Telmo Pievani, Vito Mancuso, Del caos e dell’ordine nella natura

by gabriella
Telmo Pievani

Telmo Pievani

Vito Mancuso

Vito Mancuso

Il dibattito in filosofia della scienza tra la posizione finalista di Mancuso – per il quale l’evoluzione è frutto di un disegno intelligente, che produce ordine in un percorso dal più semplice al più complesso – e quella antifinalista, materialistica e atea dell’approccio evoluzionista di Pievani.

E’ stato il filosofo della scienza a lanciare «il sasso nello stagno» con un provocatorio articolo uscito sul numero 1/2014 di Micromega [pp. 3-29] al quale il teologo ha opposto una lunga replica pubblicata sul suo sito, elegantemente ripresa da Micromega.

Precisazione: nella parte dell’articolo non riportata, Pievani si riferisce a livello 1 per “evidenze scientifiche comprovate”; livello 2 per “interpretazioni generali, scientificamente fondate ma ancora dibattute“; livello 3: “ricezione divulgativa della notizia scientifica”; livello 4: “quarto livello della ricezione: festival della fantasia dilettantesca, parole in libertà”; livello 5: “sogno ad occhi aperti, del fantasy filosofico, cioè dei travisamenti intenzionali e truffaldini di chi specula sulle notizie scientifiche per assecondare un proprio convincimento ideologico”.

 

Telmo Pievani, Con buona pace dei teologi (eretici e non)

 principio passione[…] [p. 17] Rispetto alle più edificanti opere precedenti (2007; 2009), in II principio passione (2013) Mancuso si mostra più disponibile ad accettare la realtà di fatto inoppugnabile della contingenza evolutiva. Mutazioni deleterie e imprevedibili, catastrofi su larga scala, derive, accidenti ecologici, perturbazioni non lineari: tutto ciò rappresenta il lato tragico e assurdo della natura.

Ma non per questo è privo di senso: deve pur sempre esserci un senso, e una risposta per tutto! Essendo l’universo una creazione continua, libera e inconclusa, mediata dalla natura – spiega Mancuso – le forze del bene (quelle che aggregano, mettono in relazione, aumentano la complessità e l’armonia della natura) si scontrano con quelle antinomiche del male, del disordine e della disgregazione (il lato oscuro della forza).

E una gran fatica questa lotta manichea, ma la meta è così luminosa che ne vale la pena. Pur in modo tortuoso e non lineare, pur fra mille sofferenze ancora, la giustizia alla fine trionferà. Ora, è chiaro che in questo modo esisterà sempre una teoria filosofica e teologica per giustificare qualsiasi evidenza scientifica e il suo contrario. L’importante è dare a intendere al lettore che i buoni vinceranno, che i mostri saranno sconfitti e la Morte Nera esploderà, che alla fine Luke Skywolker riporterà l’equilibrio nella forza, che il padre Anakin si pentirà in extremis di essere passato al lato oscuro e la sua anima sarà salva. É un lenitivo formidabile.

La contingenza evolutiva è però un concetto riottoso, un po’ ribelle. Mancuso se ne accorge e si chiude nell’angolo postulando una distinzione impossibile. La contingenza, sostiene, influenzerebbe solo gli esiti concreti del processo: Homo sapiens, come specie biologica in sé, avrebbe potuto non esistere. Non è, in quanto Homo, il fine della creazione continua. Le vie singolari attraverso le quali si realizza il Grande Piano sono indirette, contorte, imperscrutabili.

Ma la meta [p. 18] generale, quella sì, è scritta dall’inizio, è già decisa, ed è la «sapienzialità» o «sapiens-sapientia» (p. 159). Da qui l’esperimento mentale del controfattuale: se l’asteroide non avesse estinto tutti i dinosauri non aviani, i mammiferi non si sarebbero diversificati, l’età dei grandi rettili sarebbe proseguita e non esisterebbe Homo sapiens. Tuttavia – ipotizza Mancuso – oggi esisterebbe comunque un Saurus sapiens, perché l’intelligenza, quella sì, fa parte della grande meta.

Ebbene, l’argomento non sussiste: se è contingente (e non necessario) Homo sapiens, lo sarà anche Saurus sapiens, Drosophila sapiens e così via all’infinito per ogni x sapiens, e dunque sarà contingente anche la sapiens-sapientia. Non vi è alcuna ragione scientifica o filosofica per porre un’eccezione teleologica alla contingenza.

Causa finale e contingenza sono radicalmente incompatibili. Se c’è una grande causa finale, l’esito della storia (raggiunto in modo lineare o non lineare, non importa) era già scritto fin dall’inizio. Era necessario, voluto, progettato. Se c’è la contingenza, quell’esito è uno degli innumerevoli possibili, non necessario e tanto meno predestinato. Nulla di ciò che sappiamo sull’evoluzione suggerisce che la coscienza fosse un’evenienza inevitabile nel corso degli eventi naturali.

Ciò che sappiamo sull’evoluzione (primo livello di cui sopra) suggerisce proprio il contrario. Ora, la scienza non è fatta per distruggere la visione del mondo di chicchessia, ma non può nemmeno essere interpretata a piacimento: a volte semplicemente smentisce, o se non altro rende poco plausibile e poco parsimonioso insistere con una certa tesi. E già successo molte altre volte nella storia del pensiero e non è successo niente di drammatico, si va avanti.

Una sola specie dotata di intelligenza simbolica su centinaia di milioni di specie vissute negli ultimi tre miliardi di anni non è certo una statistica incoraggiante. Se poi scopriamo che quella unica specie ce l’ha fatta grazie a una sequenza rocambolesca di biforcazioni contingenti, non è ancora sufficiente per convincersi che non eravamo affatto predestinati? E che quindi abbiamo avuto una preziosa occasione?

Visto che la filosofia dovrebbe basarsi su ciò che sappiamo (è amore sì, ma amore per la conoscenza), se ne traggano le conseguenze. E invece no. Per sostenere la cosmo-visione bio-teologica è necessario che il presunto principio finalistico insito nell’evoluzione sia sorretto da evidenze «scientifiche», almeno indirette e dibattute, e considerato il frutto di un esame razionale della natura. La strada infatti non è quella di considerarlo un atto di fede, che liberamente contraddice il dato scientifico o lo ignora. Se tutto è immanenza e trascendenza al contempo, c’è bisogno di una stampella scientifica, di «indizi», di scienziati divisi, di citazioni estrapolate e pronte all’uso.

[p. 19] Le supposte evidenze indirette citate da alcuni anni a questa parte sono tutte riconducibili al confuso e scivoloso capitolo della cosiddetta «crescita della complessità». Nel corso dell’evoluzione – si dice – il numero e il tipo delle relazioni presenti nei sistemi viventi sono andati aumentando. Con essi è cresciuta anche la diversità delle forme. Nuove proprietà sono emerse. Nuove relazioni e nuovi livelli di organizzazione si sono aggiunti ai precedenti. Sono comparsi animali dotati di sistemi nervosi più elaborati, con più opzioni comportamentali possibili, più plastici e più «evolvibili». Si è sviluppata la socialità, negli imenotteri come nei primati. L’elenco delle mirabili acquisizioni dell’evoluzione sul pianeta Terra è lunghissimo. Ma come dobbiamo interpretare questi processi?

Charles Darwin

Charles Darwin

Sul piano scientifico (primo livello) si tratta di fenomeni reali, scientificamente osservati e modellizzati. Ma non sono tutta la storia, anche perché c’è il forte rischio di adottare criteri antropomorfici per riscrivere la «grande catena dell’essere» dall’ameba a Homo sapiens.

La loro interpretazione evoluzionistica generale si colloca invece nel secondo livello, quello dei dibattiti aperti. Ammesso che si sappia esattamente che cos’è la «complessità» in biologia, anche la semplicità ha i suoi vantaggi e a tutt’oggi essa domina incontrastata la bio-diversità. Aggiornando la celebre battuta di J.B.S. Haldane, se esiste un creatore, ha una smodata predilezione per i batteri. La crescita di complessità potrebbe essere soltanto un effetto collaterale dei vincoli a cui è sottoposta l’evoluzione.

Alcuni pensano ciò nonostante che vi sia un trend progressivo nell’evoluzione, altri ritengono al contrario che non vi siano criteri per definirlo. Darwin stesso oscillò fra le due posizioni, pur essendo molto scettico sull’idea di progresso: attribuirgli una visione di «incremento dell’informazione e della complessità» dal basso è fuorviante (Mancuso, in Flores d’Arcais, Mancuso, 2013, p. 32). La questione è materia di filosofia della biologia e compare talvolta sulle riviste scientifiche, ma non ha un particolare rilievo predittivo. Dai più è considerata troppo astratta.

