Vita di Tommaso Campanella

by gabriella

Tommaso Campanella (1568 – 1639)

Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia;
ond’or m’accorgo con quanta armonia

Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi
Questi principii son veri e sopremi
della scoverta gran filosofia

rimedio contra la trina bugia
sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi.
Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,

tutti a que’ tre gran mali sottostanno che nel cieco amor proprio,
figlio degno d’ignoranza, radice e fomento hanno.

Dunque a diveller l’ignoranza io vegno.

La vita di Tommaso Campanella, il pensiero, la ribellione contro la tirannide, gli atti della tortura a cui fu sottoposto per oltre un anno.

Nella poesia filosofica che Campanella titolò Delle radici de’ gran mali del mondo, le tre primalità, Potenza, Sapienza e Amore che Temi (themis), la giustizia, indica al filosofo, sono il rimedio contro la trina bugia della tirannide (quale falsa possanza), della sofistica (in quanto falsa scienza) e dell’ipocrisia (quale falso amore), dalla quale vengono tutti i mali del mondo e che è a sua volta radicata nell’amore di sé, generato dall’ignoranza.

 

Vita di Fra’ Tommaso

Contro l’ignoranza, platonica origine di ogni carenza umana, era venuto dunque battersi il calabrese Giovan Domenico Campanella (1568-1639), nato in una famiglia poverissima ed entrato ragazzo nell’ordine domenicano dove aveva potuto studiare, acquisendo una profonda sapienza filosofica. Nel contesto periferico ed emarginato della terra d’origine era maturata in Campanella l’idea di una congiura contro l’autorità politica e religiosa che egli sentiva al tramonto, dietro l’incalzare di grandi sconvolgimenti naturali e politici. Nell’attesa di quegli eventi straordinari, il filosofo si prefisse di realizzare subito un nuovo ordine: una repubblica fraterna che abolendo proprietà e gerarchie consuetudinarie, laiche ed ecclesiastiche, riaffermasse l’eguaglianza e la giustizia.

Il seguito di Campanella fu eterogeneo. Ai ribelli decisi ad emanciparsi dalla propria miseria, si mescolarono, infatti, profittatori e spie, così che la congiura fu presto smascherata. Nell’agosto 1599 Campanella cadde nelle mani degli spagnoli che lo sottoposero a un duplice processo, politico e religioso, per ribellione contro l’autorità politica ed eresia, incarcerandolo nella fortezza di Castel Nuovo presso Napoli. Nel gennaio 1600, mentre si concludeva il processo a Giordano Bruno, Campanella fu interrogato e sottoposto a tortura. Nel contesto di un complesso piano per salvarsi la vita, il frate confessò, aggravando la propria posizione processuale poi, la mattina di Pasqua iniziò una coraggiosa messa in scena per fingersi folle: incendiò il materasso e si fece trovare riverso nella propria cella piena di fumo. Simulò per oltre un anno, resistendo con determinazione alle torture a cui i carcerieri lo sottoponevano per smascherarlo. Il filosofo ne uscì distrutto nel fisico, minato in profondità, ma vincitore: venne infatti dichiarato ufficialmente folle, quindi irresponsabile, sfuggendo così alla pena capitale.

Rimarrà però nelle carceri napoletane per oltre ventisette anni, durante i quali alternerà periodi di carcere spaventosamente duro, come i quattro anni passati in isolamento nella cella sotterranea di Sant’Elmo, e periodi di relativa mitigazione della pena. All’inizio della prigionia, nel 1602, scrive la Città del Sole, in cui immagina una società ideale nella quale strutture e ordinamenti politici non sono espressione di consuetudini e norme ereditate dalla tradizione, ma applicazione al consorzio civile della ragione naturale dell’uomo. Nel 1616, quando Galilei viene ammonito dal cardinale Bellarmino e diffidato dal professare il suo copernicanesimo, trova il coraggio di scrivere dalla sua cella l’Apologia pro Galilaeo, schierandosi in difesa della libera ricerca e contro le interferenze dei teologi in campo filosofico e scientifico, benché intimamente convinto della verità della tradizionale tesi tolemaica.

