Che cosa suggerisce «la relazione complicata fra feste civili, feste tradizionali, feste religiose, rivolte urbane». La festa come «sospensione dell’ordinarietà» è il simbolo della nostra identità. Per questo vogliono toglierle. Ma è anche il consumo ad aver «mangiato» la festa, come dimostrano i riots inglesi.
«Nelle società tradizionali – scriveva Alfonso Di Nola – le feste corrispondono a “un periodo di intensificazione della vita collettiva” durante il quale “il gruppo rinunzia alla sua attività normale, produttiva e utile” per ricostituire la propria “sicurezza di essere”» – il senso cioè del proprio esistere come gruppo. Sembra una definizione fatta su misura per la recente festa dei 150 anni dell’unità d’Italia, pensata come un momento di sospensione dell’attività ordinaria per riflettere sul significato del nostro stare insieme – e invece è successo tutto il contrario, e si è aperto un conflitto sia sull’oggetto (l’unità nazionale), sia sull’idea stessa di festa (pensare e ricordare invece di lavorare e produrre). La festa è un momento di consenso, ma in quel giorno quel tanto di intensificazione della vita collettiva che si è verificato è stato dovuto in gran parte proprio a una divisione, all’esistenza di una componente sociale (antiunitaria e produttivistica) che non vi si riconosceva.
E’ questa componente che, sul piano simbolico e forse non solo, cerca la rivincita proponendo, attraverso spostamenti e accorpamenti, se non la scomparsa certo l’attenuazione di una serie di momenti rituali intesi a ribadire la nostra «sicurezza di essere» come repubblica (il 2 giugno) democratica (il 25 aprile) fondata sul lavoro (il 1 maggio). Infatti questa proposta è parte organica di un progetto che mira a trasformare e svuotare la costituzione democratica e antifascista e i diritti dei lavoratori, e ne condensa il significato: cavalcare la crisi per cambiare la natura e la forma del nostro esistere come gruppo.
Il modello ideale di festa a cui si riferiva Di Nola era riferito a società relativamente coese e omogenee, come si rappresentano le società tribali, contadine e pastorali. Nella modernità urbana e capitalistica, la coesione non ha più la forma dell’omogeneità, bensì quella della gestione regolata dei conflitti fra i sottogruppi molteplici e contrapposti che la compongono. Anche la festa allora diventa un momento di conflitto e dal conflitto acquista senso: basta pensare a come l’avvento del primo governo anti-antifascista di Berlusconi-Fini ha ravvivato il 25 aprile, a come proprio l’assenza ostentata del capo del governo abbia rinforzato il significato della nostra presenza. Ma anche a come il senso del 1 maggio si sia attenuato con la sua trasformazione da un momento di orgoglio operaio a una della tante festività musicali giovanili in cui non è lecito dire nulla di controverso; o come il 2 giugno – nonostante le parate militari – abbia ripreso senso quando ci siamo accorti che la Costituzione era sotto attacco.
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