Fin qui, il livello della controversia scientifica che lascia traccia nella letteratura specialistica (secondo livello di cui sopra). Poi ci sono la divulgazione, il dibattito pubblico, le libere estrapolazioni filosofiche e teologiche) degli scienziati stessi. Cercando bene, si troverà sempre un fisico o un chimico o un biologo in vena di sparate sulla «logica del tutto» e sulla «mente di Dio». Solo che da qui in poi le trappole filosofiche abbondano: se davvero ci fosse un trend osservabile nell’evoluzione, sarebbe per ciò stesso dimostrato che si tratta di una «legge universale» inscritta fin dall’inizio nel processo? Mettiamo che questa legge esista: possiamo dedurre che essa dimostri l’esistenza di [p. 20] una causa finale nell’evoluzione? E ancora, possiamo dedurre che essa faccia parte della mente di un dio? In che senso la progressiva organizzazione della vita e l’emergenza di nuovi piani di complessità dovrebbero essere una «creazione» in senso teologico?

 

La compagnia degli scienziati prediletti

A queste domande non può rispondere la scienza, nota Mancuso: è compito della filosofia, perché la scienza non può avere visioni di insieme. Ma è buona filosofia quella che associa al dato scientifico (la presunta complessità crescente) estrapolazioni inconsistenti (la fantomatica armonia relazionale) e affermazioni apodittiche (l’incremento dell’organizzazione è la finalità dell’evoluzione, deve essere così!) frutto di un ardente desiderio e non di una ricognizione dei fatti?

Se confondiamo il bisogno di qualcosa con la sua esistenza reale, c’è il rischio pressoché certo di una sovrapposizione di piani, alla quale si prestano anche alcuni scienziati, per le più diverse e rispettabili ragioni personali ed esistenziali. Così tutto fa brodo, dai guru della New Age alla parapsicologia e alla teoria della «risonanza morfica» del biologo Rupert Sheldrake, convinto sostenitore della comunicazione telepatica.

Simon Conway Morris

Simon Conway Morris

Secondo il paleontologo inglese Simon Conway Morris – un tempo assertore della contingenza nella storia della vita e ora convertitosi per ragioni personali a una bizzarra «teologia evoluzionistica» di stampo teistico le convergenze adattative nella storia della vita sarebbero così potenti che su qualsiasi pianeta si svilupperebbe prima o poi una forma di intelligenza cosciente: noi siamo inevitabili, noi siamo previsti!

Libero Conway Morris di pensarla in questo modo rassicurante, ma non sussiste alcun nesso né scientifico né logico (semmai una selva di contraddizioni) fra i suoi eccellenti studi tecnici sui fossili di Burgess Shale e questi voli pindarici. Citare Conway Morris in quanto scienziato, per queste idee, è un non seguitar, una fal¬lacia logica, uno sfondone.

fossili di Burgess

fossili di Burgess Shale

La brillante microbiologa Lynn Margulis, scomparsa nel 2011, scoprì quarantanni fa che organelli come i mitocondri erano un tempo organismi indipendenti, batteri poi «inglobati» per simbiosi nella struttura della cellula eucariotica.

La teoria endosimbiotica fu a lungo respinta come eretica, negli anni Ottanta venne confermata dai dati genetici e adesso compare in tutti i manuali (primo livello, dato acquisito). Margulis estese poi la sua teoria alla variazione genetica in generale, sottolineando l’importanza delle relazioni simbiotiche e del [p. 21] trasferimento genico orizzontale (secondo livello, temi di discussione aperti).

Questa donna meravigliosamente tenace e vulcanica trasse dalla sofferta vicenda delle sue idee lungamente avversate la convinzione che il neodarwinismo – secondo lei, tutto gradualismo e competizione – fosse diventato un’ortodossia troppo rigida, da smantellare e sostituire con un programma di ricerca più aperto ad altri fattori, come quelli associativi e simbiotici.

In suggestivi libri di divulgazione – alcuni dei quali scritti insieme al figlio Dorion Sagan – si spinse fino a una visione globale della natura, a una filosofia del vivente e dell’evoluzione (terzo e quarto livello) come sistema di rela-zioni simbiotiche, inclusa là Terra stessa come grande organismo. Non sussiste però alcun nesso né scientifico né logico (semmai qualche palese dissonanza) tra la teoria endosimbiotica del mitocondrio e le interpretazioni mistiche e animistiche dell’«ipotesi Gaia» di James Lovelock. Citare

L

Lynn Margulis

Lynn Margulis in quanto scienziata, per questa sua filosofia della vita, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone.

Il biologo teorico Stuart Kauffman studiava negli anni Novanta al Santa Fe Institute i processi di generazione di ordine a partire da condizioni instabili «ai margini del caos», ritenendo che questi processi reticolari e non lineari fossero alla base di molti fenomeni biologici.

Oggi sappiamo che i princìpi di auto-organizzazione interna sono importanti e hanno prodotto modelli promettenti, anche al di là della biologia (primo livello). Kauffman ha sempre sostenuto – soprattutto nella sua ultima opera di speculazione evoluzionistica (2000) – che le proprietà emergenti per auto-organizzazione non sono sostitutive, ma integrative, rispetto alla selezione naturale e ai normali meccanismi neodarwiniani: interagiscono con essi e con le contingenze della storia (secondo livello). Interpretare quindi Kauffman come campione dell’antidarwinismo è del tutto errato.

Anche Kauffman ha una sua visione filosofica della faccenda (livello terzo e quarto): pensa che noi «siamo a casa nell’universo» perché facciamo tutti parte di una stessa logica di complessità incrementale, inscritta nelle leggi fondamentali della natura. In questo sentimento di appartenenza olistica lui intravede una possibile declinazione naturalistica ma anti-riduzionista persino delle categorie del sacro e del divino, letti come l’imprevedibile creatività della biosfera e dell’universo (Kauffman, 2008).

Stuart

Stuart Kauffman

Non sussiste però alcun nesso né scientifico né logico tra i modelli computerizzati di criticità autorganizzata e la sua personalissima e zoppicante concezione (a suo dire spinoziana) della vita. Citare Stuart Kauffman in quanto scienziato, per questa sua filosofia della complessità, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone. [p. 22] E invece troviamo ben due volte citata da Mancuso questa frase di Kauffman:

«La mente immateriale – non reale oggettivamente – ha conseguenze sul mondo fisico reale» (Kauffman 2008, ed. it. cit. 2010, p. 205).

Vuoi vedere che Kauffman è transitato dalla complessità alla trascendenza senza avvertirci? Allora uno va a prendersi il libro e controlla. E scopre che Kauffman, nel capitolo 13 dal titolo «Il cervello è quantistico?», sta parlando invece di questa sua ipotesi:

«che la coscienza sia associata a uno stato a cavallo tra comportamento quantistico “coerente” e la cosiddetta “decoerenza” delle possibilità quantistiche in eventi reali “classici”» [ibidem).

E subito dopo appare la frase estrapolata da Mancuso, in cui manca il finale, dove Kauffman mostra che per «mondo fisico reale» intende quello «classico», cioè al di sopra di quello subatomico e quantistico. Quindi il tema (tecnico) discusso da Kauffman è il rapporto fra livello quantistico della realtà (a suo avviso alla base del funzionamento della mente cosciente) e livello «reale», nel senso di percepito nel nostro mondo macroscopico quotidiano.

L’uso dell’aggettivo «immateriale» per indicare la sua «mente quantistica» è alquanto discutibile e infatti subito dopo Kauffman precisa che «l’ipotesi è piuttosto controversa, la cosa scientificamente più improbabile di cui parlo qui nel libro» [ibidem). La terminologia è confusa, ma è chiaro che non ci sono spiriti, altre dimensioni o strane energie di mezzo. Leggendo la frase estrapolata dal contesto si ricavava invece tutt’altra impressione. È questo il modo corretto di trattare il pensiero di uno scienziato? E così che si strappa una citazione da un’argomentazione complessa e la si utilizza per tutt’altri fini?

Fritjof

Fritjof Capra

Anche il fisico di origini austriache e californiano d’adozione Fritjof Capra, dal bestseller Il Tao della fisica del 1975 in poi, è abituato alle connessioni ardite fra scienza e spiritualità. Più di recente ha descritto in modo appassionato le proprietà dei sistemi non-lineari, esaltando la «rete della vita» come contraltare dei processi meccanicistici di competizione e di selezione (secondo livello). Ritiene che in questa logica profonda della vita si nasconda un cambio radicale di paradigma e un insegnamento morale, il bisogno di ritrovare una saggezza ecologica nei rapporti fra la specie umana e la biosfera (livello filosofico).

In virtù delle differenze fra i diversi piani, si potrebbe benissimo accogliere la sua filosofia ambientalista pur continuando a pensare che la natura non sia affatto così edificante. In ogni caso, non sussiste alcun nesso né scientifico né logico fra i suoi primi studi di fisica delle particelle e la sua filosofia sistemica. Citare Fritjof Capra in quanto scienziato, per il suo olismo spirituale, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone.