Negli ultimi anni di carcere, Campanella viene gradualmente riabilitato dalla Chiesa nella quale, a differenza di Bruno, egli aveva sempre desiderato essere riammesso. Nel 1626 il frate viene liberato dagli spagnoli, ma dopo un mese è fermato di nuovo e condotto a Roma davanti al Tribunale della Santa Inquisizione, dove era rimasto pendente il processo per eresia: resterà rinchiuso nel palazzo della Santa Inquisizione per altri due anni. Nel 1628 ottiene di scontare la pena in convento in luogo del carcere, e l’anno successivo sarà definitvamente prosciolto. Sono ormai passati quasi trent’anni dal giorno del suo arresto in Calabria.

Nei successivi cinque anni Campanella alterna successi presso la corte papale alla necessità di difendersi da rancori e sospetti, finché nel 1634 è costretto a fuggire da Roma per sottrarsi a nuove minacce delle autorità spagnole che chiedono la sua estradizione nel Regno di Napoli, accusando il filosofo di essere a capo della nuova congiura antispagnola ordita da un suo discepolo. Si dirige allora verso la Francia, dove viene accolto benevolmente da Luigi XIII – che gli era grato dell’orientamento filofrancese da lui tenuto a Roma – e dagli accademici della Sorbonne e dove, ad Aix-en-Provence, ha occasione di discutere con Pièrre Gassendi. Cartesio, invece, in ossequio alla pavida prudenza di cui faceva teoria (larvatus prodeo), si rifiutò di incontrarlo. Morirà poco dopo, nel 1639 (Parigi, 21 maggio 1639). Tra i suoi aforismi: «la morte è dolce a chi la vita è amara».

Della plebe

Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze; e però stassi
a pesi e botte di legni e di sassi,
guidato da un fanciul che non ha possa,
ch’egli potria disfar con una scossa:
ma lo teme e lo serve a tutti spassi.  

Né sa quanta è temuto, ché i bombassi
fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa.
Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona
con le man proprie, e si dà morte e guerra
per un carlin quanti egli al re dona.

Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,
ma nol conosce; e, se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.

Sopra il Pater Noster

Allor potrete orar con ogni istanza
che venga il regno, ove il divin volere,
come si fa nelle celesti sfere,
si faccia in terra e frutti ogni speranza.

Ché i poeti vedran l’età ch’avanza
ogn’altra, come l’òr tutte minere;
e ‘l secolo innocente, che si chere
ch’Adam perdéo, darà la pia possanza.

Goderanno i filosofi quel stato
che d’ottima repubblica han descritto,
che in terra ancora mai non se trovato;
e i profeti in Sion, fuor di dispitto
lieto Israel da Babilon salvato,
con più stupor che l’esito d’Egitto.

 

I verbali delle torture

Firpo, Il supplizio di Tommaso Campanella, Verbale del supplizio della “veglia”, tratto da una raccolta di Luigi Amabile del 1882.

Giorno 4 di giugno 1601, a Napoli, nel regio Castel Nuovo, al cospetto dell’illustrissimo signor Jacopo Aldobrandini, vescovo di Troia, nunzio apostolico in questo regno, dell’illustre e reverendissimo signore don Benedetto Mandina, vescovo di Caserta, e del reverendissimo signor Ercole Vaccari, protonotario apostolico e vicario generale di Napoli, giudici delegati nonché di me notaio. Alonso Martinez, carceriere delle prigioni del Castel Nuovo, per ordine dei Signori predetti condusse alla loro presenza fra Tommaso Campanella, il quale, ritto in piedi di fronte ai Signori, essendo stato invitato a giurare di dire la verità, non volle farlo, dicendo invece:

Il Signore Iddio lo ha giurato. Accorri in mio soccorso!”. E cosí i Signori ammonirono lo stesso fra Tommaso a voler smettere la simulazione di follia e di insipienza, perché era ormai giunto il momento di ravvedersi, altrimenti sarebbe andato incontro a grossi guai.veglia

Rispose: “Diece cavalli bianchi”.

