Posts tagged ‘Kant’

28 Aprile, 2013

Gilles Deleuze, I concetti di genealogia e di senso

by gabriella

Gilles Deleuze ritratto da Michel Tournier negli anni '50

Traggo da uno dei testi fondativi della Nietzsche renaissance e prima grande opera di Gilles Deleuze – Nietzsche et la philosophie (1962), trad. it. Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002 – i due paragrafi iniziali dedicati ai concetti di genealogia e di senso [l’evidenziazione in grassetto è mia, quella in corsivo di Deleuze].

 

1. Il concetto di genealogia

Nel suo significato più ampio, il progetto di Nietzsche consiste nell’introduzione dei concetti di senso e di valore in filosofia. Non v’è dubbio che gran parte della filosofia contemporanea è vissuta e vive tutt’ora di Nietzsche; forse però non nel modo in cui egli avrebbe desiderato.

Nietzsche nonNietzsche nel 1875 all'epoca delle Considerazioni Inattuali ha mai tenuto nascosto il fatto che la filosofia del senso e dei valori dovesse essere una critica. Così Kant non ha condotto la vera critica perché non ha saputo porne il problema in termini di valori; e ciò costituisce uno dei spunti principali da cui muove l’opera nietzscheana.

Ora, nella filosofia contemporanea la teoria dei valori ha dato vita ad un nuovo conformismo e a nuove forme di sottomissione. La stessa fenomenologia ha contribuito, mediante il suo apparato, a far sì che quell’ispirazione nietzscheana in essa spesso presente, si assoggettasse al moderno conformismo. Nel caso di Nietzsche dobbiamo prendere le mosse dal fatto che la filosofia dei valori, com’è da lui istituita e intesa, è la vera realizzazione della critica, il solo modo di realizzare al critica totale, ossia di fare filosofia a “colpi di martello”. La nozione di valore implica infatti un sovvertimento critico. Da una parte i valori sembrano o si fanno passare per principi: una valutazione presuppone determinati valori sulla cui base stimare i fenomeni. D’altra parte, però, se si va più a fondo, sono i valori a presupporre valutazioni, “punti di vista di apprezzamento” da cui proviene il loro stesso valore. Il problema critico sta nel valore dei valori, nella valutazione dalla quale deriva il loro valore; è il problema della loro creazione.

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20 Marzo, 2013

Quentin Meillassoux, Dopo la finitezza. Saggio sulla necessità della contingenza

by gabriella

Meillassoux

Traggo da The Pensive Image, la traduzione italiana dell’appassionante seminario che Quentin Meillassoux (Sorbonne) ha tenuto alla Middlesex University l’8 maggio 2008 su Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, il saggio che lo ha imposto all’attenzione del dibattito filosofico mondiale. Di seguito, la playlist di una sua conferenza sulla critica della necessità delle leggi di natura e l’intervista di Rick Dolphijn e Iris Van der Tuin pubblicata dal Rasoio di Occam.

La réalité qui le préoccupe n’implique pas tant les choses telles qu’elles sont, que la possibilité qu’elles puissent toujours être autrement.

Alain Badiou, Prefazione a Après la finitesse

Sono materialista perché non credo nella realtà.

Michel Foucault

Nella sua critica del correlazionismo, Quentin Meillassoux individua due principi costituenti l’argomento centrale della filosofia di Kant: il primo è il principio di correlazione, il quale pretenderebbe che il soggetto pensante possa conoscere solo il correlato di pensiero ed essere, in altre parole, ciò che sta al di fuori della correlazione è inconoscibile. Il secondo è chiamato da Meillasoux il principio di fattualità, che sostiene che le cose potrebbero essere diverse da come sono. Tale principio è sostenuto da Kant nella sua difesa della cosa-in-sé quale immaginabile sebbene inconoscibile: possiamo immaginare la realtà in modo radicalmente differente anche se non conosciamo tale realtà.