C

Francis Collins

[p. 23] Il valente genetista Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health di Bethesda e un tempo a capo del Progetto Genoma Umano, è convinto che il genoma contenga un ordine nascosto, una logica sublime di funzionalità ed eleganza. Altri la pensano all’opposto secondo livello) e ci vedono parecchia ridondanza e inutilità.

Poi Collins si fa prendere dalle metafore e pensa che in quel seducente codice bioinformatico si nasconda addirittura l’impronta di Dio, una diretta evidenza in favore della fede. In pagine piene di lirismo ha descritto la sua conversione religiosa. La convinzione in una «creazione evoluzionistica» non gli impedisce, a quanto pare, di continuare a fare bene il suo mestiere. Non sussiste però alcun nesso né scientifico né logico tra i suoi eccellenti risultati in biologia molecolare e la sua adesione al cristianesimo evangelico. Citare Francis Collins in quanto scienziato, per la sua devozione religiosa verso il dna come «linguaggio di Dio», è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone.

Il Nobel per la medicina Christian de Duve, che ha scelto di morire il 4 maggio 2013 in Belgio con eutanasia legale, aborriva il dualismo caso-necessità del collega Jacques Monod. Ha fatto scoperte fondamentali in citologia e a lui dobbiamo la comprensione di meccanismi fondamentali nel funzionamento delle cellule. Indipendentemente dal fatto che fosse credente o meno (non lo era, ma è irrilevante per l’argomento in sé) si era convinto che nella materia fosse inscritta non solo la possibilità della vita, ma anche la sua necessità biochimica.

L’universo era gravido di vita fin dall’inizio. Così facendo, confuse una tautologia (la vita è emersa perché le leggi della fisica e della chimica di questo universo lo hanno permesso) con una causa finale (le leggi della fisica e della chimica sono fatte proprio così per sviluppare la vita pensante). Non sussiste però alcun nesso né scientifico né logico tra i suoi risultati in biochimica e la sua idea della vita come imperativo cosmico. Citare Christian de Duve in quanto scienziato, per la sua teleologia universale, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone.

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Giordano Bruno

ltri scienziati estendono il medesimo argomento fallace di de Duve all’intero universo. E una versione del cosiddetto principio antropico: finalismo cosmico per eccellenza, apoteosi del narcisismo umano. L’universo ci stava aspettando! Aspettava proprio noi, mammiferi bipedi di grossa taglia, loquaci e invasivi. Proprio noi, abbarbicati provvisoriamente sul terzo pianeta di un sistema solare periferico di una galassia qualsiasi, schiacciati tra una sottile pellicola atmosferica e un nucleo incandescente, destinati a esplodere fra cinque miliardi di anni insieme alla nostra stella in un grande botto di cosmica indifferenza.

Un botto che ci ridurrà in pulviscolo spaziale sia sul piano [p. 24] «quantitativo» sia sul piano «qualitativo», per riprendere una curiosa dicotomia di Mancuso (in Flores d’Arcais, Mancuso, 2013, p. 59). Eppure ci sono scienziati che pensano che la presunta obbligatorietà della vita a emergere, date le costanti fisiche di questo universo, coincida con la sua finalità di emergere. Sulla debolezza e contraddittorietà di questo argomento filosofico non possiamo aggiungere nulla a quanto già ottimamente scritto in questo Almanacco da un fisico del calibro di Carlo Rovelli. Alla luce delle sue limpide argomentazioni, si può solo aggiungere che citare Paul Davies, John Barrow e l’estroso Freeman Dyson in quanto scienziati, per il loro finalismo cosmico, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone.

John Barrow, Fritjof Capra, Francis Collins, Simon Conway Morris, Paul Davies, Christian de Duve, Freeman Dyson, Stuart Kauffman, James Lovelock, Lynn Margulis, Dorion Sagan, Rupert Sheldrake sono alcuni fra gli scienziati prediletti da Vito Mancuso. É una congerie eterogenea dalla quale non emerge alcuna «nuova visione della natura» (in Flores d’Arcais, Mancuso, 2013, p. 138).

Quanto a Darwin, non mancherà mai in questa letteratura teleologica una delle solite quattro o cinque citazioni in cui il naturalista inglese – negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento – sembra concedere all’amico botanico di Harvard Asa Cray una blanda conciliazione teistica fra l’evoluzione e una qualche inconoscibile Causa Prima, o «leggi progettate», salvo poi arrendersi alle aporie filosofiche di questa posizione e approdare – per sua chiara, ripetuta ed esplicita dichiarazione a un agnosticismo radicale di non credente, scettico e antimetafisieo (Darwin, 2013). E la sua storia personale, da studiare come tale, un travaglio interiore come quello di ciascuno di noi. Nella vasta industria degli scritti darwiniani, come in quelli di Albert Einstein, si trova sempre una bella citazione pronta all’uso. Se saltasse fuori una lettera in cui Darwin crede alla Befana, c’è da scommettere che qualcuno la utilizzerebbe come dimostrazione scientifica o filosofica della compatibilità fra l’evoluzione e la Befana.

 

Il creazionismo del XXI secolo

Questo elenco di citazioni estrapolate e di fraintendimenti fra livelli diversi mostra come tale approccio sia autenticamente creazionista. Mancuso lo nega con fermezza perché il progetto divino non è imposto dall’esterno, ma si genera nel processo, perché la creazione è continua e non solo iniziale, e perché non c’è un dio delle lacune che interviene direttamente, ma un’emergenza spontanea di livelli [p. 25] ontologici gerarchicamente definiti, che culminano nello spirito santo.

«Dio attira verso la meta ma non impone l’itinerario» (Mancuso, 2013, p. 133).

creazione

creazione

E una mossa difensiva che rischia di sprigionare molti più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Non basta piazzare qua e là la distinzione fra scienza e filosofia: conta la sostanza dell’argomento. Citare ancora «l’altissima improbabilità della vita» significa assecondare una leggenda: tutti i dati scientifici a disposizione portano a pensare il contrario.

Se il verbo essere ha ancora la funzione di copula, allora asserire che il bosone di Higgs rappresenta la forza che costituisce il cuore relazionale dell’«essere-energia» e come tale «è» il logos, che i presunti «campi immateriali» della fisica sono lo spirito, che l’evoluzione «è» creazione direzionata e così via, significa sostenere una visione semplicemente e normalmente creazionistica, spostando implicitamente i piani di discorso e le rispettive pertinenze terminologiche.

L’energia non è la via di fuga dalla materia e dal «riduzionismo materialistico». Non sappiamo minimamente che cosa sia l’energia oscura: perché mettersi ad alludere che si tratti della manifestazione del logos divino primordiale? Il fatto che la nostra mente veda intenzioni e finalità dappertutto non è un argomento filosofico a favore dell’esistenza reale di tali finalità (p. 139 . Semmai, a qualsiasi persona razionale dovrebbe venire il dubbio che proprio la propensione teleologica della nostra mente ci in¬duce a supporre che vi siano Grandi Progetti e spiriti nascosti laddove non ne vi è alcuna evidenza che ve ne siano.

Quanto sia infondato questo modo di procedere si evince chiaramente dalle premesse della sua pars destruens. L’avversario è ovviamente il naturalismo filosofico, che viene accostato al famigerato «evoluzionismo», così definito:

«l’interpretazione dell’evoluzione unicamente sulla base del nesso “mutazione casuale + selezione naturale, così da togliere ogni direzione e ogni senso all’evoluzione, equiparata a mero cambiamento» (p. 119).

Peccato che la spiegazione del termine sia sbagliata. Il nesso mutazione-selezione non è un’interpretazione: è un fatto. Non è evoluzionismo, è l’evoluzione. É il nocciolo scientifico della spiegazione evoluzionistica corrente (primo livello). Il punto sta forse in quell’avverbio «unicamente»? Cioè nel fatto che qualche evoluzionista ha pensato che caso e selezione fossero necessari e anche sufficienti? E irrilevante, perché i biologi evoluzionisti oggi sanno benissimo che la selezione naturale non è l’unico processo di cambiamento e questo non pone alcun problema drammatico né sul piano scientifico (il programma di ricerca neodarviniano è in fase di costante aggiornamento e controllo) né [p. 26] sul piano del naturalismo filosofico (gli altri processi evidenziati restano pur sempre integralmente naturali).