E venendo interrogato dai Signori su molti altri punti, sempre rispose in modo incongruente.

Allora i Signori giudici, dando esecuzione alla lettera dell’illustrissimo e reverendissimo signor Cardinale di Santa Severina datata da Roma il 24 marzo prossimo passato, allo scopo di mettere alla prova la simulazione predetta, ordinarono che lo stesso fra Tommaso venisse sottoposto al supplizio chiamato “la veglia”, cioè posto su un supporto di legno, sopra del quale venne legato; e mentre si cominciava a legarlo disse: “Legatimi bene. Vedete che mi stroppiati. Ohimè, Dio! Ohimè, Dio!”. E fu legato a sedere su quel supporto detto “il cavallo”, con le mani dietro le spalle, appeso alla fune della tortura, ed era l’undicesima ora.

Interrogato daccapo a deporre la simulazione, invocò a gran voce:

Monsignor, non vi ha fatto dispiacere! Biàsciami, che sono un santo!; e diceva: Sono santo! abbi pietà! ohimè, Dio, che son morto! ohimè, Dio, frate mio! Io letto mio! Marta e Madalena! ohimè, cor mio! E come mi strengano forte le mani! Oh, che son santo e non ho fatto male e son patriarca! Aiutami, che moro! Mi se’ parente e mi fai queste cose? oh, mamma mia!, oh, misericordia! oh, Cristo mio! E l’altra notte fra Dionisio mi portò lo breve de la Cruciata e non me lo volete dare mo. Ohimè, Dio! E come mi strengio forte! io mi stroppio”, e spesso, gridando, diceva: “Ohimè!.

E sottoposto al supplizio predetto diceva:

Ohimè, dove sono li soldati miei che mi aiutano? Venite, venite, frate mio! Fra Silvestro fu e non fui io, non fici niente io, che ho fatto la Biblia. Non, per Dio, fui io! Ohi, che moro e bruscio! Non, per Dio, fui io! Aiutatemi, frate mio, che casco!.

Interrogato a smettere la simulazione, diceva:

“Ohimè, frate mio, chiamate pàtrimo!” [si riferisce al padre, Gerolamo, ndr] “Mi spogliaro. Non mi ammazzate!”; e mentre diceva queste cose disse: “Stoiàtimi lo naso”, il che venne fatto; e poi diceva: “Per Dio, non fui io, fu fra Silvestro”; e rivolto al signor Vicario di Napoli diceva: “Sí l’arciprete. Lassatimi stare, che vi do quindici carlini. Per Dio, che non fici niente!”.

E venendogli detto di deporre del tutto la sua simulazione, disse:

“Ohimè!”. E dopo esser stato legato per i piedi diceva: “Ohimè, che mi ammazzati!”.

E venendogli detto di smettere la simulazione, disse:

“Non, frate! non, frate! ohimè, che son morto! Mille e seicento”: e venendo toccato dall’aguzzino, strillò dicendo: “Non mi toccare, che sii squartato! Mo me ne vado, frate!”.

E ripetutamente ammonito dai Signori a deporre la simulazione, diceva: “Ohimè, che son morto!”. E avendo udito il suono delle trombette delle triremi attraccate al molo presso il Castel Nuovo, diceva: “Sonate, sonate! Son ammazzato, frate!”.

E ammonito a voler smettere la simulazione, vedendo aperta la porta della camera, diceva: “Aprimi!” e, rivolto all’aguzzino, diceva: “Eh, frate! eh, frate!”.

E venendogli detto di deporre la simulazione, non rispose alcunché, ma per un certo spazio di tempo rimase taciturno a capo chino; e poi, toccato dall’aguzzino, si volse verso di lui e disse: “Eh, frate!” e continuò per la durata di un’ora a rimanere col capo e il busto chinati.