Secondo Meillassoux, la difesa di entrambi i principi dà come risultato un correlazionismo debole (come quello di Kant e Husserl), mentre il rifiuto della cosa-in-sé porta ad un correlazionismo forte come quello di Hegel, Wittgenstein e Heidegger. Per i correlazionisti forti non ha senso supporre che ci sia qualcosa fuori dal correlato di pensiero ed essere, così il principio di fattualità viene eliminato in favore di un principio di correlazione rafforzato.

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8 Febbraio, 2013

Antonio Gargano, La filosofia hegeliana del diritto

by gabriella

Hegel

Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi posseggano filosofia […]. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta cultura che si sappia non solo che Dio è reale, ­– che è la cosa più reale e che è la cosa veramente reale, – ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: – l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione […].

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § VI

Nelle poche pagine della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto si trova un concentrato del pensiero di Hegel. «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», «la filosofia è come la nottola di Minerva», «la filosofia è come il cogliere la rosa nella croce», «è lo scandaglio del razionale», «è il proprio tempo appreso con il pensiero»: tutte queste celebri e lapidarie definizioni si trovano nella Prefazione alla Filosofia del diritto. Già questo è indizio del fatto che siamo di fronte a un’opera decisiva del filosofo di Stoccarda.

Hegel è un pensatore molto sistematico, e per questo è opportuno collocare all’interno del sistema la filosofia del diritto, che rientra nella trattazione dello spirito oggettivo.

Riprendiamo il quadro generale, che, in due parole, è il seguente. Hegel è il massimo esponente della filosofia idealistica, che affronta il compito di superare il dualismo kantiano. Kant aveva a sua volta superato le difficoltà del razionalismo e dell’empirismo, ma aveva aperto un nuovo piano di difficoltà, aveva cioè scisso il mondo del fenomeno dal mondo della cosa in sé, sviluppando un pensiero di tipo dualistico. Dalla scissione, dalla spaccatura tra fenomeno e cosa in sé conseguiva tutta un’altra serie di dualismi: tra il soggetto e l’oggetto, tra gli intenti morali del soggetto e la loro possibilità di realizzazione, ecc. Il dualismo iniziale tra io e mondo, tra fenomeno e cosa in sé, la barriera tra il soggetto e l’oggetto si ripercuotono in tutto il pensiero kantiano. Si tratta di un limite del pensiero kantiano, perché, se è vero che è complicato spiegare la realtà e ricondurla a un principio, è ovvio che si duplicano i problemi se invece di un principio se ne pongono due, come fa Kant. L’idealismo costituisce il tentativo di ricucire questa spaccatura, di arrivare a una visione fortemente unitaria, fortemente monistica, e quindi più logica, più rigorosa della realtà. Il percorso dal dualismo kantiano a una filosofia rigorosamente monistica culmina in Hegel, dopo gli sviluppi precedenti di Fichte e Schelling.

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15 Novembre, 2012

Garrath Williams, Nietzsche’s Response to Kant’s Morality

by gabriella

Alcune riviste online stanno celebrando la giornata mondiale della filosofia aprendo i loro archivi e rendendo disponibile per la giornata di oggi, una selezione di articoli e saggi che coprono tutti gli ambiti della ricerca filosofica.  Quella che segue è una lettura guidata alla dissoluzione dell’etica kantiana che, secondo il prof. Williams della University of Central Lancashire, Nietzsche avrebbe operato a partire dagli assunti stessi del criticismo.