La selezione naturale peraltro non è una forza meramente negativa, come scrive Mancuso riecheggiando un errore di Hans Jonas (p. 158): è un processo statistico, demografico ed ecologico che produce cambiamento, in positivo. La «tendenza all’organizzazione» non è affatto ignorata dal neodarwinismo: viene studiata sul piano scientifico, anche se non è affatto chiaro se sia davvero una tendenza intrinseca e non invece un effetto di altri processi. Di certo, non si commette l’errore di sovrapporre una presunta tendenza a una finalità. Se parliamo di scienza e nella scienza rimaniamo, una «proprietà emergente» è un comportamento collettivo di un sistema biologico, tanto naturale quanto quello dei suoi componenti. Mettere sullo stesso piano il riduzionismo metodologico dello scienziato e l’«emergentismo» inteso però come comparsa di una dimensione spirituale significa fare un cortocircuito del tutto improprio (Flores d’Arcais, Mancuso, p. 72).

naturaLa supposta «insufficienza del darwinismo» è quindi un falso argomento, un cavallo di Troia per introdurre indebite contaminazioni fra scienza e fede. Se il neodarwinismo è davvero insufficiente, si troverà un’altra teoria dell’evoluzione, altrettanto naturalistica.

Se invece si spera, magari nascostamente, che il neodarwinismo venga sostituito da una teoria teleologica dell’evoluzione, allora si ammetta fino in fondo che si sta cercando una prova scientifica (non filosofica, scientifica) del grande disegno finalistico, cioè si ammetta di essere semplicemente gli eredi del creazionismo statunitense. Nulla di male, almeno si gioca a carte scoperte, senza grufolare nel sottobosco dei pensieri della domenica degli scienziati.

Confondendo il dato di fatto dell’evoluzione con lo spauracchio dell’evoluzionismo discendono errori a catena, come quello smaccato di pensare che per un naturalista la mancanza di un senso finalistico nell’evoluzione debba implicare di per sé anche una mancanza del «senso della vita», una guerra anarco-darwiniana di tutti contro tutti, una resa fatale all’imperatore delle tenebre, impersonato dall’orrido caso. Pure assurdità.

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La giustizia

Si può trovare un meraviglioso senso esistenziale della vita, per nulla pessimistico e per nulla nichilistico, anche senza pensare che tutto abbia un fine trascendente e senza credere che il mondo sia popolato di spiriti, energie esoteriche e forze nascoste.

Anzi, personalmente ritengo molto più avvincente sul piano etico lottare per la giustizia e per la pace proprio perché la loro vittoria non è un destino già scritto nel cosmo o nella logica dell’essere. Quando i teologi (almeno quelli [p. 27] che si presentano come di nuova scuola) impareranno finalmente a rispettare davvero questa diversità umana e a smetterla di pensare che i non credenti siano, non dico condannati a un abisso di insensatezza amorale, ma anche solo in difficoltà nel dare un senso alla realtà?

Se per «evoluzionismo» intendiamo un’interpretazione filosofica gratuita e non conseguente dei dati scientifici, allora l’«evoluzionismo» vero è quello teleologico, che immagina direzioni, mete cosmiche, grandi piani, spiriti ed energie dove la scienza non vede alcunché di simile e la filosofia non ha alcun motivo per inventarli. In un passaggio cruciale Mancuso avanza tre obiezioni al naturalismo (2013, pp. 150-158), una più inconsistente dell’altra.

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Lo spirito santo

1. La prima è che «il fenomeno vita non è riducibile alla sola di¬mensione biologica» e che compito della filosofia è riconoscere le «altre dimensioni». Detta così, è un’ovvietà: finché ci riferiamo al fenomeno vita nella sua dimensione scientifica è alla biologia che dobbiamo rivolgerci; se stiamo parlando di etica o di arte o di ideali politici, ricorreremo ad altri saperi e altri linguaggi, pur nel quadro delle conoscenze scientifiche condivise (dunque nessuno «scientismo» ingenuo e caricaturale).

Ma l’argomento di Mancuso presuppone, senza alcuna ragione o evidenza a favore, che nel passaggio dalla vita biologica a quella psichica, intellettuale e morale si compia un progresso teleologico cosmico verso l’immaterialità spirituale della mente umana, un progresso potenzialmente presente nella materia fin dall’inizio, un grande télos puntato verso l’emergenza in natura di uno spirito santo. Dalla non riducibilità alla biologia siamo passati all’affermazione apodittica dell’esistenza di una grande finalità inscritta nella natura stessa: non è una tesi filosofica né un’obiezione, è un’ingiunzione.

Copernico

Copernico

Galieli

Galilei

Giordano

Bruno

2. La seconda è che «il radicale abbandono del punto di vista antropocentrico non è possibile»: è sempre Homo sapiens a parlare di Homo sapiens. Anche qui si parte da un’ovvietà. E inevitabile che Homo sapiens sia autoreferenziale quando studia se stesso. Ma non c’è alcun antropocentrismo nell’affermare che Homo sapiens è una specie unica a suo modo, come ogni specie è unica a modo suo.

Lo sappiamo proprio grazie alla scienza. E ridicolo il paradosso secondo cui dovremmo aspettare che si presentino un canguro o una medusa ad argomentare contro l’antropocentrismo (p. 155), perché l’abbandono dell’idea di essere il centro dell’universo è una delle grandi conquiste (irreversibili) della modernità. Siamo adulti, possiamo farcela da soli a capirlo, senza che ce lo dica un ornitorinco. L’obiezione quindi è irrilevante, perché per un naturalista [p. 28] Homo sapiens è una novità evolutiva tale da implicare comportamenti specifici e inediti, fra i quali quello di porsi domande sulla propria esistenza e sul proprio posto nella natura.

3. La terza è che «l’origine della vita manifesta una logica di aggregazione», come se questo dovesse essere un problema per il naturalista e non invece per il teologo. Aggregazione di che cosa? E per generare che cosa? Come fa la relazione fra due elementi biologici a produrre una divina entità immateriale? Un organismo pluricellulare è forse qualcosa di fisicamente «altro» rispetto alle cellule che lo compongono? Un’aggregazione di elementi naturali continuerà ad essere un fenomeno naturale e l’onere della prova circa l’esistenza di altre dimensioni che magicamente sgorgherebbero da queste aggregazioni è tutto a carico di chi le ipotizza.

Dal tenore di queste tre presunte obiezioni si evince che l’alternativa al naturalismo sarebbe questa: esistono altre dimensioni della vita a base di energie spirituali, punto. L’evoluzione è movimento ordinato a un fine, punto. É la «legge cosmica fondamentale» (2013, p. 165), punto. L’alternativa al naturalismo è un dogma. E la scienza sub specie theologiae.

«E sempre sbagliato, ovunque e per chiunque, credere a qualcosa in base a evidenze insufficienti»,

scriveva nella seconda metà dell’Ottocento il grande matematico inglese William Kingdom Clifford (2013). La ricerca libera, indipendente e senza fine è un dovere, aggiungeva, contro qualsiasi obbedienza cieca ad autorità e poteri precostituiti. Nel caso in cui un’interpretazione filosofica fosse in aperta contraddizione con i dati scientifici e non avesse dalla sua argomentazioni credibili, sarebbe bene considerarla perdente e abbandonarla, e non invece abbracciarla strenuamente. Oppure la stessa tesi filosofica, nella piena libertà e autonomia di chi la formula, potrebbe essere difesa proprio perché contraria alla scienza, proprio perché indipendente e incommensurabile, in quanto frutto di un’esperienza interiore urgente, inappellabile e non riconducibile alla razionalità. Sarebbe almeno un confronto trasparente tra opzioni esistenziali alternative.

La scienza è spesso contro-intuitiva, giacché sfida continuamente i nostri ben radicati pregiudizi su come funziona il mondo. Presenta ai nostri occhi aristotelici ed euclidei, evolutisi in una porzione assai limitata dell’universo, evidenze sconcertanti. Possiamo fare finta di non vederle e consumare la vita rinchiudendoci in confortanti gabbie popolate di fantasmi cerebrali. Oppure possiamo aprire lo sguardo, accettare che l’universo là fuori è un abisso indifferente alle nostre sorti e proprio per questo ci rende liberi e [p. 29] responsabili nell’agire adesso e qui, accettare la meraviglia e l’inquietudine di ciò che ancora non conosciamo, cambiare le risposte ad antiche questioni filosofiche sulla base di nuove conoscenze come cercano di fare gli autori dei saggi di questo Almanacco), navigare nel mare aperto di «infiniti mondi» che costarono la pelle a qualcuno ma che non smetteranno mai di attrarre le menti più ribelli e creative. Lo dobbiamo se non altro ai nostri figli, che non meritano dogmi e illusioni, ma nuovi orizzonti da esplorare.

