Archive for Novembre, 2013

22 Novembre, 2013

Anne Grynberg, L’hitlerismo

by gabriella

L'impossible oubliPropongo la traduzione [mia] del capitolo, L’Hitlerisme, del libro di Anne Grynberg, L’impossible oubli (Paris, Gallimard, 1995). Il volume fa parte della documentazione offerta ai partecipanti del seminario sulla Shoah organizzato dal Mémorial de la Shoah di Parigi nel novembre 2009, nel quadro del Programme Pestalozzi del Consiglio d’Europa.

 

Dal Mein Kampf – 1924

L’Ebreo resta nel posto dove si è stabilito e ci si radica a tal punto che non si può cacciarlo che molto difficilmente anche impiegando la violenza. Egli è, e resta, il parassita tipo, l’incubatore che come un bacillo nocivo, si stende sempre più lontano appena che una sola opportunità favorevole gli si presenta. L’effetto prodotto dalla sua presenza è quello delle piante parassite: là dove si attaccano i popoli che li accolgono si spengono».

A. Hitler, Mein Kampf

L’Antisemitismo è uno dei principali fondamenti della concezione del mondo di Hitler, come è esplicitata nel Mein Kampf (La mia battaglia), l’opera che Hitler redige nel 1924 nella prigione di Landsberg dove era stato incarcerato per nove mesi dopo la sconfitta del putsch di Monaco, e che costituisce al tempo stesso una autobiografia, un trattato teorico e un programma di governo.

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22 Novembre, 2013

Storia per immagini dei movimenti antisegregazionisti afroamericani

by gabriella

Rosa Parks

davis

Angela Davis

Il 1 dicembre 1955, mentre torna a casa dal lavoro in autobus, la rammendatrice Rosa Parks rifiuta di cedere il suo posto ad un bianco. Il suo arresto e il seguito processuale scatenano il boicottaggio dei lavoratori neri della compagnia di trasporti di Montgomery (Alabama) che – dopo 381 giorni di proteste e la pronuncia della Corte Suprema contro la segregazione – è costretta ad abolire la riserva dei posti ai bianchi: prima di allora, questi viaggiavano seduti sui posti anteriori, mentre i neri su quelli posteriori; tra i due spazi si trovava una sorta di terra di nessuno nella quale i neri potevano sedersi se non c’erano bianchi a pretenderli, ma che dovevano lasciare se richiesti: l’attivista per i diritti civili Rosa Parks si sedette su uno di questi.

 

Dissero che quel giorno non mi alzai perchè ero stanca – sostiene la Parks nella sua autobiografia – ma non è vero, ero invece stanca di cedere.

 

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22 Novembre, 2013

Gianluca Gabrielli, Scuola di razza

by gabriella
Giuseppe Bottai, Ministro dell'Educazione nazionale

Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale

Razzismo e società italiana

Nella scuola di primo grado, coi mezzi acconci alla mentalità dell’infanzia, si creerà il clima adatto alla formazione di una prima, embrionale coscienza razzista, mentre nella scuola media il più elevato sviluppo mentale degli adolescenti, già a contatto con la tradizione umanistica attraverso lo studio delle lingue classiche, della storia e della letteratura, consentirà di fissare i capisaldi della dottrina razzista, i suoi fini e i suoi limiti. La propagazione della dottrina continuerà, infine, nella scuola superiore dove la gioventù studiosa, col sussidio delle cognizioni umanistiche e scientifiche già acquisite, potrà approfondirla e prepararsi ad esserne, a sua volta, divulgatrice e animatrice.

Giuseppe Bottai, 6 agosto 1938

È opinione diffusa, e prevalente nel circuito di informazione giornalistico e televisivo odierno, che il razzismo in Italia sia un elemento sostanzialmente estraneo all’identità nazionale. Gli opinionisti che si spingono a proiettare lo sguardo indietro nel tempo concedono al massimo il riconoscimento dell’aberrazione delle leggi del 1938, salvo addebitarne la responsabilità non tanto al fascismo quanto ad una specie di imposizione dell’alleato nazista; così facendo attribuiscono implicitamente al razzismo di Stato la natura di parentesi che, essendo il risultato di una forzatura esterna, una volta dissolto l’agente responsabile non poteva altro che chiudersi nel 1945 senza strascichi.