Williams dimostra senza fatica l’interesse di Nietzsche per l’etica kantiana – della quale il filosofo di Röcken illumina, secondo lo studioso, gli aspetti meno seducenti e convincenti a partire dalle stesse premesse di libertà, autonomia e ragione – e ricostruisce il terreno comune delle due etiche indicato nella compassione (si ricordi l’episodio scatenante della crisi di Nietzsche a Torino) e nella comune soddisfazione per la vittoria dell’illuminismo sull’assolutismo – con l’obiettivo di ricondurre Nietzsche a Kant, usando le ragioni del primo (autonomia vs legge morale) per traghettare l’etica moderna (autonomia come fondamento della morale) nel campo minato della postmodernità. Lo studioso riconosce la carente elaborazione psicologica dell’apriori kantiano che manca la comprensione della natura estrinseca della legge morale, ma afferma che se lo spazio tra autonomia e legge è minimo in Kant, al contrario, è eccessivo in Nietzsche, nel quale va definitivamente smarrita la possibilità di sottomettere a ragione l’azione umana. Il riconoscimento nietzscheano dell’inumanità dell’uomo potrebbe così non rappresentare la pietra tombale del progetto trascendentale, ma portarlo oltre l’impensato kantiano. Purtroppo, Williams non dice (o non colgo) come potrebbe.

For what is freedom? That one has the will to self-responsibility [ …] How is freedom measured . . . ? By the resistance which has to be overcome, by the effort it costs to stay aloft.

F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli

[….] there are even cases in which morality has been able to turn the critical will against itself, so that, like the scorpion,
it drives its sting into its own body.

In this essay I would like to discuss some continuities and differences between two thinkers, Kant and Nietzsche, whom I take to be among the very greatest of modern moral philosophers. My basic line of argument will be as follows: despite his apparent neglect and occasional dismissals, Nietzsche’s thought reveals a fine appreciation of Kant’s philosophy, and can itself be read as one of the most profound responses to Kant’s ethics that the tradition has so far accorded us. While the differences that I shall mention are easily seen and often taken “as read,” I think the continuities have been too little appreciated, and that very often Kant and Nietzsche are treading the same ground. What I leave open, however, is how far Nietzsche himself should be thought more than an agent provocateur in these matters: he can show us, I think, that certain, fairly systematic aspects of Kant’s morality are unattractive or unconvincing—and this even on rather Kantian premises.

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27 Ottobre, 2012

Antonio Gargano, Fichte

by gabriella
Johan Gottlieb Fichte (1762-1814)

Johan Gottlieb Fichte (1762-1814)

La prima lezione di Antonio Gargano sulla nascita dell’idealismo tedesco e la filosofia da Kant ad Hegel: Fichte.

Kant compie una svolta radicale rispetto al pensiero precedente con la sua famosa “rivoluzione copernicana”. Con Fichte ci troviamo di fronte ad una svolta ancora più radicale. Il pensiero, come la storia, procede in certi  periodi con ritmi molto lenti, ma giungono poi epoche intensissime, in cui in venti-trent’anni si produce di più che in molti secoli precedenti. Una di queste età è quella della Rivoluzione francese, la cui enorme creatività intellettuale si spiega con il fermento del passaggio da un’epoca all’altra. Gli intellettuali, gli uomini di cultura della borghesia europea guardano all’evento della Rivoluzione francese come appunto ad un evento epocale, che porta un’enorme possibilità di liberazione dell’uomo. In quel momento, in cui la storia si innalza su un’onda che permette di vedere approdi più lontani, i grandi filosofi, soprattutto tedeschi, da Kant ad Hegel, riescono a scorgere possibilità decisive di liberazione e di progresso dell’umanità. Assistiamo, già a partire da Fichte, a quel fenomeno grandioso che è la nascita nella cultura romantica tedesca, che, già accennata da Kant, e in un crescendo fino ad Hegel, manifesterà una produttività intellettuale eccezionale.[…]