 

Opere citate

W.K. Clifford, 2013, Etica, scienza e fede, a cura di C. Bartocci e G. Giorel¬lo. Bollati Boringhieri, Torino.
C. R. Darwin, 2013, Lettere sulla religione, a cura di T. Pievani, Einaudi, Tori¬no.
F. Facchini, 2012, Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale, Jaca Book, Milano.
P. Flores D’Arcais, V. Mancuso, 2013, Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia, Garzanti, Milano.
A. Gibbons, 2013, «Stunning Skull Gives a Fresh Portrait of Early Humans», Science, 342, pp. 297-298.
S. Kauffman, 2000, Esplorazioni evolutive, a cura di T. Pievani, Einaudi, To¬rino, 2005.
S. Kauffman, 2008, Reinventare il sacro, Codice Edizioni, Torino, 2010.
D. Lordkipanidze et al., 2013, «A Complete Skull from Dmanisi, Georgia, and thè Evolutionary Biology of Early Homo», Science, 342, pp. 326-331.
V. Mancuso, 2007, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore, Milano.
V. Mancuso, 2009, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
V. Mancuso, 2013, Il principio passione, Garzanti, Milano.

 

 

Vito Mancuso, Il cosmo e l’evoluzione sono tutto un Dharma

[In primo luogo] vorrei dire che le pagine di Pievani dedicate al mio pensiero […] sono guidate da pesanti ipoteche ideologiche [che alterano la mia posizione, coincidente con] una filosofia della natura per la quale la vita e l’intelligenza non sono un caso ma il risultato di una logica naturale tendente alla progressiva armonia relazionale (che poi si può chiamare Dio, Logos, Dharma, Tao, Natura naturans, o semplicemente natura). Specifico in questa prospettiva che non si tratta di una disputa tra credenti e non-credenti, perché la posta in gioco è la natura, non Dio, e non a caso tra chi sostiene la mia stessa visione della natura vi sono non credenti, come alcuni degli scienziati e dei filosofi citati nei miei libri […]

Georg Wilhelm Hegel

Georg Wilhelm Hegel (1770 – 1831)

La questione è illustrata bene dall’astrofisico britannico Paul Davies, a sua volta oscillante in fatto di fede, che parla di “due visioni del mondo diametralmente opposte” e specifica:

Da una parte c’è la scienza ortodossa, con la sua filosofia nichilista di un universo senza senso, di leggi impersonali ignare di qualunque scopo, di un cosmo in cui la vita e l’intelligenza, la scienza e l’arte, la speranza e la paura sono solo i fortuiti e accessori abbellimenti di un affresco dell’irreversibile corruzione cosmica.

Dall’altra c’è una visione alternativa, romantica, ma non per questo irrealistica, la visione di un universo autorganizzato che accresce la propria complessità, governato da leggi ingegnose che spingono la materia a evolversi verso la vita e la coscienza, un universo in cui l’emergere di esseri pensanti è parte integrante e fondamentale dell’ordine complessivo delle cose; un universo nel quale non siamo soli” (Da dove viene la vita, Mondadori 2000, p. 308). […]

Arthur Schopenhauer

Arthur Schopenhauer (1778 – 1860)

Il paleontologo Simon Conway Morris, […] la biologa Lynn Margulis, il già ricordato Stuart Kauffman, il fisico Fritjof Capra, il genetista Francis Collins, il biologo Christian de Duve e infine […] l’astrofisico Paul Davies e i matematici John Barrow e Freeman Dyson […] sono accomunati dal mostrarsi insoddisfatti della visione dominante che nega ogni logica all’origine della vita e ipotizzano che la vita sia un fenomeno cosmico fondamentale, destinato a manifestarsi ovunque le condizioni lo permettano.

Vi sarebbe cioè una Fitness of the Cosmos for Life, secondo il titolo di un simposio presso l’Università di Harvard del 2003 i cui maggiori contributi sono raccolti nel volume Fitness of the Cosmos for Life: Biochemistry and Fine-Tuning, Cambridge University Press 200

PLatone

Platone (427 – 347 a. C.)

Ebbene. a proposito di questi scienziati, Pievani stabilisce che in quanto scienziati essi non possono essere citati a sostegno di una filosofia secondo cui la vita e l’intelligenza, ben lungi dall’essere ridotte a colpo di fortuna chimico, emergono da un universo che mostra strutturale idoneità (fitness) alla loro comparsa. Perché non lo possono? Se non ci si basa sui dati offerti dagli scienziati, su quale base bisognerebbe costruire una filosofia della natura?

E lui, Pievani, non fa proprio così nelle sue opere appoggiandosi ai suoi scienziati di riferimento? Ma più grave è che egli non vede che io non cito gli scienziati sopra elencati in quanto scienziati, visto che non ne discuto il valore scientifico valutandolo superiore rispetto a quello di altri scienziati più allineati con la visione della natura dominante. Più semplicemente io mi riferisco ai testi saggistici nei quali essi, partendo dalle loro competenze scientifiche, giungono in quanto esseri umani a una filosofia della natura consonante con la mia, e molto diversa rispetto a quella secondo cui la vita e l’intelligenza sono frutto del caso.

Busto di un greco sconosciuto identificato con Democrito o Eraclito

Busto di un greco sconosciuto identificato con Democrito (460 – 370 a. C.)

Epicuro

Epicuro (341 – 270 a. C.)

Pievani ripete per sette volte che tra i lavori scientifici degli scienziati a cui mi riferisco e la filosofia della natura presente nelle loro opere non c’è alcun nesso e che volerlo stabilire comporta una fallacia logica. Non si rende conto però che ciò che per lui non sequitur, per questi scienziati, invece, sequitur.

È evidente infatti che la loro filosofia della natura ha strettamente a che fare con le loro ricerche scientifiche: se per esempio Francis Collins è giunto a parlare di un “linguaggio di Dio” nella natura è perché ha lavorato per decenni sul genoma. È altrettanto chiaro ovviamente che le affermazioni di Collins non sono una deduzione necessaria, perché da quei dati sul genoma non scaturisce necessariamente la medesima convinzione, come dimostra il fatto che Craig Venter, il rivale-collega di Francis Collins, ha lavorato altrettanto a lungo sul genoma senza vedervi la minima traccia di un linguaggio divino e come del resto afferma lo stesso Collins a proposito della sua teoria denominata Bio-Logos scrivendo che

a differenza del disegno intelligente, il Bio-Logos non si presenta come una teoria scientifica” (Il linguaggio di Dio, Sperling & Kupfer, p. 209).

Il che significa: tra i dati scientifici e la filosofia vi è sì un rapporto (altrimenti su che cosa si dovrebbe basare la filosofia?) ma non tale da essere necessitante. Sto sostenendo cioè che tra i dati scientifici e la visione filosofica che se ne può ricavare vi è un’indubbia relazione, ma altresì che tale relazione non è all’insegna della necessità, bensì, com’è consueto per ogni ragionamento autenticamente filosofico, all’insegna della libertà.

Così avviene che i dati sul genoma sono identici per entrambi, ma Collins sostiene che parlano “il linguaggio di Dio”, Venter no; che i dati biologici sulle basi della vita sono identici per entrambi, ma de Duve sostiene che essa era già contenuta nella materia originaria che chiama “polvere vitale”, Monod no; che i dati sull’origine e l’espansione dell’Universo sono identici per tutti, ma alcuni fisici postulano il cosiddetto principio antropico e altri no, e così via su ogni ambito di interesse vitale.

Appare evidente come vi sia una specie di spazio vuoto tra la necessità oggettiva dei dati scientifici e la loro interpretazione in quanto generatrice di significato. Tale spazio fa sì che per alcuni scienziati tra i dati e il significato non vi sia nessun nesso e che per altri invece un nesso vi sia e vi si possa costruire una filosofia della natura dotata di significato, bioamichevole e orientata all’armonia relazionale. Tale spazio vuoto che porta alcuni a dire non sequitur e altri a dire sequitur è lo spazio della filosofia, cioè del pensare libero e non necessitato che conduce ad avere una propria Weltanschauung o visione del mondo.

La filosofia infatti è nata proprio a causa della libertà della mente rispetto al positum, e precisamente per questa sua indeterminazione costitutiva essa è sempre plurale e si presenta come una congerie di diversi sistemi in competizione tra loro, con il risultato che, a differenza della scienza il cui cammino è sostanzialmente unitario e progressivo, la filosofia procede in modo frammentario senza essere in grado di accumulare sapere consolidato in molte questioni fondamentali. Pievani però non si rende conto di tutto ciò e scambia per una fallacia logica il proprium della filosofia, il che, per uno studioso il cui primo titolo è quello di filosofo, è grave.

In realtà questa sua incapacità di riconoscere l’essenza della filosofia rivela il sogno dei dogmatici di ogni tempo, sia di quelli che usano la scienza per dimostrare Dio, sia di quelli che la usano per dimostrare l’ateismo, nel desiderio di far discendere dalla necessità dei dati (scientifici o biblici) un’unica necessitante visione del mondo in odio al pluralismo e alla libertà. E come in ambito ecclesiastico viene coltivata l’idea della filosofia come ancilla theologiae e poi della teologia come ancilla ecclesiae, allo stesso modo Pievani esprime una visione della filosofia come ancilla scientiae, di una serva cioè del tutto appiattita sul positum scientifico.

