Il caso Irlanda, ovvero una crescita che crea miseria
Il professor Hegel
Ho sempre amato Hegel, come già Machiavelli, per la severità della prova a cui sottopone ogni spirito critico che non si accontenti delle consolazioni dell’anima bella, e per aver armato l’intelligenza di Marx.
Dalla biografia dei filosofi si traggono di solito quegli spunti o quegli eventi che spiegano e rendono concreta l’urgenza delle loro teorizzazioni; il modello vita-e-opere, insomma, è didatticamente tramontato. Accade così che, mentre si affronta la Fenomenologia dello spirito, del giovane Hegel si ricordi l’attonito stupore per aver visto “lo spirito del mondo a cavallo” (Napoleone) entrare a Jena, o la fuga dalla città con i manoscritti del capolavoro sotto braccio, giusto il giorno prima dell’arrivo dei napoleonici che con le carte degli scrittoi jenesi accendevano i caminetti, l’amicizia studentesca con Schelling e l’irreparabile rottura dopo il sarcasmo della Fenomenologia sul suo assoluto paragonato a “una notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Lo si ritrova, di solito, a Berlino, professore celebrato e grande antagonista di Schopenhauer, di cui fu esaminatore nel concorso per la libera docenza durante il quale scoppiò il celebre diverbio sul quadruplice principio di ragion sufficiente. Hegel diventa allora l’uomo che tolse all’autore del Mondo anche il pubblico universitario, convocato dall’astioso contendente nello stesso orario in cui il grande professore teneva le sue lezioni, in una competizione dalla quale il filosofo di Danzica uscì sempre sconfitto.
Di quegli anni berlinesi si tende così ad avere un’idea schopenhaueriana, quella dell’accademico di successo “insediato dall’alto, dalle forze al potere”, anche senza condividerne necessariamente la tombale visione di “sicario della verità”. Può stupire allora, il ritratto che ne fecero i suoi studenti, dal quale emerge un uomo niente affatto condizionato dalla ricerca del successo, ma un introverso spesso in guerra con le parole, messaggere malcerte della sua filosofia.
Antonio Gargano, La filosofia hegeliana del diritto
Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto, p. XIX si trovano queste proposizioni. Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizioni anche da tali che non vogliono si metta in dubbio che essi posseggano filosofia […]. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta cultura che si sappia non solo che Dio è reale, – che è la cosa più reale e che è la cosa veramente reale, – ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà. Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l’errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggiera esistenza. Ma già anche per l’ordinario modo di pensare, un’esistenza accidentale non meriterà l’enfatico nome di reale: – l’accidentale è un’esistenza che non ha altro maggior valore di un possibile, che può non essere allo stesso modo che è. Ma, quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto pensare al senso nel quale adopero quest’espressione […].
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § VI
Nelle poche pagine della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto si trova un concentrato del pensiero di Hegel. «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale», «la filosofia è come la nottola di Minerva», «la filosofia è come il cogliere la rosa nella croce», «è lo scandaglio del razionale», «è il proprio tempo appreso con il pensiero»: tutte queste celebri e lapidarie definizioni si trovano nella Prefazione alla Filosofia del diritto. Già questo è indizio del fatto che siamo di fronte a un’opera decisiva del filosofo di Stoccarda.
Hegel è un pensatore molto sistematico, e per questo è opportuno collocare all’interno del sistema la filosofia del diritto, che rientra nella trattazione dello spirito oggettivo.
Riprendiamo il quadro generale, che, in due parole, è il seguente. Hegel è il massimo esponente della filosofia idealistica, che affronta il compito di superare il dualismo kantiano. Kant aveva a sua volta superato le difficoltà del razionalismo e dell’empirismo, ma aveva aperto un nuovo piano di difficoltà, aveva cioè scisso il mondo del fenomeno dal mondo della cosa in sé, sviluppando un pensiero di tipo dualistico. Dalla scissione, dalla spaccatura tra fenomeno e cosa in sé conseguiva tutta un’altra serie di dualismi: tra il soggetto e l’oggetto, tra gli intenti morali del soggetto e la loro possibilità di realizzazione, ecc. Il dualismo iniziale tra io e mondo, tra fenomeno e cosa in sé, la barriera tra il soggetto e l’oggetto si ripercuotono in tutto il pensiero kantiano. Si tratta di un limite del pensiero kantiano, perché, se è vero che è complicato spiegare la realtà e ricondurla a un principio, è ovvio che si duplicano i problemi se invece di un principio se ne pongono due, come fa Kant. L’idealismo costituisce il tentativo di ricucire questa spaccatura, di arrivare a una visione fortemente unitaria, fortemente monistica, e quindi più logica, più rigorosa della realtà. Il percorso dal dualismo kantiano a una filosofia rigorosamente monistica culmina in Hegel, dopo gli sviluppi precedenti di Fichte e Schelling.