Kant aveva sostenuto che tutta la filosofia precedente a lui era viziata dal dogmatismo. Il dogma, la credenza non dimostrata, in cui la filosofia prekantiana sarebbe caduta, era quello della presupposizione dell’esistenza di un ordine, di leggi, all’interno della natura. Kant invece sostiene che l’io è il legislatore della natura. Con Fichte abbiamo una definizione di dogmatismo ancora più radicale, che fa ricadere nel dogmatismo lo stesso Kant. Fichte cioè sostiene che tutta la filosofia precedente, Kant compreso, è dogmatica, in quanto ha creduto nel dogma dell’esistenza di una cosa in sé, di un mondo, di una realtà di per sé stante, indipendente dal soggetto umano. Tutta la filosofia precedente a Fichte, tutta la filosofia precedente alla fondazione dell’idealismo, ha pensato che venisse prima il mondo, prima la realtà materiale, prima l’oggetto e poi il soggetto. Invece le cose stanno esattamente all’opposto, come Fichte pensa di poter dimostrare. Proprio per questo Fichte è un filosofo difficile da capire, in quanto si pone un problema decisivo, quello della fondazione ultima della realtà e del sapere, un problema che tra l’altro ai giorni nostri è assolutamente fuori moda, in quanto viviamo in un periodo di relativismo, di soggettivismo. Fichte invece, sull’onda di grandi eventi storici che danno fiducia nelle possibilità dell’uomo, è  convinto che si possa arrivare a una fondazione ultima del sapere e della realtà. In questo senso la filosofia è per lui dottrina della scienza.

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22 Giugno, 2012

Mario Perniola, Il senso, la fine, l’infimo inizio

by gabriella

L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata.

Confucio

Un rapporto complesso e problematico lega l’idea della fine a quella del senso. Forse nessuno meglio di Kant ha colto nello scritto La fine di tutte le cose (1794) tale rapporto. In particolare, colpisce l’idea che non si possa cogliere il senso di checchessia se non pensando alla sua fine: il momento diacronico e storico risulterebbe inseparabile da quello estetico e teleologico. In un’altra opera Kant scrive:

Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo  mai alla fine, sia eternamente la stessa.

Questa connessione tra il senso e la fine circola ampiamente nella filosofia tra Ottocento e Novecento. Secondo Hegel, la filosofia è come la nottola, che spiega il suo volo al tramonto: esiste un’astuzia della ragione, che dissimula il vero significato degli eventi sotto motivazioni che nulla hanno che fare con questi. Per Dilthey, la vita non è qualcosa il cui significato possa essere colto immediatamente: l’essenziale, a suo avviso, non è la vita naturale ed empirica, ma l’Erlebnis, l’esperienza vissuta o meglio rivissuta. La forma più alta dell’intendere è il rivivere: solo attraverso di esso noi possiamo sottrarre il presente alla scomparsa e trasformarlo in una presenza sempre disponibile. Il compito svolto dal poeta e dallo storico è perciò di estrema importanza: solo essi infatti possono carpire alla caducità, all’oblio e alla morte il mondo umano conferendogli per sempre un senso.

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28 Maggio, 2011

Girolamo De Michele, Foster Wallace come antidoto al citatismo (l’analfabetismo degli adolescenti, la lingua dei giovani)

by gabriella

Foster Wallace, Considera l'aragostaIl genio di Foster Wallace come lacerazione del velo di Maja su una molteplicità di cose, come l’apprendimento degli adolescenti, l’uso dei dialetti, l’inutilità di certi critici, la libertà, l’alienazione..

La libertà è ciò che facciamo con ciò che ci è stato fatto

Jean Paul Sartre

Mentre sgranocchia biscotti Chips Ahoy! e fissa intensamente un evento dell’Associazione golf professionale alla televisione, ad esempio, l’adolescente che fuma viene colpito dalla spaventosa possibilità che, per es., quello che vede come il colore verde e quello che altre persone chiamano “il colore verde” forse in realtà non sono affatto le stesse esperienze di colore: che tanto lui quanto un’altra persona chiamino verde i prati dei campi da golf e il segnale di via libera di un semaforo sembra garantire solo che c’è una costanza analoga nella loro esperienza del colore dei campi da golf e luci del via libera, ma non che l’autentica qualità soggettiva di quelle esperienze di colore sia la medesima; […] finché l’intero ragionamento diventa così complesso e sfiancante che l’a.f.d.e. finisce per accasciarsi, ricoperto di briciole e paralizzato, sulla poltrona [1].

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