E venendogli detto di voler deporre di fatto la simulazione, non rispondeva cosa alcuna.

E piú volte interrogato se voleva scendere, perché sarebbe stato sciolto se aveva intenzione di giurare e di rispondere formalmente alle domande che gli sarebbero state proposte, giú altre volte formulate o da formulare, fece solo un cenno col capo, ma rifiutò di dare una risposta per il sí o per il no.

E poiché diceva: “Mo mi piscio” e voleva esser calato a tale effetto, venne calato; e poi disse: “Mo mi caco”, e venne tradotto alla latrina, per esser poi condotto al cospetto dei Signori.

E interrogato dai Signori circa il suo nome, rispose: “Mi chiamo fra Tommaso Campanella”.

Interrogato circa la sua patria d’origine e la sua età, non diede alcuna risposta alle domande.

Allora i Signori ordinarono che lo stesso fra Tommaso Campanella venisse sottoposto al supplizio predetto, e come vi fu collocato e sistemato nel modo predetto, ecco che diceva: “Mo mi ammazzati, ohimè, ohimè!” e tacque.

Interrogato a smettere la simulazione, non rispose alcunché alle domande, ma poiché l’aguzzino gli diceva: “Non dormire!”, egli, rivolto a lui, rispondeva: “Sedi, sedi alla seggia, taci, taci”.

E quando l’aguzzino gli parlava, rispondeva: “Zitto, zitto, frate mio!”.

E avendolo invitato i Signori a rispondere alle domande, cioè quale fosse la sua patria d’origine e quale la sua età, rispose: “Aiutami, frate!” e tacque.

E avendogli detto i Signori di smettere la pazzia e di rispondere alle domande, non diede nessuna risposta alle interrogazioni, e taceva.

Ed essendo stato ammonito piú volte a voler deporre la follia e a rispondere alle domande, benché piú volte interrogato, non diede alcuna risposta, e taceva.

E dopo essere rimasto sotto il suddetto tormento senza interruzione ed essendo la ventiquattresima ora, uno dei Signori lo invitò a chiedere qualcosa ai Signori, ma egli, scuotendo il capo, diceva: “Ohimè, ohimè!” e tacque.

E i signori gli dissero di smettere la pazzia e di rispondere alle domande, e lui, fissando i Signori, gridava dicendo: “Ohimè!”.

E come fu sonata la prima ora di notte, gli fu detto dai Signori di smettere e di rispondere alle domande circa la sua età e la sua patria d’origine, ed egli guardava i Signori, e gridò: “Non fati, che ti sono frate!” e tacque.

E venendogli detto dai Signori di voler finalmente smettere la follia e di rispondere alle domande, disse: “Dàtimi da bere”, e cosí gli fu dato da bere, e poi gridò, dicendo: “Aiutami, gioia mia!”.

E ammonito ripetutamente dai Signori a voler deporre la pazzia e quindi a rispondere puntualmente alle domande, taceva, ma sembrava in grado di capire e percepire con attenzione le parole che gli erano dette e i richiami a lui formulati, e poi diceva: “Cicco vono l’ammazzò”.

E intanto batté la seconda ora di notte, e gli fu detto di smetter la pazzia e di dire la sua età e patria, e non dava nessuna risposta alle domande, ma diceva: “Oh, Iddio, non mi ammazzati, frate mio!” e fissava quanti stavano attorno.

E interrogato perché manifestasse la propria patria, e se era laico o religioso, disse alcune parole incongruenti, e poi diceva:

“Sono de Stilo, e sono frate dell’ordine di San Domenico e da messa”; e disse queste cose dopo molte, anzi moltissime ammonizioni, e diceva anche: “Fici lo monastero di Santo Stefano con tre monaci, e presi l’abito alla Motta Gioiosa, dove è Lucrezia mia sorella e Giulio mio fratello”, e tacque.

Poi diceva: “Mia sorella si chiama Emilia, figlia di mio zio, e io la maritai”.

