli trasformazioni negli ultimi decenni del secolo XIX, era in effetti espressione di un’antica e radicata visione ideologica e, potremmo dire, di una secolare mentalità religiosa.

Le nuove forme che questa tradizione veniva ad assumere erano sempre più frequentemente quelle dell’accusa di una cospirazione politica, economica, sociale e culturale, che vedeva come protagonisti gli ebrei in quanto supposti promotori e diffusori dei mali della modernità rappresentati, agli occhi della Chiesa, dalla scristianizzazione, dall’anticlericalismo, dalla massoneria, dal socialismo. Sebbene lo schema cospirativo non fosse assente dall’antica accusa del sangue e dalle sue narrazioni5nelle sue nuove forme esso risaliva alla controrivoluzione soprattutto di area francese: cioè ad autori di primo rango come il filosofo Louis de Bonald, o minori ma di grande influenza come il gesuita Augustin Barruel6. I luoghi in cui le accuse di questa cospirazione fiorivano erano appunto quelli dello scontro con il nuovo Stato italiano e con la politica liberale (o quella socialista nascente), sia nazionale che locale, negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento; o quelli dell’affare Dreyfus in Francia e dei suoi consistenti echi italiani.

Più tardi, dopo un’apparente flessione della polemica a inizio Novecento, all’indomani della dichiarazione Balfour che prometteva un «focolare nazionale ebraico» in Terra Santa e della rivoluzione russa, lo scontro sarebbe ripreso, acceso da nuovi nemici (sionisti e ebrei bolscevichi) o, meglio, dai nemici di sempre sotto nuove spoglie. I documenti di questo scontro – e quindi del proliferare dell’antisemitismo cattolico – possono molto facilmente rinvenirsi nella stampa cattolica locale, nazionale o espressione ufficiale o ufficiosa della Santa Sede. Inoltre si può e si deve parlare propriamente di antisemitismo, cioè dell’odio antiebraico di tipo ‘razziale’, poiché accanto al tradizionale repertorio dell’antigiudaismo teologico (in particolare l’accusa di deicidio e quella del sangue), e nonostante numerosi distinguo, emergevano di frequente elementi non solo di antisemitismo socio-economico, ma espressamente razzisti, del tutto affini a quelli dei nuovi movimenti politici antisemiti che fiorirono a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento in Francia, Germania, Austria.

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Pio IX, il papa re

Nell’atteggiamento polemico della Chiesa dopo il 1870 ebrei e liberali si intrecciavano e spesso si identificavano in un’unica maledizione, oppure venivano rappresentati in articolati paralleli come quelli tra la crocefissione di Gesù e il ‘golgota’ di Pio IX dopo Porta Pia. Lo stesso pontefice nei suoi discorsi di questo periodo attaccava violentemente gli ebrei che, per esempio, nel 1871 egli paragonava a dei cani a partire da un passo evangelico (non meglio specificato) dicendo tra l’altro:

«E di questi cani ce n’ha pur troppi oggidì in Roma, e li sentiamo latrare per tutte le vie, e ci vanno molestando per tutti i luoghi»7.

Nella nuova capitale del Regno d’Italia fiorivano inoltre giornali reazionari, spesso a carattere popolaresco, in cui molto frequente era l’invettiva antiebraica che, servendosi di moduli tipici della polemica contro gli ebrei, era determinata dal nuovo scontro politico e associava perciò strettamente questi ultimi a quei liberali che avevano privato il papa del suo potere politico ne minacciavano ora costantemente l’autorità spirituale, insidiando, più in generale, la vita religiosa dei cattolici. Un grottesco ‘dizionario’ proposto da uno di questi giornali diceva alla voce «Ebreo»:

«Nei tempi barbari questa parola suonava Robivecchi, Mordivoi [esclamazione in giudeo-romanesco], oggi vale fratello e patriota. I crocifissori si danno la mano»; mentre alla voce «ebraismo» si diceva: «L’unica religione rispettata e protetta per quanto è largo e lungo lo stivale»8.

