Posts tagged ‘Bourdieu’

2 Aprile, 2013

Eleonora de Conciliis, Destino e denaro

by gabriella

criminalita-organizzata

Da Kainós, una sociologia della criminalità organizzata di rara finezza volta ad indagare le trasformazioni delle forme di vita criminale nel tardo capitalismo.

1. Le riflessioni che seguono non vogliono essere squisitamente filosofiche, né vagamente sociologiche, e neppure provocatoriamente politiche, ma, in senso foucaultiano, genealogiche. È stato infatti Michel Foucault ad aver fornito, in Sorvegliare e punire (1975), la più acuta ricerca genealogica sull’origine della prigione moderna, ed è nella sua produzione degli anni settanta che possiamo trovare ancor oggi spunti fecondi per analizzare le forme di vita criminali, le ‘vite degli uomini infami’ che proliferano nell’epoca contemporanea1. Tuttavia, per ragioni non solo espositive2, mi servirò inizialmente di una nozione proveniente dalla sociologia di Pierre Bourdieu, applicandola con una certa disinvoltura metodologica al mondo della criminalità organizzata: la nozione di campo.3

Tra le numerose definizioni che Bourdieu ci ha lasciato del concetto di campo, ne ho scelta volutamente una coniata per il campo politico, in quanto risulta assai compatibile sia con l’analisi foucaultiana del nesso sistematico legalità-crimine (capace dunque di indicare l’intimo intreccio tra economia politica e mafia), sia con il funzionamento delle strutture ‘chiuse’ del potere pastorale, siano esse religiose, militari, politiche o para-politiche (ordini, sette, brigate e reparti di un esercito, partiti e ‘famiglie’ mafiose). Secondo il sociologo francese, il campo è infatti un

“microcosmo, ossia un piccolo mondo sociale relativamente autonomo nel mondo sociale più grande. […] Autonomo, secondo l’etimologia, vuol dire che ha una sua propria legge, un suo proprio nomos, che detiene al suo interno il principio e la regola del suo funzionamento. È un universo nel quale sono all’opera criteri di valutazione a lui propri e che non hanno valore nei microcosmi vicini. Un universo obbediente alle proprie leggi, che differiscono da quelle del mondo sociale ordinario. Chi [vi] entra deve operare una trasformazione, una conversione e, anche se quest’ultima non gli appare come tale, anche se egli non ne ha coscienza, gli è tacitamente imposta, in quanto un’eventuale trasgressione comporterebbe scandalo o esclusione”.4

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13 Marzo, 2013

Eleonora de Conciliis, Walter Benjamin. Capitalismo e religione

by gabriella

angelo benjaminianoTraggo dal portale di Kainos questo articolo sul frammento benjaminiano del “capitalismo divino” contenuto nell’edizione italiana delle Tesi sul concetto di storia (Einaudi, 1997, pp. 284-287).

Il bisogno e il lavoro, sollevati a[ll’]universalità,
formano… un immenso sistema di… dipendenza reciproca;
una vita del morto moventesi in sé.

Hegel, Filosofia dello Spirito jenese

Premessa

Da qualche anno in Italia gli studiosi hanno riscoperto, o meglio si sono accorti dell’esistenza di un frammento che Walter Benjamin scrisse con ogni probabilità nel 1921, e che è apparso in traduzione italiana nel 1997, insieme ai materiali preparatori per le celebri Tesi sul concetto di storia del 19401. Un po’ come è accaduto a queste ultime a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, una volta ripubblicato da Editori Riuniti in una nuova raccolta e con una nuova traduzione2, il frammento, cui si è deciso di dare il titolo Capitalismo come religione, è stato per così dire sur-interpretato, divenendo anche per i non specialisti del filosofo una sorta di vademecum teorico, se non profetico, attraverso cui ripensare l’attuale assetto dell’economia politica occidentale.

Si tratta di uno scritto scarno e talora criptico, poco più di un appunto esteso con le indicazioni dei testi di riferimento, com’era nello stile di Benjamin, e che sembra tuttavia prestarsi a un facile lavoro di decodifica concettuale, poiché rinvia, da un lato, a due pietre miliari del pensiero politico e sociologico moderno (Marx e Weber), dall’altro a due critici radicali della metafisica (Nietzsche e Freud), con la quale Benjamin, negli anni dieci e venti, intratteneva ancora rapporti assai stretti.