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22 Novembre, 2013

Santino Spinelli, Rom, genti libere

by gabriella

L’intervista de La Repubblica a Santino Spinelli in occasione della pubblicazione di Rom, genti libere.

Alzare il velo del pregiudizio è necessario per conoscere realtà di cui spesso non sappiamo nulla se non quel poco che appare, deformato, dagli stereotipi e dalle mezze verità. Utile per svelare tutto quello che è doveroso sapere sui Rom, è appena uscito il libro di Santino Spinelli, in arte Alexian, un italiano Rom, musicista e compositore, poeta, attore e saggista, oltre che docente di Lingue e processi interculturali all’Università di Chieti. Il suo Rom, genti libere, storia arte e cultura di un popolo misconosciuto, (Dalai editore) è il frutto di ben venticinque anni di studi e ricerche ed è un libro illuminante ma non certo facile, anzi per certi versi perfino ruvido, severo nei confronti di chi identifica grossolanamente i Rom con gli zingari e ambizioso nel suo proposito di restituire l’identità “invisibile” alla sua gente.

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22 Novembre, 2013

Francesco Cecchini, Ascari e massacri fascisti in Eritrea

by gabriella

Eritrea, l’altopiano e Asmara la capitale, la Dankalia, vulcani e un lago di sale, una costa di centinaia di chilometri lungo il Mar Rosso, Massaua, porto tropicale di fronte alle isole Dahalak. Nell’immaginario di molti italiani, non solo di quei pochi, ancora in vita, che hanno perduto un’esistenza di privilegi, questa terra era una volta l’Eritrea Felix. Se nelle vicine Libia ed Etiopia i colonialisti ed i fascisti avevano stuprato, torturato ed ucciso, qui si erano comportati bene, portando civiltà e benessere anche per gli eritrei.

Ma  è  una falsità storica che la nostalgia per il paradiso perduto alimenta. I bianchi hanno costruito  per loro stessi. Le infrastrutture, strade, ponti, ferrovie, fabbriche ed aziende agricole sono state costruite e formate per  il proprio sviluppo economico e  benessere. Hanno edificato ville ed alberghi dove vivere con privilegi, chiese dove pregare il proprio dio, bar, ristoranti e bordelli  dove divertirsi.  Non sono stati regali di civiltà al popolo eritreo. La missione dei coloni non è stata quella  di migliorare le condizioni di vita degli indigeni. Eritrea felix per il bianco, Eritrea infelice per il popolo eritreo, una razza integrata al progetto coloniale come razza inferiore con funzioni subordinate e servili. La ferrovia Asmara-Massaua, i ponti, le architetture di Asmara ed altro, esistono ancora e sono utilizzati, ma non sono un regalo, bensì un bottino di guerra del popolo eritreo, che ha conquistato con l’indipendenza le opere degli italiani.

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14 Novembre, 2013

Paolo Ercolani, Le metamorfosi del potere

by gabriella

leviathanParafrasando un celebre frammento di Eraclito, in cui il grande filosofo antico si riferiva alla natura, potremmo dire che l’epoca della società in rete, o della globalizzazione, è quella in cui il potere ha subito una trasformazione tanto poco percettibile quanto sostanziale e profonda: siamo infatti passati dal potere che nasconde, censura, manipola o coarta il flusso delle informazioni (o disinformazioni), a quello che ama nascondersi, trasfigurare i propri meccanismi di funzionamento e influenza, mascherare i luoghi del proprio abitare e operare. Lo scopo è sempre lo stesso, la perpetuazione del potere stesso, ma le modalità mutate debbono indurre a più di una riflessione. Dal Rasoio di Occam.

 

 

1. Luci e ombre

Il Potere che ama nascondersi è quello a cui non importa più se e quanto la popolazione possa o debba sapere, perché il suo essere nascosto, tale per cui non si sa bene chi lo detiene, da dove e con quali modalità di esercizio, gli consente comunque di attuare un dominio sulla pubblica opinione (nonché sulle menti e sui corpi degli individui), ancora più capzioso perché in grado di inserirsi nei meandri della mente collettiva e assurgere al rango di senso comune consolidato, pensiero unico difficilmente smentibile se non al prezzo di essere tacciati di follia o paranoia.

 A un livello squisitamente tecnico la questione non deve sorprendere più di tanto, se è vero che già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause:

«il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce»[1].