Assieme e per mezzo del liberalismo, l’ebraismo aveva quindi sopravanzato il cristianesimo: trionfavano i «crocifissori».

Negli anni Ottanta la cosiddetta questione ebraica assumeva una posizione di primo piano nelle pagine del periodico gesuita «La Civiltà cattolica» (dove già a metà del secolo aveva iniziato a diffondersi in forme letterarie nel romanzo di padre Bresciani, L’ebreo di Verona)9, in vere e proprie campagne condotte da padre Giuseppe Oreglia, per esempio con la serie di articoli Dell’ebraica persecuzione contro il Cristianesimo (1886-1887), proseguite nel decennio successivo da padre Raffaele Ballerini, in particolare con gli articoli del 1890 Della Questione Giudaica in Europa. Il primo presentava fin dal 1881 una visione demoniaca degli ebrei («Il diavolo e l’ebreo», scriveva Oreglia, «ebbero ambedue la stessa sublime elezione e la stessa vile depressione per la stessa colpa di essersela pigliata direttamente con Cristo»), considerava identici ebraismo e massoneria, reputava gli ebrei una «razza» che aspirava alla «padronanza generale del mondo»10. Padre Ballerini, invece, indicava anche proposte concrete, cioè «leggi di eccezione» per far fronte alla «questione giudaica»: la confisca di proprietà rurali, l’esclusione dalla scuola e dalle redazioni dei giornali e infine, come nei secoli passati, la privazione dei diritti civili11.

Un’ampia e approfondita analisi degli echi dell’affare Dreyfus nella stampa cattolica italiana alla fine del secolo XIX vi ha rinvenuto l’intreccio martellante e ripetitivo di accuse e stereotipi, antichi e nuovi:

«Dal tradimento di Giuda, al cosmopolitismo antinazionale di cui sarà simbolo Dreyfus; dal deicidio all’omicidio rituale, alla moderna empietà del liberalismo; dalla condanna alla dispersione divina, all’eterno vagare dell’ebreo errante […]; dalla pratica dell’usura, all’attaccamento al denaro trionfante nelle banche e nelle borse monopolizzate dagli ebrei; dall’ebreo del ghetto, testimone in negativo della verità di Cristo, all’ebreo emancipato, invadente e infiltrato nella società cristiana […]; dalla cecità, all’ostinazione e alla protervia, qualità specifiche del “carattere” ebraico»12.

Negli anni decisivi dell’affaire, «L’Osservatore romano» è in prima fila nel denuciare la ‘congiura ebraica. La sua violenta polemica antiebraica è di nuovo occasione per invocare il ritorno degli ebrei allo stato precedente l’emancipazione civile e politica in Francia, ma evidentemente anche in Italia:

«Usciti dai ghetti, gli ebrei sono entrati dovunque […]. Bisogna rinchiuderli nei Ghetti, perché restino nelle loro sinagoghe e non penetrino nelle nostre chiese e nelle nostre istituzioni»13.

La difesa non solo delle antiche restrizioni, ma anche della moderna ostilità e delle sue nuove manifestazioni politiche, di cui si auspicava un crescendo, era del resto diffusa nella stampa cattolica, per esempio ne «L’Osservatore cattolico» di don Davide Albertario, dove si spiegava:

«Se l’antisemitismo dovesse avere come effetto di ottenere una legislazione severa ed equanime che impedisca all’ebreo vampiro di pesare come un macigno sullo stomaco del popolo, cesserebbe la guerra all’ebreo».