Il détournement di queste pagine dal loro specifico contesto teorico – cioè la loro estrapolazione rispetto al tentativo, compiuto da un giovane Benjamin ancora influenzato da Bloch e lettore di Schmitt (la Teologia politica è del ’22), di analizzare in termini originalmente politico-religiosi l’eclissi dell’escatologia giudaico-cristiana e la sua moderna metamorfosi nichilistica3 – ha portato gli interpreti a valorizzare quella che sembra essere la principale e geniale intuizione contenuta nel frammento e lanciata ai posteri con straordinario anticipo sui tempi, ovvero la descrizione del capitalismo come religione di puro culto, dunque senza contenuti trascendenti e senza dogmi, capace di parassitare il cristianesimo e di prenderne il posto, non attraverso una deriva (la secolarizzazione weberiana), bensì grazie a un’inquietante metamorfosi, come sintetizza efficacemente lo stesso Benjamin:

Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo.4

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22 Agosto, 2012

Pierre Bourdieu, La fabbrica dei dibattiti pubblici

by gabriella

Nel gennaio di quest’anno sono stati pubblicati in Francia due corsi inediti sulla formazione dei dibattiti pubblici e del «discorso dominante», tenuti da Pierre Bourdieu al Collège de France. Di seguito la traduzione dell’articolo dedicato al testo da Le Monde Diplomatique.

La fabbrica dei dibattiti pubblici

Da un lato, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altro, un dibattito pubblico mutilato, ridotto all’alternativa tra austerità di destra e rigore di sinitra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per mezzo di quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? E’ ciò che spiega Pierre Bourdieu in questo corso sullo stato, tenuto al Collège de France nel 1990 e pubblicato questo mese (gennaio 2012, NDR.)

Un uomo pubblico è un ventriloquo che parla a nome dello stato: prende una postura ufficiale – bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’ufficialità -, parla in nome e per conto del gruppo sociale a cui si rivolge, parla per e al posto di tutti, e parla come rappresentante dell’universale.

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5 Marzo, 2012

Pierre Bourdieu, Come si fabbrica l’opinione pubblica

by gabriella

Da un lato, una situazione economica e sociale inedita. Dall’altro, un dibattito pubblico mutilato, ridotto all’alternativa tra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si definisce lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? È ciò che spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo corso sullo Stato tenuto nel 1990 al Collège de France e pubblicato questo mese.

Da Le Monde Diplomatique

Un «uomo ufficiale» è un ventriloquo che parla in nome dello Stato: assume un portamento ufficiale – bisognerebbe descrivere la messinscena del personaggio ufficiale –, parla a favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla in quanto rappresentante dell’universale. E a questo punto si arriva alla moderna nozione di opinione pubblica. Cos’è questa opinione pubblica invocata dai creatori di diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di quelli che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione esplicita in una società che si pretende democratica, e cioè che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, e cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione.

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11 Febbraio, 2012

Pierre Bourdieu, Intervista sulla violenza simbolica

by gabriella

Parigi, Maggio 1994

La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare “dolce” e quasi invisibile. E’ una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni [umane]. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un’azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. E’ una visione non falsa, ma che maschera [l’aspetto di violenza]. [La relazione pedagogica, per quanto possa] essere attenta alle attese del ricevente, implica un’imposizione arbitraria di un arbitrio culturale. Basti paragonare, per esempio – come si sta incominciando a fare oggi- gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede allora che il Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi [nazionali] di insegnamento impone [ai discenti] è estremamente diverso; e una parte dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all’epoca della loro prima iniziazione, ad una certa arbitrarietà culturale. E’ a questo proposito che ho elaborato la nozione di “violenza simbolica”, la quale mi è apparsa importante…

D. A proposito della filosofia, può darci degli esempi di diversità da paese a paese? Evidentemente, il fatto che ogni paese abbia i suoi filosofi preferiti – come i suoi scrittori o musicisti preferiti – mi pare alquanto normale e banale. In che senso le particolarità culturali nazionali si traducono in una violenza sugli allievi?

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