 Tanto l’oscurità più totale, quanto un eccesso di luce producono degli esseri umani incapaci di pervenire alla distinzione chiara delle cose e quindi alla conoscenza, limitandoli bene che vada a una pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. E qui entra in gioco la Rete, onnipotente e generosissima dispensatrice di informazioni infinite e di ogni genere, in cui è possibile rintracciare l’avallo a qualsiasi ipotesi anche strampalata e al suo contrario. Il risultato, ovviamente, è quello di una impossibilità di approssimarsi a delle verità nitide, abbagliati dalla troppa luce dell’«opulenza informativa» e dimentichi che il tutto confina paurosamente con il nulla.

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13 Novembre, 2013

Ugo Fabietti, L’Occidente: una cultura tra le tante

by gabriella

WASP

WASP

La reazione a Razza e storia e le conseguenze culturali del lavoro di Lévi-Strauss.

La pubblicazione, nel 1952, di Razza e storia non passò inosservata. Accanto alle lodi per un testo che affrontava in maniera diretta e ampia lo spinoso problema del rapporto tra “razza”e civiltà, vi fu chi espresse decise riserve che furono però – è bene precisare subito – il segno di una fondamentale incomprensione di gran parte della cultura fran­cese di allora. C’erano stati la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto; il colonialismo era morente; i problemi demografici e alimentari ricevevano allora, per la prima volta nella storia, un’attenzione mondiale. Non si trattava più soltanto di studiare sperdute umanità nel cuore delle foreste o dei deserti. Studiare piccole comunità marginali era certamente ciò che lo stesso Lévi-Strauss aveva fatto in Brasile ma a questo studio e a queste ricer­che egli dava un respiro e un taglio problematico più ampio di quello che aveva fino ad allora caratterizzato l’antropologia nel suo Paese e altrove.

Il rapporto tra culture, il posto dell’uomo nella natura, il diritto che l’Occidente si era assunto di farsi “tutore” delle altre forme di vita sociale e culturale, erano temi “nuovi” per la discussione intellettuale e la preparavano ad altri dibattiti e confronti. E Lévi-Strauss parlava infatti dell’antropologia come di un argine che poteva opporsi all’inarrestabile avanzata planetaria dell’Occidente; avanzata che minacciava di negare la conoscenza e la comprensione – proprio in Occidente – delle umanità “altre”. Erano in pochi, allora, a capirlo davvero.

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13 Novembre, 2013

Roberto Lolli, La filosofia è davvero occidentale?

by gabriella

SocrateRiporto la trattazione del tema affrontata da Treccani.it globalmente, seppure al costo di notevoli semplificazioni. La tesi di Lolli è infatti che il “pensiero” non può essere detto solo occidentale, perché in tal caso si riprodurrebbe il paradosso fine-ottocentesco di disconoscere il contributo della storia non occidentale al progresso umano. Confesso di trovare tale approccio poco convincente perché, sgombrato il campo dagli equivoci dell’evoluzionismo sociale, identificare le specificità (nello stile dell’antropologia novecentesca) delle culture umane è tutt’altro che in conflitto con il riconoscimento della loro uguale dignità.

In relazione all’originalità dei greci, né Vernant, né Jaeger, fondarono la tesi della specificità della filosofia sul presupposto di una superiorità occidentale, intesa quale punto d’arrivo di un cammino umano presunto unitario. Entrambi insegnarono a riconoscere l’unicità e originalità dei greci nella nascita di un pensiero che si ritenne capace di comprensione del mondo al di là delle narrazioni mitiche (fu dunque laico) e si mostrò capace di decostruire le narrative dei potenti (democratico), identificando un modello di autonomia e libertà tipico, in effetti, della weltanshauung di questa parte di mondo [si veda, per approfondire, la ricostruzione di Jaeger da me utilizzata per realizzare le lezioni su Esiodo e Solone]. In sintesi, ciò che può dirsi unico della filosofia greca è il suo inizio che resta straordinario nonostante i suoi infiniti sviamenti ed esiti successivi.

