I caratteri della modernità filosofica
Frank McCourt, Ehi Prof!
Il terzo libro di Frank McCourt, uscito per Adelphi, si inserisce degnamente nella letteratura tragicomica dedicata alla scuola. Segnalo due passaggi che, anche fossero gli unici, meriterebbero la lettura: «Com’è che ci hai messo tanto?» (a pubblicare un libro, ndr) «Insegnavo. Ecco com’è!», e «i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare»: effettivamente, quando li terremo impegnati a prepararsi per i test INVALSI il rischio sarà pienamente scongiurato.
In Ehi, Prof, McCourt parla della sua vita da professore. Trentamila ore di insegnamento racchiuse in aneddoti, dialoghi, scontri. Un insieme di tanti episodi che riproducono il clima delle aule dove ha lavorato, con il coro di voci, quelle dei suoi dodicimila allievi sempre in sottofondo. Il protagonista è un docente davvero particolare, a tratti bizzarro, sempre indeciso sulla scelta del suo mestiere, allergico alla burocrazia, incapace di ingraziarsi i superiori. La paura di aver sbagliato tutto, di essere, alla fine, solo “un ciarlatano” [quanto ti capisco Frank, ndr.] è sempre dietro l’angolo. Intanto gli anni passano e McCourt continua a lavorare nelle scuole, tra alti e bassi, delusioni e gioie, non smette di cercare un rapporto diverso, diretto con i suoi studenti. Ma la passione che anima questo mick (come venivano chiamati gi irlandesi), anche se non viene mai direttamente dichiarata, appare in controluce quasi in ogni pagina. E, alla fine, sarà proprio uno de suoi ragazzi a dirgli “Ehi professore. Lei dovrebbe scrivere un libro, sa?” Esattamente quello che farà il suo vecchio insegnante.
[tratto dalla recensione del Sole24Ore] Le tragicomiche avventure del prof. vengono scandite dai racconti di piccoli avvenimenti, come se tre decenni fossero dipinti con pennellate veloci, vibranti, dai colori intensi. Sono pagine cariche di ironia, la vera cifra stilistica di questo narratore. Con una prosa concisa, semplice, efficacissima, conduce il lettore nel mondo della scuola americana, dove gli studenti sembrano già parti di una catena di montaggio e dove “i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare”. E allora, ecco le avventure e le disavventure del professore irlandese, da quando rischia di venire licenziato, al suo primo giorno di lavoro, perché raccoglie da terra il panino di uno studente e se lo mangia, a quando lo troviamo intento a far declamare ai suoi allievi una serie di ricette culinarie di ogni parte del mondo, mentre altri compagni, accompagnano la descrizione di ogni pietanza con gli strumenti musicali più adatti.
Nella quarta di copertina si legge:
«Frank McCourt racconta come si combatte il disastro scolastico – che non è, ahinoi, solo quello del presidente Ike Heisenhower – e come sul mutuo soccorso che c’è tra i due lati della cattedra si possa fondare il senso della vita […]».
Tra i molti episodi toccanti, scelgo la storia di Ken, ragazzo coreano che odiava suo padre. L’antefatto è la lettura in classe della poesia di Theodor Roethke, Il valzer di mio papà, il cui soggetto è il rientro a casa ubriaco di un padre lavoratore che prima di mettere a letto il figlioletto, lo coinvolge in una danza intorno al tavolo di cucina, mentre gli batte il tempo sulla fronte con una mano sporca e ferita. Anni dopo, dalla sua stanza di college, il ragazzo invia una lettera al vecchio prof. per raccontargli cosa gli resta di quella poesia:
Ken era un ragazzo coreano che odiava il padre. Raccontò alla classe che era stato costretto a prendere lezioni di pianoforte anche se a casa il piano non lo avevano. Il padre lo obbligava a esercitarsi sul tavolo di cucina e se gli veniva il sospetto che non facesse le scale a dovere, lo bacchettava sulle dita con una spatola. Stessa cosa per sua sorella di sei anni. Quando ebbero abbastanza soldi per comprarsi un pianoforte vero e la
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