Archive for 13 Giugno, 2014

13 Giugno, 2014

Jacques Derrida, Qu’est-ce que la déconstruction?

by gabriella
Jaacques Derrida (

Jaacques Derrida (1930 – 2004)

Da un’intervista registrata il 30 giugno 1992 e rimasta inedita fino alla sua inclusione nel numero monografico dedicato al filosofo da Le Monde, in occasione della morte (8 ottobre 2004). Traduzione mia.

Comme quiconque essaie d’’être philosophe, je voudrais bien ne renoncer ni au présent
ni à penser la présence du présent, –ni à l’’expérience de ce qui nous les
dérobe, en nous les donnant.

Jacques Derrida, La philosophie comme acte de résistance

Il faut entendre ce terme de « déconstruction » non pas au sens de dissoudre ou de détruire, mais d’’analyser les structures sédimentées qui forment l’’élément discursif, la discursivité philosophique dans lequel nous pensons. Cela passe par la langue, par la culture occidentale, par l’’ensemble de ce qui définit notre appartenance à cette histoire de la philosophie. Le mot « déconstruction » existait déjà en français, mais son usage était très rare. Il m’’a servi d’abord à traduire des mots, l’’un venant de Heidegger, qui parlait de « destruction», l’’autre venant de Freud, qui parlait de « dissociation ». Mais très vite, naturellement, j’ai essayé de marquer en quoi, sous le même mot, ce que j’appelais déconstruction n’’était pas simplement heideggérien ni freudien. J’’ai consacré pas mal de travaux à marquer à la fois une certaine dette à l’’égard de Freud, de Heidegger, et une certaine inflexion de ce que j’’ai appelé déconstruction. Je ne peux donc pas expliquer ce que c’’est que la déconstruction, pour moi, sans recontextualiser les choses.

[incipit non presente nell’articolo di Le Monde, ma illustrativo dell’intenzione specificamente politica del pensiero di Derrida, ndr.]

«Come chiunque cerchi d’essere filosofo, non vorrei rinunciare né al presente, né a pensare il presente come presenza, né all’esperienza di ciò che ce lo deruba, dandocelo». Jacques Derrida, La filosofia come atto di resistenza

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13 Giugno, 2014

Eleonora de Conciliis, Che cosa significa insegnare?

by gabriella

de_conciliisInsegnare significa essenzialmente produrre soggettività, dar forma a un individuo, strutturare l’informe imprimendovi un segno. Si tratta infatti di una tecnica di governo degli altri che è in grado di formare anche l’oggetto su cui si esercita. Come tale è anche un sintomo, cioè un segno della condizione patologica in virtù della quale si esercita il dominio. Il modo in cui si insegna rivela, pertanto, i tratti decisivi della società contemporanea, facendo emergere la domanda cruciale: si può insegnare, cioè plasmare, governare in un altro modo? Si può farlo in modo diverso da come si è fatto finora? Uno stralcio della bella introduzione di Che cosa significa insegnare?.

Insegnare (insieme a curare e governare) è, per dirla con Freud, un mestiere impossibile, ma è pur sempre una professione (Beruf) weberianamente politica.

Pier Aldo Rovatti, Soggettivazioni

Insegnare vuol dire, alla lettera, imprimere nella mente, fare un segno (signum) dentro qualcuno, avviare un processo attraverso un linguaggio che scrive, incide l’interiorità psichica e così facendo non solo la apre, ma la crea. L’insegnamento produce soggettività: in termini foucaultiani, è una tecnica di governo degli altri che implica il governo di sé, una forma di potere-sapere che è in grado di formare anche l’oggetto su cui si esercita. Questi due significati (segno e governo) si rimandano l’un l’altro e ne dischiudono un terzo, poiché l’insegnamento non è solo trasmissione di un sapere che ha il potere di incidere e con ciò produrre il (s)oggetto; per chi lo impartisce e per chi lo riceve, esso è anche un sintomo che nel quadro clinico della civiltà contemporanea, compare insieme ad altri come spia di una condizione patologica.

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13 Giugno, 2014

Cominciai a insegnare per questo

by gabriella

In questo spezzone, tratto da Auguri professore, di Riccardo Milani, lo sfiduciato professor Lipari riflette sulla lontananza degli studenti dalla scuola, rintracciandone le ragioni nell’essersi formato, a sua volta, in una scuola «che ignora la gioia di vivere» e predica – conformemente alla propria matrice cattolica – «il castigo, la pena, il dolore». Dopo aver ironizzato sulla centralità didattica della «concezione del dolore in Manzoni e Leopardi», il professore prorompe così in un

Gezi Park2

La protesta turca a Gezi Park

Leopardi riteneva che non se potesse più di piagnistei [perché] pensava che la polica vera era dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita. Lui pensava che il fallimento maggiore della politica stava nel non mettere a frutto gli ardori giovanili […] il desiderio di vivere che hai dentro e la rabbia per non poterlo gridare.

Osservando l’interesse della sua allieva davanti a questa interpretazione, Lipari si rende conto di quanto gli piaccia insegnare perché

trasmettere abilità rende abili, trasmettere intelligenza rende intelligenti.

Non si può insegnare senza avvertire e aver voglia di comunicare voglia di vita, e senza quindi abbandonare la pedagogia dell’impegno e del sacrificio.

 

 


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