 

Oriente e Occidente. La nascita della filosofia

Il “miracolo greco”

In primo luogo, si tratta di stabilire cosa sia filosofia e cosa non lo sia. L’atto di forza è stato compiuto nell’Ottocento dai filosofi (Hegel) e dagli studiosi (Zeller) che hanno identificato la tradizione occidentale scaturita dal pensiero positivo apparso in Grecia nel VI secolo a.C. come ‘la’ filosofia. La celebre tesi di Eduard Zeller nella sua opera monumentale Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt (La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, 1844-1852) è sintetizzata come il “miracolo greco”: questo popolo – nel quale gli intellettuali tedeschi del XIX secolo vedevano la propria prefigurazione – per le specificità proprie elaborò un sapere nuovo, originale, un nuovo modo di interrogarsi razionalmente sul mondo, mentre gli altri popoli restavano immersi in forme più o meno complesse di superstizione, tutt’al più erano stati capaci – Cina e India – di elaborare alcune dottrine, vincolate però alle tradizioni o alle religioni.

Alla tesi “nazionalista” occidentale appare contrapporsi negli stessi anni quella “orientalista” elaborata da Friedrich Schelling e da August Gladisch: solo che l’affermazione sulle origini indiane, egizie, persiane degli spunti di riflessione poi rielaborati dai primi filosofi non faceva, in effetti, che ribadire che il pensiero autenticamente filosofico fosse quello greco e occidentale, mentre all’Oriente si riconosceva il ruolo di riserva e miniera di miti.

La tesi occidentalista include un curioso paradosso: se il pensiero orientale non è filosofico, in quanto limitato nel suo sviluppo dalla religione, perché la filosofia medievale e quella cristiana dovrebbero essere incluse nella tradizione occidentale? Quale criterio non contraddittorio può legittimare l’esclusione di Kŏngfūzĭ (Confucio) o delle Upanishad e l’inclusione di Agostino d’Ippona o di Tommaso d’Aquino? Un mero criterio geografico che fa decidere che tutto ciò che si pensa a ovest degli Urali e a nord di Tunisi è filosofia e il resto superstizione o mito?

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13 Novembre, 2013

John R. Searle, Oggetti sociali e atti linguistici

by gabriella

John Searle, tra i protagonisti del dibattito filosofico internazionale, ha elaborato un’influente teoria degli atti linguistici ruotante attorno al concetto di “intenzionalità”. Estendendo l’analisi del linguaggio alla costruzione della realtà sociale, è giunto a una compiuta teoria delle convenzioni, delle istituzioni e degli oggetti sociali. Tra i suoi libri in italiano: Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale (Milano 2000); La riscoperta della mente (Torino 2003); La costruzione della realtà sociale (Torino 2005); Atti linguistici. Saggi di filosofia del linguaggio (Torino 2009); Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana (Milano 2010).

 

12 Novembre, 2013

Leonardo Daddabbo, Il potere

by gabriella

Oltre il Leviatano 1. Hannah Arendt, potere, relazione, azione

Una nuova visione della politica

“Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono” scrive Hannah Arendt in Vita activa (p. 147, edizione citata in bibliografia). Questa breve citazione è forse già sufficiente a spiegare la presenza di Arendt fra gli autori che hanno sperimentato, nella seconda metà del Novecento, nuovi modelli di pensiero politico. Il potere non è qui un comando proveniente dall’alto, ma un’attività generata dal basso, qualcosa che gli uomini fanno nascere agendo insieme. Ci troviamo di fronte a un pensiero che fonda la politica su elementi assai diversi da ogni precedente tradizione e afferma che la natura del politico può essere compresa solo ponendola in rapporto con la pluralità concreta degli uomini, con la loro capacità di stabilire relazioni, con le parole e le azioni che fanno apparire nel mondo qualcosa di nuovo. L’universo del Leviathan, fatto di obbedienza, rinuncia, autorità e gerarchia sembra quanto mai lontano.
Uno dei testi in cui questa impostazione si sviluppa è Vita activa (The human condition, 1958).

Vita activa

Nel termine ‘vita activa’ Arendt riassume le tre attività umane fondamentali: il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro è l’attività che produce i mezzi necessari a mantenere e riprodurre la vita. Il rapporto tra lavoro e vita è però di tipo ciclico: lavorare produce ciò che permette di vivere, ma una volta riprodottasi, la vita è nuovamente pronta al lavoro. La causa del processo ciclico risiede nel metabolismo dei processi vitali, che obbliga gli uomini a una continua attività il cui unico scopo è quello di alimentare un processo biologico che non può essere interrotto. In ultima analisi, il movimento logorante, ripetitivo e senza fine del lavoro dipende dal fatto che gli uomini hanno un corpo:

“il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo” (Vita activa, p. 81).

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