E poiché chiede da bere, dicendo: “Dàtimi a bevere vino”, gli fu dato da bere del vino. E poi diceva: “Ohimè, tutto mi doglio!”.

E interrogato piú volte, non rispondeva alle domande, ma diceva: “Zitto, frate mio!”.

E venendogli detto di rispondere a quanto gli viene proposto, smettendo la pazzia, diceva: “Ohimè, non mi ammazzati! tu mi se’ frate”.

E venendogli detto di smettere la pazzia e di rispondere a quello che gli si diceva, non dava alcuna risposta alle domande, ma riguardava gli astanti volgendosi ora qua e ora là, dicendo: “Son morto! non mi ammazzati! chiamàti pàtrimo!” e di tanto in tanto diceva: “Zitto, frate mio!” e altre cose senza senso.

Ed essendo stato richiamato lungo l’intero corso della notte col dirgli: “Fra Tomasi Campanella, che dici? non parli?”, non diceva cosa alcuna, ma rimase sempre sveglio, guadando qua e là, essendo state accese le candele.

E spuntato che fu il giorno, aperte le finestre e spenti i lumi, dato che detto fra Tommaso Campanella se ne stava in silenzio, gli fu detto di smettere la pazzia, e di parlare, e di chiedere qualcosa; e lui rispondeva: “Moro, moro!”.

E venendogli detto di smettere la pazzia e di dire quando e da chi venne catturato e per qual causa, rispondeva: “Son morto, son morto non posso piú, non posso piú per Dio!” e tacque.

Interrogato a smettere la pazzia e a rispondere a quanto gli viene detto, rivolto verso chi lo interrogava, diceva: “Moro, moro!”.

E poiché sembrava sul punto di svenire, i Signori ordinarono di calarlo dal supplizio predetto e di farlo sedere, e cosí fu fatto, e stando seduto diceva di voler orinare, e venne tradotto alla latrina esistente vicino alla stanza della tortura: e poco dopo suonò l’undicesima ora.

E dato che chiedeva delle uova, i Signori ordinarono di dargliele, e cosí gli furon date tre uova da bere; e alla domanda se volesse bere rispondeva di sí, e cosí al predetto fra Tommaso venne dato da bere del vino; e avendo detto che si sentiva morire, i Signori gli domandarono se voleva confessare i propri peccati, e rispose di sí e che venisse chiamato un confessore, che però non venne chiamato perché si riebbe.

E avendo i Signori ordinato di tornare a sottoporlo al predetto supplizio, rispose: “Lasciatimi stare!”.

E venendogli domandato perché avesse tante preoccupazioni per il corpo e nessuna per l’anima, rispose: “L’anima è immortale”.

E volendo gli aguzzini ricollocarlo al supplizio, diceva: “Aspettàti, frate mio”, e venne cosí risistemato nel modo predetto, senza che dicesse una parola.

E dopo essere rimasto sotto il tormento in atteggiamento quieto e silenzioso, disse poi all’aguzzino di spostare piú in alto la fune che gli legava i piedi, perché se li sentiva in fiamme, e i Signori ordinarono che si facesse quanto chiedeva, e cosí continuò a starsene tranquillo.

Interrogato dai Signori se volesse dormire, rispose di sí.

E venendogli detto di rispondere alle domande, perché avrebbe avuto agio di dormire, non diede risposta.

E sotto al tormento gridava, dicendo ripetutamente: “O mamma mia!”.