Per fortuna però tale ideale positivistico orientato a un oppressivo pensiero unico non è realizzabile e a dimostrarlo sono gli “eretici”, cioè i liberi pensatori che a partire dai medesimi dati offrono interpretazioni diverse rispetto alla visione dominante. In ambito scientifico gli scienziati “eretici” da me citati si oppongono alla prevalente filosofia della natura che avversa ogni discorso di senso e di finalità, scrivendo per esempio come Christian de Duve:

Io considero questo Universo non come uno scherzo cosmico, bensì come un’entità dotata di significato, fatta in modo tale da generare la vita e la mente, destinata a dare origine a esseri pensanti in grado di discernere la verità, di apprendere la bellezza, di sentire amore, di desiderare il bene, definire il male, sperimentare il mistero (Polvere vitale, Longanesi 1998, p. 490).

Tra gli scienziati che condividono questa visione e che ricordo nei miei libri ho citato ora de Duve perché era un non credente a dimostrazione di quanto già detto, cioè che qui non è in gioco la fede in Dio ma l’interpretazione filosofica della natura (ho esplicitato tutto ciò in Il principio passione, Garzanti 2013, pp. 147-149).

So bene che per altri scienziati l’universo non è dotato di nessun significato, ma questo significa solo che dalla conoscenza scientifica non discende un’unica e necessitante visione del mondo, come invece vorrebbero gli ideologi dello scientismo ateo che ambiscono ad accreditare come razionale la negazione del senso e come irrazionale l’affermazione di un senso complessivo del mondo a cui legare (proprio nel senso etimologico di religio) la vita. E proprio perché dalla scienza non discende un’unica visione del mondo, Wittgenstein ha scritto:

Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati (Tractatus logico-philosophicus 6.52).

Questa non completa sovrapponibilità tra conoscenze scientifiche e problemi vitali è illustrata al meglio nella Critica della ragion pura di Kant, dove si sostiene che è l’antinomia il destino a cui è inevitabilmente consegnata la ragione che riflette sui dati forniti dall’intelletto in modo teoreticamente puro e senza ideologie precostituite.

L’intelletto offre dati, la ragione li elabora (nella dialettica tra sequitur e non sequitur), ma la sua elaborazione non sarà mai tale da produrre un sistema incontrovertibile, perché vi saranno sempre motivi per sostenere la tesi del senso e motivi per sostenere l’antitesi del non-senso. Ma come ho già detto, se non vi fosse questo spazio libero garantito dall’antinomia, vi sarebbe la morte della libertà e della filosofia che ne è la manifestazione. […]

Dopo aver trattato la questione centrale (su cui alla fine ritornerò), affronto ora alcuni problemi particolari iniziando dalla citazione di Stuart Kauffman che vengo accusato di estrapolare e di inserire in altro contesto assegnandole un senso molto diverso […]. La frase di Kauffman da me citata è la seguente:

La mente immateriale – non reale oggettivamente – ha conseguenze sul mondo fisico reale (Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Codice 2010, p. 205).

kundalini

La kundalini

Il contesto in cui la inserisco è il paragrafo sull’energia del mio libro Il principio passione in cui affermo che, oltre alle forme note, vi è un tipo di energia che procede dal pensiero e che influenza la materia del corpo perché la può guarire o ammalare o non farle avvertire il freddo o il caldo, un tipo di energia che si può definire spirituale e che è conosciuta soprattutto dalle religioni di origine orientale (è detta prāna o kundalinī o śakti in India, qi in Cina, kiin Giappone) e di cui si ha evidenza nella pratica dell’agopuntura sempre più diffusa anche in occidente. In quel paragrafo ricordo poi due fisici, Erwin Schrödinger secondo cui

la teoria fisica nel suo stato presente suggerisce energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito per opera del Tempo,

e David Bohm che ha parlato di

azione di un’energia che non è meccanica, un’energia che noi chiameremo intelligenza (per i riferimenti vedi Il principio passione, p. 187).

E a questo punto colloco la citazione di Kauffman che ipotizza l’esistenza di una forma di energia diversa rispetto alle forme note in quanto procede da una sorgente “immateriale”.

Passando ora ad analizzare il contesto del libro di Kauffman, il capitolo da cui traggo la frase sostiene l’ipotesi del “cervello quantistico”, ovvero del fatto che la mente umana non coincide del tutto con il cervello biologico in quanto lavora anche sulla base di un’energia non meccanica.

Si tratta di un’ipotesi in controtendenza rispetto alla visione dominante in neurobiologia che conosce solo l’energia di tipo meccanico proveniente dalle reazioni chimiche e per la quale è concepibile solo un’azione della materia sulla mente, e non viceversa un’azione della mente in quanto puro pensiero sulla materia.

L’assunto della visione dominante è infatti il riduzionismo, ovvero l’idea che “tutte le frecce esplicative puntano verso il basso”, come afferma Weinberg citato da Kauffman, ma l’intenzione fondamentale del libro di Kauffman è esattamente di opporsi a questa prospettiva mostrando che “a dispetto di Weinberg esistono frecce esplicative che non puntano verso il basso” (Reinventare il sacro, p. xviii). Il che porta Kauffman a sostenere la tesi, proprio al centro del capitolo da cui ho tratto la citazione, che “la mente immateriale ha conseguenze sulla materia” (ib., p. 217).

Ora io domando: quale tipo di energia sarà in gioco nell’azione che dalla mente immateriale procede verso la materia? La risposta è che si tratta esattamente dell’energia non convenzionale o spirituale di cui parlo nel paragrafo del mio libro dove inserisco la citazione di Kauffman, la quale, a questo punto, appare tutt’altro che un’estrapolazione indebita, ma esattamente quello che è nella sua veridicità, cioè l’intuizione di un uomo a cui l’esperienza ha mostrato l’esistenza di dimensioni dell’essere non riducibili alle forme di energia conosciute, su cui poi egli, da scienziato, formula delle ipotesi esplicative, in questo caso riferendosi alla meccanica quantistica. […]

A proposito di una mia affermazione su Darwin il mio critico scrive che

attribuirgli una visione di incremento dell’informazione e della complessità dal basso è fuorviante (MM., p. 19, che rimanda a Paolo Flores D’Arcais – Vito Mancuso, Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia, Garzanti 2013, p. 32).

Charles Darwin

Charles Darwin

Per documentare in base a che cosa sono giunto ad attribuire a Darwin quella visione, ecco quanto si legge in un passo particolarmente importante quale l’ultima pagina della sesta edizione dell’Origine delle specie del 1872:

Possiamo dunque guardare con qualche fiducia verso un sicuro avvenire di grande durata. E poiché la selezione naturale lavora esclusivamente mediante il bene e per il bene di ciascun essere, tutte le qualità del corpo e della mente tenderanno a progredire verso la perfezione.

Poco dopo Darwin prosegue:

Così, dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, direttamente deriva il più alto risultato che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori. Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi (L’origine delle specie, Bollati Boringhieri 2011, p. 552).

Alla luce di queste parole, non estrapolate da qualche lettera occasionale ma poste da Darwin nell’ultima pagina dell’ultima edizione da lui curata in vita del suo capolavoro, quindi in un luogo difficilmente più significativo, è davvero fuorviante attribuirgli una visione di incremento dell’informazione e della complessità? O non è piuttosto fuorviante il contrario? In un altro passo decisivo dell’Origine delle specie, nel capitolo quarto dedicato alla selezione naturale, si legge:

Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità perperfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita (ib., p. 157, corsivo mio).

Torno a chiedere: è davvero fuorviante attribuire allo scienziato inglese una visione di incremento dell’informazione e della complessità? O non è piuttosto fuorviante il contrario?

Ho affermato all’inizio di questo scritto che in Pievani vi sono pesanti ipoteche ideologiche che ne alterano la lettura dei miei libri e ne distorcono lo sguardo così da giungere ad attribuirmi quanto nel mio pensiero non c’è (se poi si tratti di un procedimento intenzionale oppure no è un fatto che riguarda Pievani). Ecco tre esempi di indebite attribuzioni al mio riguardo.

1) Si sostiene che io sia creazionista, ma ciò è del tutto infondato e per mostrarlo procederò dapprima chiarendo il concetto teologico di creazionismo nelle sue due accezioni e poi documentando la mia distanza da entrambe. Con creazionismo si intende la prospettiva di pensiero teologico che sostiene un’azione diretta di Dio sulla natura. Tale affermazione conosce due forme, più radicale la prima, più moderata la seconda.