Vladimiro Giacché, Sulla privatizzazione disastrosa del Monte dei Paschi
Come spesso accade in Italia, dallo scandalo che ha investito il Monte dei Paschi di Siena si stanno traendo le conclusioni sbagliate. Ed è un vero peccato, perché si tratta di una vicenda emblematica, che ci racconta un pezzo importante della storia di questo paese negli ultimi 20 anni. Proviamo quindi a mettere un po’ in fila i fatti.
Nei primi anni Novanta il Mps viene privatizzato, come l’intero sistema bancario italiano, attraverso le Fondazioni bancarie (società miste pubblico-private senza fini di lucro, secondo la Sentenza n. 300/2003 della Consulta), che ne assumono il controllo azionario. A fine decennio, non vi sarà praticamente più alcuna banca pubblica (mentre ancora all’inizio degli anni Novanta il 73% del sistema bancario italiano era in mano pubblica).
Allora si disse che quelle privatizzazioni erano necessarie non soltanto per fare cassa e comprarsi il biglietto per l’Europa e la moneta unica, ma anche per ammodernare il nostro sistema bancario e renderlo più efficiente. Furono così privatizzate tutte le grandi banche commerciali, tutte le banche a medio-lungo termine (che facevano credito per gli investimenti delle imprese), e addirittura banche di sviluppo come il Mediocredito Centrale (mentre nel resto d’Europa gli Stati si guardavano bene dall’alienare le banche di sviluppo: si veda ad esempio il KfW tedesco).
Slavoj Žižek, La normalizzazione della tortura
Ecco come, in una lettera al Los Angeles Times, Kathryn Bigelow ha giustificato come Zero Dark Thirty mostri dei metodi di tortura utilizzati dagli agenti del governo per catturare e uccidere Osama Bin Laden:
“Quelli di noi che lavorano nelle arti sanno che la rappresentazione non è approvazione. Se così fosse, nessun artista sarebbe in grado di dipingere le pratiche disumane, nessun autore potrebbe scriverne, e nessun regista potrebbe approfondire i temi spinosi della nostra epoca”.
Davvero? Non c’è bisogno di essere un moralista, o ingenuo sulle urgenze della lotta contro gli attacchi terroristici, per pensare che torturare un essere umano è di per sé qualcosa di così profondamente sconvolgente che a rappresentarlo in maniera “neutrale” – ossia neutralizzare questa dimensione sconvolgente – sia già una forma di approvazione.
Immaginate un documentario che avesse rappresentato l’Olocausto in un modo indifferente, disinteressato, come una grande operazione logistico-industriale, focalizzandosi sui problemi tecnici (trasporto, smaltimento dei corpi, evitare il panico tra i prigionieri per essere gasati). Un tale film incarnerebbe un fascino profondamente immorale con il suo argomento, oppure conterebbe sulla neutralità oscena del suo stile per generare sgomento e orrore negli spettatori. Dove si posiziona Bigelow in questa distinzione?
Senza ombra di dubbio, lei si trova sul lato della normalizzazione della tortura. Quando Maya, l’eroina del film, assiste al primo “waterboarding” (la tortura dell’acqua), è un po’ scossa, ma impara velocemente le regole; in seguito nel film lei ricatta freddamente un prigioniero arabo di alto livello dicendo: “Se non parli con noi, vi consegneremo a Israele “. La sua ricerca fanatica di Bin Laden aiuta a neutralizzare ordinari scrupoli morali.
Molto più inquietante è il suo partner, un giovane, barbuto agente della CIA che domina perfettamente l’arte di passare con disinvoltura dalla tortura alla cordialità una volta che la vittima ha ceduto (accendendo la sua sigaretta e condividendo barzellette). C’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui, in seguito, cambia da torturatore in jeans ad burocrate di Washington ben vestito. Questa è la normalizzazione allo stato puro e più efficiente – c’è un po’ di malessere, più riguardo ad una sensibilità ferita che all’etica, ma il lavoro deve essere fatto.
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