E dopo la quindicesima ora diurna, con l’occasione della chiamata di fra Dionisio Ponzio per interrogarlo sul riconoscimento di un certo memoriale da lui presentato, i Signori ordinarono al detto fra Dionisio di rivolgersi a detto fra Tommaso posto sotto il tormento e di convincerlo a voler rispondere formalmente alle domande che gli venivano poste e gli sarebbero state poste in futuro, allo scopo di evitare il supplizio, che per lui era del tutto senza scopo, e che senza fallo il sant’Uffizio avrebbe trovato il modo di avere le sue risposte con qualunque mezzo; il quale fra Dionisio svolse quel compito con buona diligenza e modi affettuosi, e discusse e dibatté con lui la questione proposta; e a lui disse che intendeva rispondere alle domande che i Signori gli avrebbero fatte; e allo stesso fra Tommaso fu concesso di venir calato dal supplizio e di rifocillarsi con cibo e bevanda, e per di piú gli fu permesso di recarsi alla latrina in compagnia del predetto fra Dionisio; nel che si consumò lo spazio di oltre un’ora, e poi i Signori ordinarono che si sedesse su uno sgabello vicino al tavolo e lo esortarono a volersi ravvedere, visto che era ormai stremato dalle torture, e a rispondere in forma legale alle domande già fatte e da farsi.

E in modo particolare che narri in qual modo si trovi detenuto in questo Castello. Rispose: “Che voliti da me?”.

E i Signori, rendendosi conto del fatto che detto fra Tommaso forniva solo parole, ordinarono di ricollocarlo sotto il tormento; e lui, cosí sistemato, mostrò all’evidenza di non sentire alcun dolore, e non diceva verbo.

E visto che detto fra Tommaso Campanella se ne stava sempre in totale silenzio, non faceva il minimo movimento e sembrava che non sentisse alcun dolore, e dato che altro non si poteva cavare da lui, che di tanto in tanto ripeteva: “Moro, Moro!”, i Signori ordinarono di farlo scendere con delicatezza dal supplizio predetto, di ridurgli le lussazioni, di rivestirlo e di ricollocarlo nella sua cella, dopo che era rimasto sotto al predetto tormento per circa trentasei ore, e cosí fu fatto, non senza però la formale protesta ecc.

Giovan Cammillo Prezioso

notaio e mastrodatti delle cause della Santa Fede nella Curia arcivescovile di Napoli.

Deposizione di un aguzzino

Il 20 del mese di luglio 1601, in Napoli, al cospetto dell’illustrissimo e reverendissimo signore don Benedetto Mandina, vescovo di Caserta, giudice delegato alla presente causa, e di me notaio ecc. è stato interrogato Giacomo Ferraro della città di Trani, in età di anni, a suo dire, quaranta all’incirca, addetto alla Gran Corte della Vicaria, il quale, dopo essere stato invitato a giurare di dire la verità e dopo che ebbe giurato con la mano ecc., in qualità di citato a deporre venne interrogato sui punti seguenti,. e in primo luogo:

Interrogato su che parole si lasciò dire fra Tommaso Campanella dopo che fu sceso dal tormento della veglia, che li fu dato allo Castello Novo di questa città li giorni passati, e proprio del mese di giugno prossimo passato, che le voglia dire, dove le disse e chi fu presente che l’intese e possío intendere”.

Rispose: “La verità è che, essendo io intervenuto come ministro de la Gran Corte de la Vicaria a dare tormento de la veglia a fra Tomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, avendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello Novo, e cacciatolo cosí in collo da la camera dove ebbe lo tormento fino a la sala Reale, detto fra Tomaso Campanella mi disse da sé le formate o simili parole: – Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare? – e a queste parole non ci fu nessuna persona presente, che l’avesse intese. E dopo consegnai lo detto fra Tomaso Campanella al carceriere e non intesi altro”. Come sopra ha risposto su quanto sa, sul luogo e la data.

E non essendosi potuto da lui ricavare altro, l’interrogatorio venne chiuso, dopo avergli intimato l’obbligo del segreto, sotto pena di scomunica; e avendo dichiarato di non saper scrivere, firmò per conseguenza con un segno di croce.

G. Olmi, Il santo rogo e le sue vittime, Millelire Stampa Alternativa, Viterbo, 1993, pagg. 51-59. Il documento qui riportato è tratto da una raccolta pubblicata da Luigi Amabile in un’opera in tre volumi: Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia , Morano, Napoli, 1882. Lo storico Luigi Firpo li ha ripresi nella sua edizione de Il supplizio di Tommaso Campanella , Salerno Editrice, Roma, 1985.

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