La prima consiste nella negazione dell’evoluzione in quanto tale sulla base di un’interpretazione letteralista dei testi biblici, per cui si afferma la fissità delle specie e si nega l’origine fisica dell’uomo dagli animali riconducendola direttamente a Dio. La seconda consiste nella considerazione dell’evoluzione come etero-diretta da un Progetto Intelligente esterno al mondo (il celebre Intelligent Design) e in alcuni momenti addirittura sospesa per lasciare spazio a interventi diretti di Dio, come in particolare per l’anima umana ritenuta creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori. Il creazionismo radicale è professato soprattutto nell’ambito di un certo protestantesimo americano, il creazionismo moderato è professato dalla dottrina cattolica ufficiale.

dolore_bigOra premesso che se fossi creazionista non avrei nessun problema a dirlo visto che cerco di avere sempre il coraggio delle mie idee, affermo per quanto mi riguarda di non aver mai abbracciato il creazionismo radicale e di aver abbandonato quello moderato a partire dall’opera Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio (Mondadori 2002, con prefazione di Edoardo Boncinelli). Nonostante ciò Pievani sostiene che io sono creazionista, e immagino che ciò dipenda dalla sua difficoltà a cogliere la distinzione teologica tra creazione e creazionismo.

Aristotele

Aristotele (384 – 322 a.C.)

Lo evinco anche dal fatto che più di una volta (per esempio in MM, p. 12 e pp. 17-18) egli mostra di identificare il concetto di creazione con quello di teleologia, come se ammettere che vi sia una finalità interna alla natura debba coincidere di per sé con l’idea che la natura sia creata dal nulla da parte di un Dio.

In realtà tra il concetto di creazione e quello di teleologia vi è una netta distinzione e si può benissimo sostenere il secondo senza abbracciare il primo, come dimostra la filosofia naturale di Aristotele che sostiene l’esistenza di un telos nella natura e al contempo pone il mondo come eterno, parlando più specificamente al suo riguardo di entelechia, cioè di un telos interno al mondo stesso, secondo una prospettiva di sacro naturale molto vicina a quella di Stuart Kaufmann e di altri scienziati contemporanei, e a quella di Tommaso Campanella e Giordano Bruno cinque secoli fa. Pievani però appena intravede un discorso teleologico pensa subito al creazionismo, e con ciò mostra ancora una volta di muoversi abbastanza male in filosofia.

Tommaso Campanella

Tommaso Campanella

2) Un altro esempio di travisamento è la presentazione del mio pensiero come “lotta manichea” (MM, p. 17), come scontro tra “le forze del bene” e “quelle antinomiche del male”. Questo può significare solo due cose: o la totale incomprensione dei miei libri in cui il dualismo è sempre e ripetutamente avversato sotto tutte le sue forme, oppure un’esplicita volontà di stravolgerli a fini polemici e caricaturali.

3) Si descrive il mio pensiero come una prospettiva consolatoria secondo cui “la giustizia alla fine trionferà”, essendo il mio critico convinto che per me “l’importante è dare a intendere al lettore che i buoni vinceranno”, visto che questo “è un lenitivo formidabile” (MM, p. 17). Questa presentazione del mio pensiero però, ancora una volta, è falsa, e per dimostrarlo è sufficiente un brano del mio ultimo libro:

Il Dio che governa il mondo secondo democrazia lascia aperta la storia della sua alleanza con gli uomini, la quale potrebbe anche fallire, e la meta, invece del regno di Dio in quanto regno della libertà che vuole solo il bene e la giustizia, potrebbe essere un immenso centro commerciale, dove tutto è in vendita e ognuno ha il suo prezzo” (Il principio passione, p. 116).

Giordano_Bruno

Giordano Bruno

4) Un’altra accusa rivoltami è la seguente: “Si presuppone che l’esistenza stessa di scienziati credenti sia prova della compatibilità tra conoscenze scientifiche e credenze religiose” (MM, p. 11).

In questo caso non si tratta di un travisamento perché è esattamente così: io ritengo infatti che la compatibilità tra conoscenze scientifiche e credenze religiose si basi anche sul fatto che vi è un certo numero di scienziati che, conoscendo di prima mano il mondo fisico, pensano che la vita e l’intelligenza in questo pianeta non siano frutto del caso ma di una logica complessivamente orientata alla crescita della complessità, la quale può rimandare a una più profonda dimensione dell’essere denominata tradizionalmente trascendenza.

Tra questi scienziati vi sono stati Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Dalton, Maxwell, Faraday, Volta, Mendel, Pasteur, Marconi, Planck, Heisenberg, Schrödinger, Eddington, Eccles, Dobzhansky… Ai nostri giorni ai nomi menzionati sopra aggiungo quelli di Schroeder, Sheldrake, Swimme e degli italiani Nicola Cabibbo, Ugo Amaldi, Elena Cattaneo.

Sia chiaro che non ho parlato di Dio né di divino, lasciando così volutamente indeterminata la modalità con cui viene pensata la trascendenza, ciò che Heisenberg chiamava “l’ordine centrale delle cose” (Fisica e oltre, Bollati Boringhieri 2008, p. 235). Non ho fatto il nome di Einstein perché il suo credo spinoziano è molto discusso, ma di certo egli auspicava un’armonia di fede e scienza come testimoniano i suoi scritti, tra cui la celebre affermazione di un discorso del 1941 a New York:

La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca (Pensieri, idee, opinioni, Newton Compton, p. 29).

Werner Heisemberg

Werner Heisenberg

In questa prospettiva a mio avviso non serve a nulla citare come fa Pievani una frase da una lettera di Darwin del 1880:

Secondo me un uomo che voglia formarsi un’opinione su questo argomento deve valutare da se stesso le evidenze; e non lo si dovrebbe influenzare dicendogli che un numero considerevole di scienziati riesce a conciliare i risultati della scienza con la religione rivelata o naturale, mentre altri non riescono a fare altrettanto (MM, p. 11);

non serve perché: 1) è ormai impossibile a un singolo essere umano valutare da se stesso le cosiddette evidenze, talmente sconfinato è diventato il progresso dell’impresa scientifica; ciò che forse era ancora possibile al tempo di Darwin oggi non lo è più; 2) la divisione degli scienziati a livello di interpretazione filosofica dei dati scientifici fa parte delle stesse evidenze che occorre responsabilmente valutare.

Thomas

Thomas Nagel

È molto strano che un filosofo della scienza […]abbia trascurato del tutto il mio riferimento all’ultimo libro di Thomas Nagel, professore di filosofia alla New York University e personalmente scettico in materia religiosa, che nell’ottobre 2012 ha pubblicato un libro dal titolo abbastanza esplicito: Mind and Cosmos: Why the Materialist Neo-Darwinian Conception of Nature is Almost Certainly False, “Mente e cosmo.

Perché la concezione materialista neo-darwinista della natura è quasi certamente falsa” (Oxford University Press 2012, non ancora tradotto in italiano, qui riprendo le citazioni dall’e-book in versione Kindle). Nagel è un filosofo della mente e proprio a partire da essa intende giungere a “un’immagine comprensiva del mondo” (pos. 59), convinto com’è che la comparsa della mente “tocca la nostra comprensione dell’intero cosmo e della sua storia” (pos. 48) [si veda, in proposito, anche il dibattito Darwin-Wallace sull’evoluzione umana, NDR].

Con l’assegnazione di questa centralità epistemologica alla mente siamo all’esatto opposto rispetto a Pievani secondo cui

nulla di ciò che sappiamo sull’evoluzione suggerisce che la coscienza fosse un’evenienza inevitabile… ciò che sappiamo sull’evoluzione suggerisce proprio il contrario (p. 18).

Per Nagel invece la comparsa di qualcosa come la mente rende la spiegazione che fa delle variazioni casuali il motore dell’evoluzione “quasi certamente falsa”, mentre occorre ritenere che

principi di genere diverso siano all’opera nella storia della natura, principi di crescita dell’ordine che nella loro forma logica sono teleologici più che meccanicistici (pos. 104).

Si tratta di affermazioni che pongono Nagel accanto a Whitehead, Bergson, Jonas, pensatori di grande spessore e convinti sostenitori del dato dell’evoluzione, ma molto perplessi sulla sufficienza della spiegazione che ne dà il darwinismo, esattamente nella linea degli scienziati le cui opere cito nei miei libri […].

Pievani definisce “estrapolazione inconsistente” la mia affermazione di un’armonia relazionale sottesa al processo naturale e scrive di “fantomatica armonia relazionale” (MM, p. 20). Per molti grandi uomini di scienza però l’armonia è tutt’altro che fantomatica. Pressoché tutta la scienza antica si basava sul concetto di armonia, e venendo alla modernità ecco quanto ha scritto Planck a proposito di Keplero:

Johannes Kepler (1571 - 1630)

Johannes Kepler (1571 – 1630)

Ciò che lo sostenne e gli diede la forza di lavorare fu la sua scienza, ma non le cifre delle sue osservazioni astronomiche, bensì la sua fede in leggi razionali che reggono l’universo. Anche il suo maestro Tycho Brahe era dotto come lui e disponeva dello stesso materiale di osservazioni scientifiche, ma gli mancava la fede nelle grandi leggi eterne. Perciò Tycho Brahe rimase uno tra i tanti meritevoli scienziati, ma Keplero diventò il creatore dell’astronomia moderna” (La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, 1993, p. 262).