E si ricordava infatti: «L’ebreo, ha il Dio dell’oro e ai suoi piedi vede inginocchiati i governi liberali»14. Erano temi e toni che si ritrovavano, in un gioco di citazioni e rimandi e quasi di emulazione, in tutte le testate cattoliche intransigenti: «La Voce della verità» (Roma), l’«Unità cattolica» (Torino), l’«Avvenire» (Bologna), le venete «La Difesa» e «La Libertà cattolica», la friulana «Il Cittadino italiano», «L’Eco di Bergamo» e alcune altre che garantivano una notevole diffusione a queste posizioni e concezioni15Complessivamente circa quaranta giornali e periodici cattolici italiani parteciparono nel periodo 1870-1915 a quello che è parso quasi un «movimento antisemita»16.

La Chiesa non si rispecchiava in questo periodo solo nelle vicende francesi, dando nuovo alimento alla tradizione antigiudaica e sposando ora posizioni antisemite, ma seguiva per esempio i progressi in Austria dei cristiano-sociali, movimento di punta dell’antisemitismo politico di matrice cattolica, o diffondeva le notizie dei processi in Europa orientale per omicidio rituale17. A proposito di quest’ultimo, l’accusa del sangue venne riesumata da padre Oreglia ne «La Civiltà cattolica» nel 1881 e ripetutamente ripresa dalla rivista, cui spesso avrebbe fatto eco «L’Osservatore romano» seguendo le notizie dei processi18. Ancora nel 1900 la Segreteria di Stato del cardinale Rampolla, dietro a una precisa richiesta di smentire l’accusa da parte di personalità del cattolicesimo inglese (essa era del resto già stata dichiarata infondata da diversi pontefici sin dal Medioevo), affermò non potersi pronunciare, mentre un documento interno che accompagnava la decisione del Sant’Uffizio interpellato in proposito, diceva:

«Pure è storicamente certo l’assassinio rituale […]. Il detto assassinio è stato inoltre constatato e punito molte volte dai tribunali laici di Austria, e ultimamente è stato portato in giudizio e chiarito un altro caso […] come scrive il nunzio di Vienna»19.

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Karl Lueger (1844 – 1910)

Nello stesso documento si richiamava anzi la posizione di Benedetto XIV, durante il cui pontificato era stato «canonizzato» l’omicidio rituale «con mettere sugli altari un bambino da essi [ebrei] ucciso in odio alla fede»20. Quanto ai cristiano-sociali austriaci, ai vertici della Chiesa emergevano una varietà di posizioni sui pericoli rappresentati da certe componenti socialistoidi del loro programma, ma anche rispetto agli eccessi del loro antisemitismo razzista. Ciononostante ad un alto prelato il partito austriaco pareva aver avuto «effetti sommamente vantaggiosi per la causa della religione», tra i quali l’aver sottratto molti seggi in Parlamento «che prima appartenevano al liberalismo giudaizzante»21. Papa Leone XIII aveva inoltre rivolto una lettera al leader del partito, Karl Lueger, esprimendogli la sua benedizione; mentre la stampa cattolica italiana – grazie anche ai rapporti dei cristiano-sociali con ambienti dell’intransigentismo, specie veneto – si nutriva di motivi e slogan del movimento austriaco22. Alla morte di Lueger nel 1910, «La Civiltà cattolica» lo avrebbe salutato scrivendo tra l’altro:

«Il suo nome resterà glorioso per aver liberato Vienna dalla schiavitù economica e politica degli ebrei»23.

Alla fine del secolo XIX, Leone XIII aveva nel frattempo rifiutato, in un’intervista a «Le Figaro», ogni «guerra di religione» e ogni «guerra di razze» e ricordato la protezione offerta dalla Chiesa agli ebrei, ma aveva allo stesso tempo sostenuto la necessità di «difendere» i propri figli dagli «empi»: dal presente «regno del danaro» con cui si voleva opprimere la Chiesa ed il popolo. In trasparenza, nonostante le condanne, emergeva lo spettro della minaccia rappresentata dall’empio capitalismo ebraico: storicamente il tema della «difesa» era e resterà tipico della giustificazione dell’antisemitismo cattolico24.

 

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