Il titolo di una delle opere fondamentali di Keplero è, com’è noto, Harmonices mundi, L’armonia del mondo, ma quello che vale per Keplero vale per Newton che ne poté unificare le tre leggi del moto planetario sulla base della convinzione di una più fondamentale armonia cosmica, vale per Einstein che giunse a unificare la meccanica newtoniana con le leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell sempre sulla base della convinzione di una più fondamentale armonia cosmica, e vale probabilmente per i fisici contemporanei che ipotizzano la teoria delle stringhe per unificare la relatività einsteiniana con la meccanica quantistica. Credere in un’armonia tra la mente e il mondo è sempre risultato molto produttivo per la comprensione del mondo.

Peter Higgs

Peter Higgs

Che l’armonia relazionale non sia per nulla “fantomatica” lo mostra anche la più grande scoperta scientifica dei nostri giorni, la rilevazione del bosone di Higgs ufficializzata dal Cern di Ginevra il 4 luglio 2012 e ipotizzata da Peter Higgs nel 1964, ancora una volta per un’esigenza di armonia.

Da essa si evince che ogni particella è dotata di massa non per se stessa ma grazie alla relazione con il campo di Higgs, per cui occorre ritenere, cogliendo il significato filosofico del dato, che la prima delle categorie con cui pensare la realtà non è più la sostanza (come si ritiene classicamente a partire da Aristotele) ma è la relazione, e ovviamente una relazione tanto più è produttiva quanto più genera armonia.

Ma il concetto di armonia relazionale è così decisivo da risultare centrale non solo a livello macroscopico in ambito astronomico e a livello microscopico nell’ambito della fisica delle particelle, ma anche a livello biologico per la salute fisica e psichica dei nostri corpi, come sanno da sempre la medicina cinese e indiana, e come per fortuna si va sempre più riscoprendo in occidente. Insomma l’armonia relazionale, ben lungi dall’essere “fantomatica”, è un concetto decisivo della rinnovata ontologia come interconnessione del tutto.

Tutto in natura infatti è frutto di aggregazione di elementi: l’aria che respiriamo (78% azoto, 21% ossi-geno, 1% argon), l’acqua che beviamo e di cui siamo in massima parte composti, il nostro corpo e prima ancora i nostri organi, il nostro pianeta, la stella che ci dà l’energia vitale, il sistema di pianeti in cui siamo inseriti, la nostra galassia: tutto è frutto di assemblaggio di elementi. C’è una spinta innata nell’energia e nella materia verso l’aggregazione, spinta che la sapienza classica ha chiamato logos, traendo il termine dal verbo leghein, cioè legare, collegare.

Certo, oltre a tale spinta c’è quella contrapposta verso la disgregazione, c’è il caos. Essa si è manifestata a partire dallo scoppio primordiale o Big Bang che ha messo in moto l’universo attuale; e poi nell’esplosione delle stelle che dissemina nel cosmo gli elementi alla base della vita, in primo luogo il carbonio; e poi nel ciclo vitale che prevede malattie, vecchiaia, morte. Quello che abbiamo quindi è: logos-aggregazione + caos-disgregazione. Non si tratta però di una perfetta equazione, perché tra logos e caos non c’è simmetria, ma asimmetria: se non fosse così, nulla si sarebbe costruito e noi non saremmo qui a ragionarne.

Già il solo vedere, riconoscere e nominare il caos, è una vittoria del logos, visto che anche la struttura del linguaggio e del discorso (logos) riflette l’ordine senza cui non potremmo neppure sensatamente parlare, e chi sostiene il primato del caos, già solo per il fatto di fare un discorso ordinando logicamente le parole e le idee, manifesta il primato del logos.

Erwin Schrodinger

Erwin Schrödinger (1887 – 1961)

Ne viene che cercando l’armonia si attua la logica-logos da sempre all’opera nel mondo mediante una faticosa, e spesso drammatica, processualità. Utilizzando il termine coniato da Schrödinger nel 1935, la fisica parla di entanglement, letteralmente “intreccio”, ovvero non-separabilità di tutte le cose, a partire dalle particelle subatomiche. Il mondo è un intreccio di relazioni, non c’è nulla che sta in sé, ogni cosa è in quanto è in relazione. Senza relazioni armoniose nulla vive, tutto muore. Saperlo significa raggiungere una base naturale per l’etica; cercare di realizzarlo è ciò che fa la vera grandezza di un essere umano, la sua capacità di giustizia.

Avviandomi verso la conclusione riprendo l’accusa principale, cioè “un uso filosofico, teologico e ideologico” della scienza (MM, p. 4) […] La differenza rispetto all’uso ideologico della scienza praticato dai fondamentalisti credenti e dai fondamentalisti non-credenti è che io teorizzo, in linea con Kant, che dai dati scientifici non scaturisce necessariamente né un’affermazione di Dio e del disegno intelligente né al contrario una visione atea, perché i dati assumono un significato differente a seconda della filosofia dell’interprete.

Essi infatti, al fine di renderli significanti, vengono inseriti nella più ampia visione del mondo che abita la mente di ognuno e che non può derivare da un’oggettiva osservazione del mondo perché a nessuno è dato un punto di vista esterno al mondo da cui guardarlo oggettivamente.

Va inoltre considerato che, a differenza di quanto scrive Pievani, l’universo non sta solo “là fuori” (MM, p. 28) ma è anche qua dentro, perché anche noi siamo una parte dell’universo, una parte insignificante dal punto di vista dell’energia e della materia, ma molto significativa dal punto di vista dell’informazione, e non a caso Nagel pone la mente quale punto prospettico da cui leggere il senso complessivo dell’evoluzione cosmica. Lo devono fare tutti? No. Ma alcuni lo possono fare senza tradire la loro natura di esseri pensanti e responsabili.

Pierre-Simon-Laplace_(1749-1827)

Pierre-Simon-Laplace_(1749-1827)

Che la nostra mente sia parte dell’universo e quindi influenzi pesantemente i dati da osservare che quindi non risulteranno mai del tutto oggettivi, è provato dal fatto che nel ‘700 e nell’800 pPlatoer fondare l’ateismo si ricorreva al determinismo (tipico è il caso di Laplace) mentre oggi per raggiungere il medesimo obiettivo ci si basa sul principio opposto della contingenza.

In realtà nel mondo esistono sia la determinazione (che si esprime nelle leggi fisiche dette costanti perché non mutano mai) sia la contingenza (che si esprime nella fragilità della vita), con il risultato che non tutto è necessario e non tutto è contingente, e che ancora una volta siamo al cospetto dell’antinomia e rimandati all’interpretazione senza fine dei significati, cioè alla nostra libertà. E infatti il valore di ogni essere umano consiste nella sua libertà e nel modo con cui l’utilizza.

È precisamente per questo che a me interessa conoscere l’esperienza e il sentimento della vita che i grandi uomini di scienza hanno consegnato ai loro scritti saggistici che leggo con un senso di grande rispetto che talora sfiora la venerazione come nel caso del Manifesto Russell-Einstein del 1955 contro la

Georg Wilhelm Hegel

Georg Wilhelm Hegel

bomba atomica].  Non è certo invece, come purtroppo scrive Pievani, per “grufolare nel sottobosco dei pensieri della domenica degli scienziati” (MM, p. 26). Grufolare è un verbo che il Vocabolario Treccani definisce così: “del porco, spingere innanzi il muso grugnendo e cercando il cibo”. Che dire? Come ho già osservato, lo stile rivela l’interiorità, perciò non mi stupisce che nell’autore di quelle parole sia assente ogni tipo di considerazione per i “pensieri della domenica”, i quali sono l’essenza stessa della filosofia, di quella disposizione particolare della mente di cui Aristotele diceva che

“tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore” (Metafisica, I, 983 A).

E sempre a proposito di domenica, Hegel faceva consistere l’idea di Dio nella “domenica della vita”, dicendo che gli esseri umani hanno sempre considerato

questo sapere e sentire Dio come una loro più alta forma di vita, il loro vero fine e la loro vera dignità: come la domenica della loro vita, dove scompaiono le preoccupazioni terrene e finite e lo spirito si acquieta (Georg W.F. Hegel, Premessa alle Lezioni sulla filosofia della religione, Laterza 1983, I, p. 4).

[…]

— continua —

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